Sutcliffe
Sutcliffe
La grande
finestra che dava sul mercato di Brixton era l’unica fonte di
luce e aria nella stanza grigia e anonima che presto sarebbe diventata
il loro soggiorno. Quando ebbero portato dentro anche l’ultimo
scatolone pieno di album, videocassette e dvd, spalancarono la
finestra, nella speranza che l’aria pulita si portasse via
l’odore stantio che aleggiava all’interno
dell’appartamento. Una delle imposte, però, si richiuse
subito e non ci fu verso di farla restare aperta come la sua gemella.
Rassegnati, decisero di riposarsi per qualche minuto: uno si
accomodò sul divano, trattenendo a stento una smorfia di
disgusto per la polvere che si era sollevata; l’altro, invece,
prese la sua nuova chitarra e si sedette sul pavimento.
─ Sutcliffe.
Colin fermò il plettro a mezz’aria e sollevò il capo verso Ian.
─ Perché?
Lo
guardò accomodarsi meglio sul logoro divano che con tanta fatica
avevano portato lì dentro. Quasi sorrise al pensiero della
reazione che avrebbero avuto i suoi genitori alla vista di quella
bettola. Poco importava che non gli avessero rivolto parola per
più di un mese; li conosceva fin troppo bene: alla fine si
sarebbero arresi e lo avrebbero aiutato. Non erano come…
─
Dev’esserci per forza un perché?─ interruppe i suoi
pensieri, mentre si allungava in direzione del tavolino e prendeva una
lattina di birra.
─ Quando si tratta di musica, c’è sempre un motivo.
Lo guardò sorseggiare la birra e sorrise quando imprecò perché troppo calda.
─ E poi cos’ha che non va il tuo cognome?─ insistette sinceramente confuso.
Ian assunse
un’aria pensosa, corrucciata. ─ Non lo so…─ sollevò
le spalle indifferente,─ Non mi sembra più il caso di usarlo,
non per seguire una strada che mio padre detesta…
─ Poi,
sinceramente, non capisco questo legame con Stuart Sutcliffe.─
commentò cercando di riportare l’attenzione sulla sua
chitarra,─ Non era nemmeno un vero musicista…─ disse mentre
lasciava scivolare il plettro lungo le corde.
─ Sutcliffe è…─ iniziò a spiegargli in difficoltà,─ Sutcliffe è un’idea. Solo questo.
Le ultime
parole le aveva appena mormorate e, nella vana attesa che si spiegasse
meglio, Colin lo aveva guardato irritato, ma l’altro neanche se
ne accorse, preso com’era a guardare qualcosa alla sua sinistra.
Seduto
sul pavimento, tra la polvere e gli album dei Pink Floyd, tra vecchie
riviste e amplificatori, Colin si sentiva euforico e impaziente di
iniziare quella nuova esperienza con l’amico; non importava se
gran parte dei loro soldi fosse andata persa nell’acquisto della
sua chitarra e nella caparra per quel decrepito appartamento;
né importava che fossero poco più di due ragazzini
inesperti. Quel giorno aveva il sapore di una promessa, qualcosa che
prima o poi avrebbero gustato sicuramente…era solo questione di
tempo.
Sembrava,
tuttavia, che solo Colin fosse preso da quel senso di aspettativa. Ian
se ne stava in silenzio, sorseggiava una birra che neanche gli piaceva
e teneva lo sguardo fisso sulla finestra. In un primo momento, Colin
pensò che fosse attirato dalle palazzine che si vedevano al di
là di essa; ma seguendo più attentamente il suo sguardo,
si rese conto che oggetto del suo interesse fosse in realtà
l’imposta rimasta chiusa. Gli occhi leggermente socchiusi la
studiavano con attenzione e, dall’espressione corrucciata, fu
chiaro che non vedessero semplicemente una finestra: andavano oltre, un
luogo il cui accesso era precluso agli occhi di Colin.
***
Stare seduto in
macchina lo faceva impazzire. Per tutto il tempo in cui si trovava da
solo su quel sedile posteriore, mentre un estraneo guidava
l’elegante automobile, era costretto a un’inerzia che da
giorni cercava in tutti i modi di evitare. Da giorni…Quasi gli
venne da ridere quando si accorse di non avere idea che giorno fosse.
Doveva essere mercoledì. Il trentuno…Esisteva il trentuno
di luglio? Sì, era il trentuno.
Erano trascorsi
dieci giorni, quindi; ma a lui apparivano come una matassa di
avvenimenti intrecciati tra loro in maniera confusa: corse
all’ospedale, incredulità, telefonate e attesa, lunga ed
estenuante attesa.
Forse detestava quell’immobilismo forzato proprio perché gli mostrava la sua condizione.
Stavolta non
poteva aiutare Agnes: non aveva parole di conforto perché non ne
aveva nemmeno per se stesso né poteva alleviare il suo
dolore, perché solo una persona avrebbe potuto farlo e
Colin lo sapeva fin troppo bene, visto che aveva il suo stesso bisogno.
Ma soprattutto non poteva fare nulla per Ian.
— Siamo arrivati.— lo avvertì l’autista.
In
realtà aveva tenuto lo sguardo fisso sul finestrino e lo aveva
già capito da sé; ma stava cercando di prepararsi ad
uscire dal veicolo.
— Non si
stancano mai…— commentò guardando la piccola folla
raccolta all’ingresso dell’ospedale.
— Le conviene aspettare i ragazzi.— rispose l’altro voltandosi appena verso di lui.
Pochi minuti
dopo venne aperto lo sportello e Colin uscì fuori con un
cappello e un paio di occhiali da sole a proteggerlo da fotografi e
fans. Ripensò a tutte le volte in cui aveva preso in giro Ian
perché ricorreva sempre a questi espedienti; adesso, invece,
comprendeva l’amico: era qualcosa di necessario per proteggere la
parte più vulnerabile di sé dalle intrusioni esterne.
— Colin!— lo chiamavano tutti insistentemente mentre camminava verso l’entrata, scortato dalle guardie.
Ma lui non
rispose a nessuno. Neanche in quei giorni difficili i giornalisti e i
paparazzi li avevano lasciati stare: c’era chi si era introdotto
nell’ospedale alla ricerca di notizie e chi aveva ipotizzato che
Ian non avesse sterzato volontariamente. E poi c’erano gli
ipocriti che piangevano l’ennesimo membro del Club27, lasciandosi
andare a commemorazioni fuori luogo.
Dopo aver salutato qualche medico e infermiere, gli fu dato il permesso di entrare nella stanza di Ian.
Chiuse la porta
con attenzione e prese un po’ di tempo prima di voltarsi. Quando
lo fece, provò un senso di fastidio nel trovare le tende
accostate e la stanza in penombra: c’era il sole al di là
di esse, era un peccato.
Fece qualche passo verso il lettino e si costrinse a rivolgervi lo sguardo.
Alla vista del
corpo fragile avvolto da tubi, bende e gesso, chiuse gli occhi e si
strinse le braccia addosso. Sospirò e lo guardò di nuovo.
Avrebbe voluto scuoterlo e gridargli qualcosa contro.
Già da
tempo aveva capito che quel giorno Ian stava andando da lui e
più volte aveva immaginato cosa si sarebbero detti se fossero
riusciti a vedersi.
Ian lo avrebbe
trovato cambiato, ne era certo. Forse avrebbe visto nei suoi occhi la
stessa sicurezza che anni prima Colin aveva scorto in quelli chiari del
ragazzino che suonava il pianoforte in un’aula vuota: la
sicurezza di chi ha scelto la propria strada ed è pronto a tutto
pur di percorrerla.
Forse alla fine
Ian aveva capito le ragioni di Colin: solo se avesse trovato un
percorso che fosse solo suo, sarebbero riusciti ad essere davvero
amici, senza ombre e senza recriminazioni.
E così era stato. Colin alla fine era tornato. Mancava solo Ian.
***
Aveva trovato
Ian davanti alla finestra, intento ad osservare il violento temporale
che infuriava oltre le imposte spalancate. Stranita, gli aveva chiesto
cosa gli fosse preso e perché se ne stesse lì a prendere
freddo e acqua. Poi lui si era voltato a guardarla con un sorriso
enigmatico e Agnes aveva dimenticato le sue domande.
Quel giorno,
Ian era bello da togliere il fiato. Il suo aspetto era inspiegabilmente
diverso: non era qualcosa di nuovo, qualcosa di cui difettasse gli
altri giorni; piuttosto era la mancanza di qualcosa., una leggerezza
insolita e proprio per questo commovente.
Lo guardò con dolcezza mentre le camminava incontro.
─ Finalmente sei a casa.─ le disse baciandola sulle labbra.─ Mi sei mancata oggi…
─ Guardati, sei
tutto bagnato.─ lo rimproverò scostandosi da lui che, senza
nemmeno risponderle, la riavvicinò a sé facendola
borbottare infastidita.
─ Avevo voglia di uscire, oggi.─ soffiò sulla pelle delicata del collo, provocandole un brivido.
─ Con questo tempo?─ chiese stranita.
Lui sollevò il volto e, dopo averle sorriso di nuovo, le prese la mano e la fece avvicinare alla finestra.
─ Non sono
uscito proprio per non fare borbottare la mia ansiosa ragazza.─ le
spiegò mentre la spingeva ad affacciarsi: lo scroscio della
pioggia era interrotto solo dal fragore dei tuoni; il buio era spezzato
solo da lampi improvvisi.
— Perché te ne stai qua?— chiese spingendolo un po’ con la spalla.
— Te l’ho detto…— le rispose con quel sorriso un po’ storto.— Avevo voglia di uscire.
— Io, invece, volevo solo tornare a casa e starmene al caldo.
—
Va’ a metterti più comoda.— le suggerì
allontanandosi dalla finestra. Mentre entrava nella camera che ormai
condividevano, lo vide armeggiare con i suoi album, forse
indeciso tra quale inserire nel giradischi.
Quando, pochi
minuti dopo, tornò nel soggiorno, lo trovò
comodamente seduto sul divano con i piedi appoggiati sul tavolino: una
mano era ferma tra i capelli umidi e l’altra portava alle labbra
quella che sembrava una sigaretta; la testa si muoveva appena al tempo
della musica e mormorava le parole della canzone.
— Vieni?— le domandò facendole cenno accanto a sé.
Non se lo fece
ripetere neanche mezza volta e gli corse accanto, facendolo ridere. Da
quando avevano fatto l’amore per la prima volta, qualcosa tra
loro si era sbloccato: era come se Agnes avesse trovato la chiave per
accedere al mondo di Ian, quel mondo che aveva solo intravisto
ascoltando le sue canzoni. E il premio per tutta la fatica fatta, per
tutte le incertezze che aveva dovuto sopportare era proprio lì,
davanti a lei: Ian, senza muri a dividerli, né difese a ferirla;
Ian…
— Rock’n’Roll Star?— chiese sollevando le sopracciglia.— Da quando ti piacciono gli Oasis?
La
guardò stranito per un momento e, appena l’ebbe
abbracciata a sé, le rispose scrollando le spalle: —
Praticamente da sempre.
—
Sarà, ma credo che sia la prima volta che li sento in questa
casa…— commentò accoccolandosi meglio tra le sue
braccia. Fattasi più vicina, però, fu attratta da
qualcos’altro.
— Ma cosa fumi?— gli domandò sospettosa.
— Non
fare l’innocentina adesso.— la redarguì mentre,
sollevata la testa, cacciava fuori il fumo dalle labbra. Gli sorrise
colpevole, al ricordo degli spinelli divisi con Colin e a volte anche
con Astrid.
— Infatti
chiedevo perché lo voglio anch’io!— lo sorprese con
un’espressione buffa che lo fece ridere.
— Solo se
prometti di non farmi confessioni imbarazzanti dopo solo un
tiro!— la provocò, allontanando lo spinello da lei, che
prontamente cercò di rubarglielo.
Dopo quel
piccolo battibecco, decisero di dividersi lo spinello e un pacco di
patatine e di innaffiare il tutto con una Guinness. Agnes non seppe
dire né come né quando, ma a un certo punto si
ritrovarono a cantare a squarciagola una canzone: i loro visi erano
vicini, il sorriso di uno sul sorriso dell’altra. E quelle
parole…
Maybe I just want to fly
I want to live I don't want to die
Maybe I just want to breath
Quando la
canzone finì, Agnes si concesse un attimo per guardare Ian:
sorrideva, quel giorno. Le sue labbra erano distese, serene; i suoi
occhi chiari erano lì con lei, non recavano traccia della patina
di malinconia che li adombrava normalmente. Stava disteso sul divano,
rilassato e apparentemente spensierato. La guardava ed era una di
quelle rare volte in cui non sembrava vedere nient’altro che lei.
Era qualcosa di così raro che Agnes avrebbe voluto fermare quel
momento e godere anche del più piccolo particolare.
— Lo so,
mi ami e non puoi vivere senza di me.— affermò fingendosi
comprensivo.— Ma non dirlo, lo so che lo faresti solo per colpa
dell’erba.
— Ma…— esclamò fulminandolo,— Ian Sutcliffe sei proprio un…—
— Nah…Non chiamarmi Sutcliffe.— la interruppe con una piccola smorfia di fastidio.— Non oggi.
Lo
guardò più attentamente e quasi le venne voglia di
mettersi le mani sulle tempie. — Oggi sei più
incomprensibile del solito. Lo sai, vero?— vedendolo scuotere la
testa divertito, continuò a parlare: — E poi
cos’è questa storia di Sutcliffe? Colin mi ha raccontato
che hai deciso di suonare al Kirchherr’s per via del suo nome e
che avete anche litigato per questo! Che c’è, adesso ti
farai chiamare Best?— gli domandò con un sorriso ironico.
—
Agy…— iniziò dopo aver riflettuto un
po’.— La verità è che Stu Sutcliffe ha
vissuto gran parte della sua vita in modo sbagliato, tentando di
fuggire da quella che fin dall’inizio sapeva essere la sua
strada. Quando finalmente aveva trovato il suo cambiamento,
morì.— terminò socchiudendo appena gli occhi.
— Cosa vuoi dire con questo?
— Che
oggi non voglio essere chiamato Sutcliffe.— le rispose sollevando
gli occhi verso di lei, occhi che impiegarono qualche istante prima di
tornare di nuovo sereni. — Solo questo.
***
— Te
l’ho detto, non c’è bisogno.— ripeté
dopo un profondo sospiro. — Mamma, rimani a casa. Se ci sono
novità, ti faccio sapere.
All’altro capo del telefono rispose un mormorio incomprensibile.
— Di nuovo?— chiese incredula,— Mamma, non l’hai nemmeno conosciuto.— commentò spazientita.
— Sì, ma è così triste.— le rispose con la voce rotta.— Così giovane…
— Mamma,
non è morto.— la interruppe nervosamente,— È
in coma e può svegliarsi da un momento all’altro.
Il sospiro
sconfortato di sua madre la fece sentire una bambina ingenua, ma
cacciò subito quella sensazione e senza troppe cerimonie
salutò sua madre e cacciò il telefono in tasca.
Avrebbe voluto
essere l’unica persona al mondo a interessarsi delle condizioni
di Ian. Aveva perso il conto delle persone che avevano telefonato o
erano andate all’ospedale con l’intento di confortarla e si
erano invece trovate a piangere tra le sue braccia. E poi c’erano
quelle che lei stessa teneva alla larga da sé perché
sapeva che sarebbero riuscite a farla crollare. Sì, ad Agnes
sarebbe piaciuto interpretare la parte della ragazzina fragile
confortata da tutti; ma era ben consapevole di non potersi permettere
debolezze.
L’unico
momento in cui aveva davvero ceduto, lasciandosi andare a un pianto
straziante, era stato diversi giorni prima, quel famoso 21 luglio. Non
aveva pianto quando Colin le aveva telefonato nel corso
dell’incontro di lavoro. Né aveva pianto quando, alcuni
minuti dopo, aveva telefonato un incredulo Woody. Lo aveva fatto solo
quando, in hotel, aveva trovato la sua camera vuota: il letto era stato
rifatto, tutto era stato rassettato. Non aveva trovato traccia di lui,
di loro. Come se quella stanza non li avesse mai visti insieme, come se
la notte scorsa fosse stata davvero un sogno.
Poi c’era
stato l’ospedale, con il via vai dei medici e parole di cui
faticava a comprendere il significato: shock emorragico, ipovolemia da
correggere, insufficienza respiratoria, fratture al femore e al bacino.
E dopo era arrivato il peggio e proprio quel peggio era ciò che
in un primo momento non aveva ben capito: emorragia subaracnoidea.
Aveva compreso l’entità del pericolo soltanto quando i
medici avevano nominato qualcosa di noto: coma. Solo di sfuggita aveva
afferrato percentuali di sopravvivenza, ma chissà come queste
erano scivolate subito via dalla sua memoria. Forse era stato un
meccanismo di difesa, forse non era stata in grado di accettare anche
questo.
L’iniziale
spaesamento, però, aveva ben presto lasciato spazio a una forza
nuova, che aveva lasciato tutti sorpresi: quelle parole incomprensibili
erano diventate parte di lei, i medici e gli infermieri erano diventati
volti conosciuti; stava tutti i giorni attaccata al telefono alla
ricerca dei migliori chirurghi dello stato; litigava per ottenere
informazioni precise sulla pressione arteriosa, frequenza cardiaca e
frequenza respiratoria.
Una nuova
Agnes, aveva detto qualcuno. E forse era davvero così: faticava
lei stessa a riconoscersi in quella giovane donna dagli occhi stanchi,
ma decisi; era quasi incredibile come tutti si fossero appoggiati a lei
in quella situazione. Persino i genitori di Ian…
Quando erano
arrivati, Agnes non li aveva accolti con il distacco e il gelo di
Colin. Era stata gentile, per un momento aveva anche abbracciato sua
madre. Sapeva che Ian aveva sofferto molto per il loro allontanamento
e, benché nessuno glielo avesse confermato, aveva anche intuito
che il ragazzo era arrivato persino a sentirsi colpevole ai loro occhi
per quello che era successo a suo fratello. Nonostante questo,
però, non si era sentita di trattarli con sufficienza. Lei li
capiva: era facile amare Ian, volergli bene; meno facile era stargli
accanto, sopportare le sue fragilità. Dopotutto non si era
comportata in modo così diverso da loro: anche Agnes aveva
abbandonato Ian nel momento in cui aveva più bisogno di lei,
voltando le spalle a quel lato del ragazzo che lui stesso detestava
più di ogni altro.
Ora lo sapeva.
Da quando si
erano conosciuti, Ian l’aveva aiutata ad uscire dalla condizione
di anonimato in cui aveva sempre vissuto la sua vita, arrivando persino
a costringerla ad affrontare tutte le sue debolezze e paure. Solo che
lo aveva fatto in silenzio, senza clamore, nel solito modo sfuggente di
chi fa del bene agli altri senza chiedere un riconoscimento. E proprio
per questo, tutti quei gesti erano passati inosservati; stupida e
cieca, non aveva capito cosa avesse fatto per lei: aveva cancellato le
sue insicurezze.
Tranne una.
Quella più importante, quella più dannosa: la
fragilità di un amore sincero davanti alle ombre più nere
dell’altro.
Ora sapeva di
essere fuggita nel momento in cui aveva visto quanto fossero profondi
gli spazi vuoti nell’animo di Ian, con quanta forza fossero
sbarrate certe finestre, come fosse solido il muro. E questa era la sua
colpa più grande: se solo fosse rimasta con lui, se solo gli
avesse mostrato di amare anche le sue difese, Ian avrebbe imparato a
non temere se stesso, ad accettarsi.
Ora aveva capito.
L’amore
vero aspetta. Non lascia mai andare. Lotta. Senza condizioni, senza
cedimenti. Lotta anche quando tutti attorno hanno abbassato lo sguardo,
sconfitti.
L’amore
vero aspetta. Ti troverà, ti verrà a
prendere…Ovunque. Nella vita, nella morte. E se c’è
qualcosa tra la vita e la morte, arriverà anche lì.
L’amore vero aspetta. Fino alla fine, anche dopo la fine.
— Peter, cosa aspettiamo?
Una voce di
bambina la riscosse dai suoi pensieri. Non si era nemmeno accorta che,
mentre ripercorreva le ultime settimane, due bambini si erano seduti
accanto a lei nella sala d’aspetto dell’ospedale.
Vide il
ragazzino più grande rivolgere un’occhiata infastidita
alla bambina che aveva posto la domanda. Si sistemò meglio sullo
scomodo sedile, forse proprio per prendere tempo, e quando rispose, lo
fece con voce brusca: — Aspettiamo che nonno muoia.
Agnes trattenne
il respiro, come se quelle parole dure fossero rivolte proprio a lei.
Con la coda dell’occhio, vide la bambina abbassare un po’
il capo e rivolgere uno sguardo desolato verso la porta socchiusa
davanti a loro: si intravedevano delle persone sedute attorno a un
letto, in silenzio. In attesa.
— Miss Dayle?
Agnes sollevò lo sguardo e ritrovò il volto familiare di uno dei medici che si erano occupati di Ian.
— Di qua, prego.— le fece un cenno gentile verso un’altra porta lì vicino.
Si alzò
a fatica dal sedile e, appena prima di muoversi verso quella porta
chiusa, rivolse uno sguardo a quei due bambini. Poi diede loro le
spalle e si costrinse a fare qualche passo incerto.
L’amore vero aspetta.
***
Era rimasto
appoggiato alla parete per tutto il tempo in cui Agnes aveva parlato.
Le braccia conserte, il capo appena chinato e un’impellente
voglia di fumare. Non si era mosso da quel corridoio che avrebbe dovuto
portarlo alla sala conferenze del Chelsea and Westminster, nella sedia rimasta vuota accanto ad Agnes.
All’ultimo
momento non aveva avuto la sua stessa forza: l’idea di rivivere
quegli ultimi due anni davanti a degli estranei lo aveva paralizzato e,
prima che Agnes iniziasse a parlare, non ne aveva nemmeno compreso
l’utilità, il senso.
Quando le aveva
parlato di quelle perplessità, Agnes gli aveva sorriso e gli
aveva spiegato che era una promessa e lo doveva a tutti e tre. Colin
non aveva comunque capito.
Poi la voce
delicata di Agnes aveva iniziato a raccontare e tutti i suoi dubbi
erano spariti, lasciando spazio unicamente al passato.
“Sentire
suonare i Fifth Beatle, lasciare entrare le parole di Ian era qualcosa
di sconvolgente. Io sono cresciuta con la musica, ma nelle loro canzoni
ritrovavo me stessa e tutte le mie paure…”
La passione che li aveva uniti.
“Quando
io e Colin portammo le mie cose nel loro appartamento, trovai davvero
la mia casa: appoggio incondizionato e caloroso conforto.”
L’affetto.
“Ho quest’immagine nella mente: il sorriso di Ian mentre mi porge la mano per tirarmi fuori dal camerino.”
L’amore.
“Cantavo davanti a una folla di sconosciuti e le uniche persone che vedevo davvero erano loro: Ian e Colin.”
L’unica luce che non sarebbe mai andata via.
— Ammetto
che siamo stati ingenui, a volte anche ingrati. Ogni intrusione nella
nostra vita privata è stata giustificata con qualcosa che
suonava come “siete stati voi a scegliere questa vita”.
E forse avete ragione voi. Ma quello che ferisce è che nessuno
ha davvero tentato di conoscerci: siete stati fin troppo rapidi ad
affibbiarci ruoli e caratteri. E così facendo abbiamo perso
tutti. Ian in particolar modo, perché lui stesso si era
già dato una parte da interpretare e voi avete portato a termine
il lavoro che aveva iniziato .
Ian
è diventato Sutcliffe, l’artista dannato, incapace di
vivere tra le persone comuni. Ma, come vi ho mostrato, Ian era anche
altro. E non raccontatevi che era lui a nascondersi, perché
avreste potuto vederlo in ogni momento: la sua musica e le sue parole
erano delle imposte socchiuse verso la realtà, verso chiunque
fosse disposto a guardare davvero.
Il nemico di
Ian non era né la vita né la realtà, come troppo
spesso io stessa ho pensato; la sua peggiore paura, il suo più
grande turbamento era Sutcliffe, la fragilità di chi vuole
vivere fino in fondo, di chi vuole sentire davvero e non sa trovare il
modo.
Ora Sutcliffe è morto ed è rimasto solo Ian. Vi prego di averne maggiore cura.
***
Qualche ora prima
— Avevi promesso che mi avresti aspettata in hotel.
— Dovremmo smetterla con le promesse. È chiaro che non sono il nostro forte.
Sospirò
quando sentì la sua risata fievole trasformarsi in un pianto
pieno di angoscia. Piegò la testa un po’ di lato e si
sforzò di sorriderle nonostante ogni piccolo movimento lo
facesse soffrire.
— Vieni qui…
La vide respirare profondamente per calmarsi e andargli incontro con passi incerti.
— Sto
bene. Davvero. Non farti condizionare da tutti questi macchinari.
Starò bene.— tentò di rassicurarla. Ma lei non lo
guardava nemmeno in viso, i suoi occhi sfuggivano ai suoi.
— Lo so.— mormorò sfiorando appena le lenzuola che lo coprivano.
La
guardò spaesato e cercò di toccarle la mano, ma lei la
spostò per portarla sul viso e asciugare l’ennesima
lacrima che era scivolata sulla guancia.
— Agy?— la chiamò confuso dal senso di distacco che riusciva ad avvertire.
— Ti ho
aspettato….— disse dopo quella che a era parsa
un’eternità,— Ti ho aspettato e ho fatto di tutto
per arrivare a questo momento. Ti ho aspettato anche quando tutti mi
ripetevano di prepararmi a lasciarti andare. E quando rispondevo che ti
avrei aspettato sempre, nessuno riusciva a capire. L’unico che
avrebbe capito eri tu, ma tu non c’eri.
Allungò la mano e trovò il suo polso sottile. La presa non era salda, ma lei l’avvertì subito.
— Sono qui, amore.
Finalmente i
loro occhi riuscirono a incontrarsi, indifesi e spauriti come mai prima
d’allora: — Eri andato via di nuovo.— sussurrò
mentre nuove lacrime minacciavano di sopraffarla.
La
guardò senza sapere cosa dire per tranquillizzarla, per
cancellare la paura dai suoi occhi. Come la notte in cui era andato nel
suo hotel, non poteva fare altro se non mostrarle come fosse lì,
come anche lui avesse fatto di tutto per tornare da lei.
— C’è una promessa che devo mantenere.— disse improvvisamente.
Ian la guardò stranito: — Quale?
— Voglio raccontare di questi due anni.
— Perché?
—
Perché meritiamo di essere visti davvero, Ian. Soprattutto tu.
Dovrebbero vederti come ti vedo io. E anche tu dovresti.
Nonostante non
ne fosse particolarmente convinto, non poté che annuire quando
notò gli occhi di Agnes illuminarsi a quell’idea. —
Fai pure.— disse alla fine e da come lo guardò capì
di averla sorpresa.
Agnes sorrise e
Ian seppe di aver fatto la cosa giusta. La vide abbassarsi verso lui e
sentì le sue labbra poggiarsi sulle sue delicatamente: non si
sarebbe mai stancato di quella delicatezza.
— Andrà bene dopo…— bisbigliò guardandolo dritto negli occhi.
La porta si chiuse dietro Agnes e, senza nemmeno rendersene conto, Ian si assopì quasi subito.
Quando si
svegliò, gli occhi leggermente socchiusi vennero colpiti da una
luce molto forte. Qualcuno aveva scostato le tende dalla finestra e da
questa facevano capolino i raggi del sole, che arrivavano dritti sul
suo viso procurandogli un piacevole tepore. Per la prima volta
sentì di non avere paura di quella luce, era come se si fosse
riappacificato con essa.
Sapeva che
alcuni spazi sarebbero rimasti sempre vuoti, ma ora capiva che questo
era normale; sapeva che ci sarebbero stati giorni in cui Sutcliffe
avrebbe fatto di tutto per tornare, spingendolo sull’orlo di quel
precipizio in cui era crollato tempo prima e da cui era risalito a
fatica; sapeva che avrebbe avuto la tentazione di lasciare che
Sutcliffe colmasse quegli spazi vuoti con le sue innumerevoli ombre.
Ma c’era qualcuno per cui valeva la pena tentare di aggrapparsi alla realtà.
C’era chi lo avrebbe aspettato sempre.
C’era quel 4 agosto 2013: il giorno del suo ventottesimo compleanno.
Tutto era possibile, quel giorno.
Anche l’impossibile.
***
Quando le imposte sono spalancate
E non temi né il temporale né il sole
Quando finalmente ti svegli
E scopri che Sutcliffe è andato via.
Note d’autore:
Credevo che non
ci sarei mai riuscita e invece eccomi qui: la mia prima long conclusa.
Già al pensiero di pubblicare e inserire ‘completa’
tra gli avvisi mi viene un nodo alla gola, ma mi tocca farlo. Anche
perché vi ho fatte penare abbastanza. Forse il finale di questa
storia lascerà qualcuno deluso e sì, ammetto che mi
dispiacerebbe; ma quello che davvero volevo per i miei protagonisti era
una crescita. E così in realtà Sutcliffe sono tutti
e tre, sebbene in tre modi differenti: Sutcliffe è Agnes quando
ha paura di buttarsi prima, quando ha paura di amare il lato più
oscuro di Ian dopo; Sutcliffe è Colin perché ha messo la
sua vita nelle mani degli altri; Sutcliffe, più di ogni altro,
è Ian perché ha sempre avuto paura di esporsi, persino
nella musica. Sutcliffe è chi sceglie di vivere all’ombra
e di non vedere mai la luce, chi ha paura di cambiare strada per le sue
insicurezze e quando decide di farlo è troppo tardi.
Quindi Sutcliffe è un’idea che muore tre volte nel corso di questo capitolo conclusivo.
La storia è conclusa e io devo smettere di parlare! Ma ci sono alcune cose che mi preme dire.
Mi piacerebbe
conoscere il parere di tutte voi. Capisco che recensire può
venire difficile a volte e se adesso ve lo chiedo è solo
perché mi piacerebbe ringraziarvi tutte personalmente, sapere
cosa vi ha portate fin qui e se questo finale in fondo ve lo
aspettavate oppure no.
Ringrazio tutte
voi per aver voluto trascorrere un po’ del vostro tempo insieme
ad Ian, Agnes e Colin. Ringrazio chi mi ha incoraggiata con pazienza,
anche quando i miei tre personaggi prendevano il sopravvento!
Ringrazio chi ha
segnalato la storia, spendendo parole meravigliose e ovviamente
ringrazio l’amministrazione del sito per averla inserita tra le
storie scelte.
Ringrazio mia sorella, perché senza di lei questa storia non avrebbe mai visto una fine.
Ringrazio Agnes, Ian e Colin per avermi permesso di conoscere lati nuovi di me stessa e affrontarne altri più bui.
Ringrazio quelle persone che sono diventate amiche speciali.
Se avete voglia di seguirmi, qui trovate il mio link su fb e qui trovate la mia nuova storia.
Vi saluto e mando un abbraccio a tutte,
Agnes.
True Love waits
Live forever
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