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LA TRAPPOLA DEL SOLE
http://www.youtube.com/watch?v=pvbaf7n3JYE
Ero
nata in città, e la città era il mio mondo.
Amavo
guardare fuori dalla finestra stando in punta di piedi e osservare i
tetti, i muri giallo chiaro e gli squarci di cielo azzurro tra le
tegole. Spesso aprivo la finestra per farmi accarezzare
dall’aria tiepida o respirare la brezza frizzante, e
ascoltavo i rumori, sempre gli stessi ma dei quali mai mi stancavo:
passi di persone sotto al portico, voci di gente nelle case,
acciottolio di stoviglie, cani e uccelli… ma il suono
più forte e impregnante di tutti era il silenzio. Variava da
stagione a stagione, e sempre a seconda del periodo dell’anno
variavano il suo colore e il suo odore.
Io
e i miei genitori vivevamo in un appartamento piccolo ma che a noi
garbava, io avevo la mia stanza con il mio letto e tutti i miei
giocattoli, l’armadio con i vestiti e tanti scatoloni
contenenti libri che avrei letto in futuro. Impilando questi scatoloni
l’uno sull’altro riuscivo a sporgermi dalla
finestra e guardare fuori
Il
nostro appartamento era piccolo, chiaro e disordinato. I muri erano
dipinti di bianco e di azzurro chiaro e l’arredamento era
moderno e semplice. I pavimenti erano in legno in modo da non essere
mai troppo freddi, perché adoravo girare scalza. Avremmo
potuto permetterci un appartamento più grande, ma i miei
dicevano che avremmo traslocato quando sarei cresciuta e avrei avuto
bisogno di più spazio, e a me andava bene restare in quella
casa ancora per anni. Adoravo quella piccola abitazione
perché c’erano molte finestre e soprattutto
perché era situata in una zona silenziosa della
città. In quel luogo anche le strade erano strette. Si
trattava di strade irregolari e non sempre asfaltate, che dopo ogni
temporale si riempivano di pozzanghere in cui si rifletteva il cielo.
Era un continuo alternarsi di vicoli e piazzette, sembrava che le case
si sovrapponessero l’una con l’altra. Queste
avevano i muri o giallo crema o rosso mattone e i tetti ricoperti di
tegole, come lo erano tutti quelli della mia città;
frequenti erano i cortili e i balconcini, i portici stretti e gli archi
che portavano alle piazze. Il colori di sfondo erano il giallo crema
dei muri, il grigio delle strade e l’azzurro del cielo.
Ovviamente, il cielo non era sempre azzurro: alcune giornate nuvolose
lo tingevano di un bianco ovattato, e di notte era blu intenso. Ma se
dovevo pensare al cielo sopra quelle case dai colori caldi e quelle
strade malandate, mi veniva sempre in mente un celeste intenso con
qualche straccio bianco di nuvola qua e là, e ovviamente il
sole, accecante come al solito.
Il
Sole, già.
Il
mio periodo preferito della giornata era da mezzogiorno alle tre e
mezza del pomeriggio: la luce e il cielo in tutto il loro fulgore,
l’oro e l’azzurro, gli stessi colori dei miei
capelli e dei miei occhi.
Una
mattina di giugno me ne stavo in piedi sulla mia pila di scatoloni a
guardare la strada e il cielo, i vetri spalancati, respirando a pieni
polmoni l’aria calda e assaporandone l’odore,
ascoltando i rumori e immaginandomi i colori. Al balconcino di una
delle finestre della casa di fronte c’era qualcuno che
proprio come me sembrava starsi godendo l’aria di giugno. Era
una figura vestita di bianco, anzi, ricoperta da un manto bianchissimo
che le nascondeva l’intero corpo: gambe, braccia, mani, testa
e viso. Sul volto, però, aveva fissata una maschera nera,
seria e inespressiva. Sul momento non capii se si trattasse di una
persona o di un pupazzo, ma capii che era un essere vivente quando
alzò un braccio come per salutarmi. Feci lo stesso,
profondamente a disagio: io non riuscivo a vedere il volto e gli occhi
di quella persona, ma evidentemente lei vedeva i miei. Cominciai a
sentire freddo e a tremare, chiusi immediatamente la finestra e tirai
le tende, poi corsi in camera da mia madre chiamandola a gran voce, ma
non ottenni risposta alcuna. Sentii dei rumori provenienti dalla cucina
e dedussi che stava già preparando da mangiare. Per
raggiungere la cucina dovetti passare accanto alla piccola finestra del
corridoio, dalla quale entrava in casa una scia di luce.
Quel
finestrino era situato esattamente dall’altra parte della
casa rispetto alla finestra di camera mia, e dava sulla scalinata del
cortile interno. Vi buttai un’occhiata distratta e notai una
macchia bianca sui gradini, proprio al centro di una chiazza di luce.
Osservai con più attenzione e mi resi conto che non era una
macchia, era una persona ricoperta da un velo con una maschera nera sul
viso, e mi stava salutando.
Non
aveva viso, non aveva occhi, ma mi vedeva e si spostava con me.
Mi seguiva.
Guardai
ancora: la figura si stava avvicinando. Arretrai stando sempre nel
raggio di sole, ormai in preda al terrore. La creatura tese le braccia
verso di me finché non poggiò due mani velate sul
vetro del finestrino. I rumori in cucina si affievolirono fino a
spegnersi, così come tutti gli altri suoni che sentivo: il
canto degli uccelli, i miei passi… sentivo solo il mio cuore
impazzito. Le mani della creatura sfondarono il vetro mandandolo in
frantumi e io non sentii il rumore dello schianto, né quello
delle mie grida quanto le sue dita mi afferrarono per i capelli,
sollevandomi e trascinandomi fuori dal finestrino con una forza
sovrumana.
Il
silenzio restava mentre la creatura mi trascinava facendomi strisciare
per terra, camminando soltanto nei punti in cui arrivava la luce del
sole. Proprio il Sole, più accecante che mai. Lui, che mi
guardava dall’alto mentre venivo portata via, io che lo amavo
tanto, e non muoveva un dito per salvarmi, anzi, era proprio sulle zone
illuminate da lui che il mostro camminava. Ben presto mi resi conto che
la luce formava una vera e propria strada dai margini ben definiti, ma
prima di cercare di capire dove portava e dove sarei quindi andata a
finire i miei sensi sprofondarono in un’universo bianco e
accecante, troppo forte per essere sopportato.
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