Note
dell'Autrice: non so come diavolo mi sia saltato in testa una
cosa tanto deprimente. Non dirò niente a riguardo, giuro,
perché mi
sono cacciata addosso una tristezza che, boh, adesso dovrò
sbattere
la testa contro al muro per trovare un po' di gioia.
Credo
che il mio inconscio volesse fare un omaggio ai Peanuts e a un sacco di
altre cose belle dell'infanzia che al momento non ricordo.
Oltre
l'infanzia
«Charlie
Brown, Snoopy, Linus, Lucy... non potrò mai
dimenticarli».
Dall'ultima
strip di Charles Schulz
Non
sentiva che il fruscio nelle orecchie della
brezza primaverile. Immobile fra l'erba, teneva il naso puntato verso
le nuvole bianche che scorrevano rapide nel cielo, particolarmente
attento a distinguerle l'una dall'altra come coniglietti,
papere o draghi. Da bambino
amava scoprire quante e
quali forme potessero assumere le nuvole, e sebbene Linus ne
riconoscesse sempre di più interessanti, per Charlie Brown
la
soddisfazione aveva davvero il profilo distorto di un coniglietto.
***
«Ehi,
capo».
«Non
chiamarmi capo».
Marcie
appoggiò due grosse borse della spesa sul tavolo della
piccola
cucina e si avvicinò al sofà sul quale giaceva
scompostamente la
sua coinquilina. La conosceva da fin troppo tempo per non rendersi
conto che nel suo sguardo triste c'era qualcosa di strano. Piperita
Patty scrutava il soffitto con aria persa e distante, le mani
intrecciate dietro al groviglio di capelli rossi e il berretto dei
Red Sox appoggiato sul petto.
«Capo,
che c'è?».
Lei
schioccò nervosa la lingua.
«Non
chiamarmi capo, Marcie».
«Che
c'è?».
«Ha
chiamato Ciccio» rispose atona. «Hai presente, no?
Charlie e
qualcosa, si chiamava. Era quel bambino con la testa
rotonda...».
«Era
Charlie Brown, capo».
Piperita
Patty annuì ed emise un lungo sbuffo stizzito.
«Che
palle, Marcie...».
Lucy
appoggiò la fronte al gigantesco libro di legge e non si
mosse per
diversi minuti, con le braccia a penzoloni davanti alle gambe e il
fiato lento e profondo. Era perfettamente consapevole che si sarebbe
addormentata a breve: gettò un'ultima occhiata laconica alla
tazza
vuota di caffè e si disse che era arrivato il momento per
una pausa.
Non aveva ancora studiato nemmeno la metà di quanto si era
ripromessa, ma era certa che ci sarebbe comunque riuscita, prima o
poi.
Aprì
la porta e gridò:
«Linus!
Fammi un caffè!».
Attese
qualche secondo, ma dal soggiorno non proveniva che il basso ronzio
del televisore.
«Linus!
Spegni quel dannato aggeggio e fammi un caffè!».
Sentendosi
montare dalla stizza, si avviò lungo il corridoio, discese a
balzi
le scale e irruppe alle spalle del fratello con aria feroce. Il
ragazzo era fermo davanti al treppiedi su cui era appoggiato il
telefono, con la mano destra ancora sopra la cornetta bianca e
l'altra in tasca, a torturare quello stupido fazzoletto con cui
gironzolava dacché i loro genitori erano riusciti a togliere
dai
piedi quella coperta ancora più stupida.
«Linus,
sei sordo?».
«Ha
chiamato Charlie Brown» le disse piano.
Lucy
era troppo sveglia e pratica per non afferrare al volo il punto della
questione.
Era
passati anni dall'ultima volta in cui si erano visti e ognuno di loro
aveva avuto tempo e modo di prendere strade diverse. Charlie Brown
guardò Lucy, rigida dentro una giacca color pesca, Linus,
infagottato in una sciarpa della Boston University, Schroeder, con
quel ridicolo cappello scuro e una spilla dei Black Sabbath sulla
tracolla, Piperita, con una maglietta dei Red Sox un po' stropicciata
e Marcie, con gli occhiali dalla montatura rossa e i capelli raccolti
in una treccia, e Frida, con gli orecchini brillanti e un elegante
caschetto biondo. Sorrise loro con impacciata tenerezza, mentre nella
sua mente s'affacciava l'immagine di un gruppetto di bambini con
piccole mazze da baseball e guantoni. Lui si sentiva probabilmente
molto più vecchio di quanto non avrebbe mai dovuto. Si
domandò se
qualcuno degli altri, lì attorno, stesse provando la stessa
fastidiosa sensazione.
Abbassò
lo sguardo e scostò di pochi centimetri un lembo del
lenzuolo bianco
con cui aveva avvolto il corpicino di Snoopy.
«Li
vedi? Sono tornati tutti per te».
«Prendi
questa, Charlie Brown».
Linus
aprì il proprio zaino consunto ed estrasse una piccola
copertina
azzurra. Al suo fianco, Lucy soffiò rassegnata.
«Non
posso credere che tu l'abbia conservata...».
Charlie
Brown la prese fra le mani e rivolse al vecchio amico d'infanzia un
sorriso grato. Linus chinò il capo, ma tutti riuscirono a
scorgere i
suoi occhi umidi di lacrime.
«Cercava
sempre di rubarmela» spiegò con
semplicità.
«Credevo
davvero che fossi un bambino con un buffo nasone, Snoopy»
mormorò
Piperita Patty, inginocchiandosi a pochi centimetri dalla modesta
fossa che Charlie Brown aveva scavato a qualche metro dalla cuccia
rossa.
Infilò
una mano nella tasca dei pantaloni e mostrò una pallina da
baseball
dall'aria malmessa.
«Autografata
da Yogi Berra» aggiunse con un occhiolino complice. «Non
sbavarci troppo sopra, amico: vale una fortuna».
«Ricordate
quando saltellava sul tetto della cuccia e fingeva di essere un asso
della Prima Guerra Mondiale a bordo del suo Sopwith Camel?»
disse
Charlie Brown, affondando entrambe le mani nelle tasche. Gli occhi
tornarono a bruciargli e iniziò a sbattere le palpebre.
«E quando
voleva fare lo scrittore? Ah, tutte quelle palline di carte gettate
in giro per il cortile! E Joe Falchetto? Ricordate quanto sembrava
ridicolo con quegli occhiali da sole? O quando si era convinto di
essere un avvoltoio e non voleva più scendere da
quell'albero
laggiù? E quante volte si è fatto male giocando a
hockey? Ricordate
quella volta in cui lo portammo in ospedale e l'infermiera lo
scambiò
per un ragazzino dall'aspetto buffo? O quando si era deciso di andare
a fare il legionario? E ricordate quando...».
«Charlie
Brown» lo interruppe con dolcezza Marcie, avvicinandosi di
qualche
passo e appoggiando una mano sulla sua spalla. «Che stai
dicendo?».
«Era
solo un bracchetto» sentenziò debole Sally,
incrociando le braccia
al petto e mordendosi il labbro inferiore nello sforzo di trattenere
le lacrime. «Uno stupido bracchetto...».
Stordito,
Charlie li fissò un ad uno.
«Voi...
voi non ricordate le sue fantasticherie?».
I
ragazzi si scambiarono diverse occhiate perplesse.
«Era
un bracchetto, Charlie... nemmeno sapeva cosa potesse essere, un
Sopwith Camel».
***
Non
sentiva niente che il fruscio nelle orecchie della
brezza primaverile. Immobile fra l'erba, teneva il naso puntato verso
le nuvole bianche che scorrevano rapide nel cielo, particolarmente
attento a distinguerle l'una dall'altra come coniglietti,
papere o draghi.
A
distanza di anni, lo sguardo di Charlie Brown tornò ad
esplorare fra
le nuvole candide; senza più l'ingenuità del
ragazzino che era
stato, tuttavia, aveva l'impressione di non poter vedere che nuvole.
Abbassò
la testa e scrutò la terra smossa sotto la quale aveva
seppellito
Snoopy. Nessuno sembrava serbare ricordo di tutte quelle follie
insensate nelle quali il bracchetto era solito gettarsi a capofitto.
E lui temeva di credere che
potessero avere ragione.
«Non
importa se non sei mai diventato uno scrittore famoso o se non sei
mai stato Joe Falchetto, Snoopy...» borbottò fra i
denti, mentre le
dita affondavano nel terriccio freddo. «Non importa, Snoopy,
davvero... per me è la stessa cosa. Per me eri ognuna di
quelle
cose, in effetti. Eri un cane fuori di testa, Snoopy... eri il mio
cane...».
Tirò
in su con il naso e si asciugò una guancia con la manica del
giubbotto.
«A
volte ho creduto che non saresti mai invecchiato, che nessuno di noi
l'avrebbe mai fatto... ma nemmeno questo importa, vero?».
«Charlie
Brown!» lo chiamò la voce di Lucy.
«Vieni!».
Charlie
Brown le fece un cenno con la mano e guardò di nuovo la
tomba di
Snoopy.
«Spero
che questa volta non voglia farmi cadere con il pallone da
rugby...»
scherzò mentre si alzava, si scrollava la polvere dalle
ginocchia e
si asciugava un'ultima volta gli occhi. «E non preoccuparti:
ho
lasciato la ciotola piena».
“Ed
ecco l'asso della Prima Guerra Mondiale spiccare il volo!”.
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