Ferite ~
prompt: #083, pillar of strength
Gli avevano indicato una stanza e si erano offerti di accompagnarlo,
ma lui aveva declinato l’offerta con gentile fermezza.
Ora che
bussava a un’anonima porta di legno scuro, solo, con un mazzo di rose
bianche e un sorriso triste, constatava quanto tutto all’apparenza fosse simile a quella prima – e ultima –
volta.
«Chi
è?»
La
sua voce era tranquilla, priva d’inflessioni. Il ragazzo chiuse gli occhi
e si chiese quante lacrime avesse versato tra quelle quattro mura, lontano
dallo sguardo del mondo e incapace di sfuggire al proprio.
«Sono
io, Hashimoto-san. Ti ricordi di me?»
Subaru.
Un
breve silenzio. Quanto doveva farle male, quanto faceva male a lui.
«Mi
hanno detto che il tuo... che non sei ancora guarita. Non temere, non ho
intenzione di entrare. Sono solo passato a salutarti. Sto... Sto per partire.»
Hashimoto non parlava, forse non respirava neanche. Il silenzio,
oltre quella porta, era assoluto.
«Ti
ho portato dei fiori...»
«Dove
vai?»
Il
bisbiglio lo colse di sorpresa, lacerando l’aria immobile con una nota vibrante
di quelli che sembravano fantasmi di lacrime.
Gli
occhi ancora chiusi, chinò il capo fino a sfiorare la porta con la
fronte.
«Non
lo so. Lontano. C’è qualcosa che devo fare.»
Qualcuno che devo trovare.
Mi dispiace, Subaru.
«Ho
capito.»
Hashimoto tacque, ma ora c’erano dei rumori lievi,
appena percettibili, a suggerirgli che si era alzata, che si avvicinava piano alla
porta.
Subaru
continuò a sorridere tristemente. Non voleva farla soffrire ancora, di nuovo, eppure aveva tanta voglia di
rivederla. Già, sembrava tutto come allora – una porta chiusa a
dividere il suo dispiacere dal dolore di lei – solo che, stavolta, Hashimoto non era l’unica a sanguinare.
Che le
ferite fossero inferte a un occhio o a un cuore, il dolore era lo stesso.
«Non
vuoi indietro il tuo fazzoletto?»
Aprì
gli occhi. La voce suonava così vicina, ora, come se lei fosse venuta a
posare le mani là dove, se la porta fosse stata aperta, avrebbe trovato
le sue.
«Ti
avevo detto che l’avrei tenuto... che me ne sarei presa cura...
finché non fossi stata più forte.»
«Ma
puoi tenerlo...»
«No.
Sono abbastanza forte per dirti addio.»
Me l’hai insegnato tu, Subaru.
«Ora
aprirò questa porta e verrò da te. Soltanto...»
Subaru
attese. Passarono secondi pieni di ricordi, di immagini, di improvvise consapevolezze:
la voce di Hashimoto era ancora bassa e quieta, ma il
tremore di poco prima aveva dato vita a più sentimenti di quanto le
parole non sarebbero mai state in grado di fare.
«Soltanto,
non mi guardare.»
Soltanto, non guardarmi piangere, Subaru.
Annuì,
anche se lei non poteva vederlo.
Voltò
le spalle alla porta.
Fu un
soffio di vento proveniente da una qualche finestra aperta a portargli la
sensazione della vicinanza della ragazza, così piccola, così
fragile, così meravigliosamente forte.
Perché lo era. Subaru sapeva leggere nel cuore delle persone – tranne che nel proprio; vero, Hokuto-chan? – e il cuore di Hashimoto
era tra quelli che, al primo lieve tocco, l’avevano lasciato senza
parole, piacevolmente turbato.
Non la
sentì camminare e non la sentì muoversi, ma si sentì
circondato del suo timido abbraccio. E qualcosa, in quel vuoto con cui si era
ritrovato a convivere, in quella sofferenza che ora li rendeva più
vicini che mai, si addolcì.
La mano
di Hashimoto si posò tra i petali bianchi. Stringeva
tra le dita un fazzoletto immacolato.
Grazie, Subaru.
Per un
tempo infinito Subaru restò immobile, concentrato sul viso che lei gli
premeva nella schiena, struggendosi dal bisogno di voltarsi e baciarle quella
cicatrice e dirle che era bellissima
e che questo non sarebbe cambiato mai – non osando farlo. Perché tanta
forza andava rispettata, era impensabile l’idea di rovinare tutto con
parole che non servivano più.
«Tornerai,
un giorno?»
«Non
lo so.»
«Posso
aspettarti?»
Mi mancherai, Subaru.
Gli avevano
indicato una stanza e si erano offerti di accompagnarlo, ma nessuno avrebbe mai
potuto prepararlo a questo.
Non gli
chiedeva niente. Non voleva sapere niente. E in quel momento, in quell’abbraccio,
era lui a sentirsi inerme.
Ma lei
lo teneva stretto. Non era solo.
Grazie a te, Kuniko.
[ 675 parole ]
Nota: Il quarto volume di Tokyo Babylon
è stato il primo a farmi piangere. E la storia di Kuniko
Hashimoto, che sul momento non mi era parsa una delle
più dolorose, a freddo – dopo la lettura – è stata
tra quelle che mi hanno fatto pensare di più. Così ho immaginato
che alla fine, prima di partire alla ricerca di Seishiro,
Subaru sia andato a salutarla, e lei abbia avuto la forza di restituirgli quel
fazzoletto.
È solo una sciocchezza, ma, ecco, dovevo
scriverla.