Capitolo Primo
Nell'androne del palazzo c'è un grosso portaombrelli di rame
a forma di anfora, sembra molto vecchio e Nadia ha una gran voglia di
prenderlo a calci.
Si ferma sull'ultimo scalino, fa grandi respiri. L'aria sa di pietra
vecchia e gerani.
Nadia detesta l'odore dei gerani. E detesta quei grandi palazzi antichi
e i tizi panciuti in giacca e cravatta che ci vivono dentro, con il
loro olezzo di gel per capelli e dopobarba costoso, con quel loro
mettere in mostra oggetti di antiquariato e argenteria cesellata. E
detesta se stessa per essersi messa in ghingheri con trucco, tacchi
alti e tutto il resto e aver indossato i suoi vestiti migliori, e il
girocollo di sua madre, e il bracciale che le aveva dato sua sorella
come portafortuna. In un moto di stizza afferra il bracciale e cerca di
tirarlo via, ma quel maledetto affare se ne resta incollato al polso.
«Vaffanculo!».
Al diavolo il bracciale, al diavolo i vestiti, al diavolo tutto.
Si toglie le scarpe, il pavimento di marmo levigato dal tempo
è gelido contro le piante dei piedi e il sottile tessuto dei
collant non è un granché come protezione.
Apre il pesante portone, una lama di luce e pulviscolo fende la
penombra e le ferisce gli occhi. Lei esce e attraversa a grandi passi i
portici di Piazza San Marco.
Le vetrine delle gioiellerie riflettono l'immagine di una giovane donna
dall'aria furiosa, con i capelli corti e biondi, che cammina scalza in
uno dei luoghi più belli e famosi del mondo.
Nessuno tra gli sciami di turisti e venditori di souvenir fa caso a lei.
Nadia continua a camminare, rimuginando sul giorno in cui una sua foto
varrà migliaia di euro e quell'idiota del gallerista
piangerà per essersi rifiutato di esporre i suoi lavori.
Sotto la pianta dei piedi i collant devono essersi strappati, ma la
ragazza non ci presta attenzione. Quello a cui fa caso invece
è il vento insolitamente gelido che ora sta spazzando la
piazza e che fischia forte nelle sue orecchie, spingendole i capelli
sugli occhi.
Nadia si guarda attorno, non ci sono uccelli in cielo, il vento
è davvero troppo forte e non soffiava in quel modo quando
era entrata nel palazzo, né faceva così freddo
fino a mezz'ora prima.
L'ombra del campanile di San Marco sbiadisce man mano che le nuvole si
spostano e coprono il sole che rimane solo un pallido cerchio
luminescente oltre una coltre di grigio, una sfera che somiglia alla
pietra sul bracciale che Nadia ha al polso. Sul molo davanti alla
Loggia delle Signorie i traghetti oscillano sollevando schizzi di acqua
salmastra, emettendo cigolii lamentosi. Sotto quel cielo plumbeo la
Laguna è un foglio di carta stagnola sgualcita.
La ragazza deglutisce, sente una strana tensione in fondo allo stomaco,
come di un brutto presentimento. Scuote la testa, solleva il colletto
del soprabito e continua a camminare.
Venezia sarà pure una delle città più
belle del mondo, ma in quel posto non succede mai niente. Arrivano i
turisti, se ne vanno, al loro posto ne arrivano altri. La marea sia
abbassa, poi sale, poi scende – tanto per dare agli
osservatori ambientali qualcosa con cui riempire gli ultimi minuti del
Tg regionale... e non succede mai niente. E il gallerista l'ha invitata
a prendere un caffè solo per dirle che non era interessato a
esporre le sue foto.
Man mano che Nadia si addentra nell'intricato labirinto di stradine e
di ponti, il fischio del vento si fa meno acuto. Man mano che la rabbia
inizia a sbollire cresce il dolore ai piedi e la consapevolezza che
quella di togliersi le scarpe è stata un'idea davvero
stupida. A conti fatti, sembra che ultimamente ogni sua idea sia
stupida.
«D'accordo...». La ragazza sbuffa, si siede sui
gradini di un ponte e si rimette le scarpe chiedendosi se sia
più folle camminare per Venezia a piedi nudi o girarci in
tacchi alti.
La strada fino a San Simeon le sembra incredibilmente lunga.
L'acqua mossa dal vento scroscia nei canali come un fiume color piombo,
urta contro gli argini con tonfi sordi e solleva schizzi gelidi.
Nadia non vede l'ora di poter dimenticare quella giornataccia. Ma sono
solo le undici del mattino.
Si ricorda di sfuggita di sua sorella che le ha chiesto di comprarle il
suo mensile di cinema, quindi si ferma a un'edicola. Sulla copertina
c'è Christian Bale con il costume di Batman, il titolo
annuncia anteprime sul nuovo film di Christopher Nolan; la ragazza
guarda la foto e pensa che più che un supereroe le farebbe
comodo qualcuno che facesse piazza pulita di tutta quella gente odiosa
e inutile.
Si sente uno schifo. La notte prima ha sognato che il mare sommergeva
l'albergo dei suoi genitori e lei ne rideva. «Così
non ci resterò intrappolata per sempre» diceva, e
non era la solita Nadia, era una ragazza crudele e priva di sentimenti.
E adesso quel pensiero le si agita nella testa, perché da
bambina, alle volte aveva desiderato sul serio che l'albergo sparisse,
che le circostanze fossero diverse. Forse è davvero crudele
e priva di sentimenti, pensa stringendo sottobraccio la rivista per sua
sorella, perché tutto quello a cui ha pensato negli ultimi
anni è non rimanere incastrata a gestire
l'attività di famiglia – e non le è
nemmeno riuscito troppo bene.
Da lontano, le persone sulle scale della stazione sembrano formiche
attorno a una meringa.
Nadia costeggia la chiesa di San Simeon con il naso
all'insù, scrutando quel cielo spettrale. Sembra che sia in
arrivo un temporale, ma non si sentono tuoni, ci sono solo nuvole e
freddo. Un freddo pungente, praticamente una vera e propria cappa di
gelo.
Almeno gli osservatori dell'ARPA potranno discutere di qualcosa di
diverso dall'alta marea per un paio di
giorni.
L'albergo San Simeon, in un vicolo alle spalle della chiesa, non
è di certo il posto più chic di Venezia, ma la
famiglia Berton se ne occupa da decenni e lo fa anche con un certo
stile, con quella buona lena e quella naturalezza propria di chi ama il
mestiere che svolge.
Nadia fissa l'insegna ciondolare sopra il portone principale e pensa
che questo vale per i suoi genitori, ma non per lei. Lei non vuole fare
l'albergatrice, quel posto è un'eredità che non
desidera ricevere. Ma per adesso, che alternative ha?
Fa il giro dell'edificio ed entra da una porta sul retro, nella vana
speranza che nessuno la noti. Sta già pensando di sgusciare
verso le scale che portano al piano più basso, dove
c'è l'appartamento della sua famiglia, separato dalle stanze
riservate agli ospiti del piccolo hotel. I collant sono
irrimediabilmente strappati all'estremità ma si toglie
comunque le scarpe, per non fare rumore; la sensazione della moquette
contro le piante dei piedi è piacevole.
È Casanova a tradirla, il suo gatto. Lancia un acuto
miagolio di benvenuto che attira l'attenzione di sua madre e di sua
sorella Sara.
Casanova ha un setoso pelo grigio, morbido e lucido, e due occhi color
ambra. Quando Nadia lo trovò nel negozio abbandonato, l'anno
prima, con una zampa rotta e gli occhioni spaventati, le
sembrò la cosa più adorabile del mondo, ora
vorrebbe immergerlo in un catino di acqua gelata, ma si china comunque
a prenderlo in braccio e lo accarezza sotto il mento. È un
peso caldo e confortante, non abbastanza per riappacificarsi con il
mondo, ma di sicuro un buon punto di partenza, almeno fino a quando non
solleva lo sguardo su sua madre e su Sara che le bloccano il passaggio
verso le scale, immobili l'una accanto all'altra, così
somiglianti tra loro da sembrare due matrioske, con un sorriso da un
orecchio all'altro.
«Allora?».
Nadia affonda un po' di più le mani nel pelo di Casanova.
«Allora niente» dice, cercando di non apparire
troppo amareggiata – non che serva a molto, probabilmente ha
la faccia verde in questo momento.
«Come niente?» esclama sua madre, facendo una passo
verso di lei.
Nadia le sguscia di fianco, guadagnando le scale. Si volta, con un
piede già sul primo gradino.
«Niente foto da esporre, secondo il gallerista. Quindi niente
di cui discutere» conclude, cercando di mettere su un sorriso
che alleggerisca il tono delle sue parole.
«Nadia, asp...», la voce di Sara le arriva
lontanissima, come se venisse da un'altra dimensione.
La ragazza chiude la porta della propria camera alle sue spalle, si
dirige verso il letto e ci si butta di schiena, a peso morto.
Casanova incespica sul copriletto di raso azzurro, ma riesce a
raggiungere la sua padrona e si acciambella accanto a lei. È
quasi miracoloso come la curva della schiena del gatto si incastri in
quella del fianco della ragazza.
***
Le dieci pietre di Borr, il padre di Odino. Loki ne rammenta
perfettamente la storia, una delle tante che il re di Asgard raccontava
a lui e a Thor quando erano piccoli.
In molti, tra la sua gente, sono convinti che si tratti solo di una
leggenda, ma lui ha avuto tempo per apprendere la verità
dietro ogni favola che i padri di Asgard racconta ai propri figli. Ha
letto molti libri e conosce la vera storia dietro ogni mito. Sa che le
pietre furono donate da Borr ai dieci cavalieri più valorosi
del mondo eterno, sa che uno di loro, durante una spedizione su
Midgard, si innamorò di una mortale umana e rimase nel suo
mondo tenendo con sé la pietra. Sa che quella pietra si
trova ancora sulla Terra, perché era una cifra dei suoi
calcoli prima di contattare il pianeta dei Chitauri, e che è
un forte concentrato di potere magico, quello di cui ha bisogno per
riprendersi dalla battaglia – dalla sconfitta, pensa
amaramente, e dalla rocambolesca fuga da Asgard dove volevano tenerlo
rinchiuso
in attesa che
il Padre degli dei formulasse un qualche disegno per decidere della sua
sorte...
Sa anche che la pietra può funzionare solo nelle mani di un
asgardiano, per questo gli umani, in tutti quei secoli non si sono
accorti del suo straordinario potere. E sa che l'energia che ha usato
per manifestarsi in quel luogo e attivare la pietra, così da
poterla rintracciare seguendo le emanazioni del suo potere,
è l'ultima che gli è rimasta. Trovare
quell'oggetto ora è una necessità.
Non avrebbe mai immaginato di potersi sentire così distrutto
e privo di forze. E il luogo in cui si trova è assolutamente
assurdo: una città sull'acqua, giusto gli umani potevano
inventarsi una cosa simile. Giusto quei patetici esseri che amano le
cose fragili perché adorano crogiolarsi nel timore di
perderle e provano piacere a struggersi quando ciò accade.
Una città sull'acqua. Che cosa stupida! E non vuole nemmeno
immaginare come abbia fatto la pietra a finire lì, gli
sembra già abbastanza miracoloso che non sia andata persa in
tutto quel tempo.
Ma ormai non importa, ormai sa che l'oggetto è vicino, lo
sente, è da qualche parte, alle spalle di quel tempio con la
croce.
Loki si ferma al centro del ponte, appoggiandosi al parapetto di marmo.
Il vento e il freddo che hanno preannunciato il suo arrivo tengono
ancora in ostaggio quella città... Venezia, il nome gli
sembra antico e gli suona meglio di quelli delle altre città
di Midgard in cui è stato, e guardando il sole tramontare
riconosce che forse quel posto può davvero apparire molto
bello agli occhi dei mortali. Lui di tutta quella bellezza decisamente
non sa che farsene.
Attraversa il ponte, dio in mezzo agli uomini, gruppetti di persone che
gli passano accanto ignare parlando tante lingue diverse.
La pietra è vicinissima. Negli ultimi metri che separano
Loki dalla sua meta, lui pensa a come fare per prenderla... un furto,
qualche omicidio, sì, ma con molta molta discrezione. Non ha
armi ed è stremato, non può affrontare le forze
dell'ordine della Terra – anche se dubita che in un luogo
senza mezzi di locomozione su ruote, le forze dell'ordine siano
particolarmente tempestive.
Ora sa che la pietra è dietro quella porta. Sopra la porta
c'è un'insegna che cigola, la scritta dice: Hotel San
Simeon.
***
«Abbiamo dormito per tutto il pomeriggio?». Nadia
sposta lo sguardo tra la finestra della sua camera e gli occhi gialli
di Casanova che la fissano con una malizia tutta felina.
Sì, ha dormito fino a sera e probabilmente i suoi non ne
faranno un dramma, tendono a essere sempre molto protettivi con lei
quando rimedia un qualche fallimento: il concorso per quel posto di
lavoro a Mestre; la rottura del fidanzamento con Fabio; la non
ammissione a quella scuola di fotografia di Padova... «
Non ti preoccupare, Nadia, hai
noi e hai questo posto. Certe cose non cambieranno mai».
Già. La sua vita sarebbe molto più semplice se
riuscisse a convincersene, invece di continuare ad agitarsi per un
cambiamento che non avverrà mai. Ventisei anni di onesta
esistenza a inanellare insuccessi come perle in una collana potrebbero
anche bastare.
La ragazza fa un sospiro rassegnato, si ripete di smetterla di fare la
derelitta e si alza. Cerca dei vestiti puliti – ordinati ma
anonimi, come raccomanda sempre sua madre – e va verso il
bagno. Apre il rubinetto della doccia e mentre aspetta che l'acqua
diventi abbastanza calda si toglie quella roba assurda che ha addosso.
Via la giacca, via la gonna, via la camicetta color crema; lancia tutto
nel cesto dei panni sporchi, si sfila gli orecchini e il girocollo,
tira via il bracciale che le ha regalato Sara. Il bracciale non vuole
saperne di togliersi dal suo polso.
Nadia fissa perplessa il ninnolo, è uno di quei bracciali
rigidi d'argento, molto vecchio, con dei simboli simili a delle rune e
con al centro una pietra bianca dai riflessi colorati simile a
un'opale. Sara glielo ha regalato alcuni mesi prima dicendole che
è un portafortuna, lo ha comprato in un negozio a Porto
Marghera e Nadia non lo aveva mai messo prima di quella mattina.
Il vapore sta facendo appannare lo specchio. La ragazza guarda il suo
riflesso che è solo una macchia contro lo sfondo bianco
delle mattonelle.
«Nadia, sei viva?». Sara bussa rumorosamente alla
porta.
«No, c'è il mio fantasma qui dentro».
D'accordo, penserà poi a sfilarsi il bracciale. Si butta
sotto il getto caldo della doccia, pensa che può continuare
a tenere duro ancora per un po'... forse.
Sua madre ha indossato un pullover di filo color grigio fumo, si sta
strofinando le braccia. Nadia sente un calore appiccicoso nell'aria e
si arrotola fino al gomito le maniche della camicia.
«Brrr, ho acceso i riscaldamenti!» esclama la
signora Angela Berton, appena vede arrivare le sue due figlie. Finge di
non vedere la maglia di Sara con sopra stampato un disegno di Victoria
Frances, perché evidentemente non ha voglia di discutere. E
finge di non sapere che l'altra figlia è di pessimo umore,
perché in quella casa è così che vanno
le cose: non c'è tempo per il cattivo umore, altrimenti come
si fa a essere gentili e sorridenti con gli ospiti dell'hotel?
«Ah, c'è qualcosa che non va con la rete
internet» dice la donna guardando Nadia.
«Ora do un'occhiata, mamma».
La ragazza si sistema dietro al bancone della hall e comincia ad
armeggiare con il mouse; di sicuro sua madre ha fatto confusione con il
pc, da quando hanno sostituito il computer, con il sistema operativo
nuovo la signora Berton non riesce a raccapezzarcisi. La ragazza sente
distrattamente sua madre impartire ordini a Sara, qualcosa che ha a che
fare con il controllo di vecchie fatture. Poi solleva lo sguardo sulla
saletta davanti a sé, un paio di signori se ne stanno seduti
a leggere il giornale, i coniugi Monteverdi hanno monopolizzato la
televisione sintonizzandola su una soap-opera – quei due
anziani signori sono lì da un paio di giorni, per il loro
quarantacinquesimo anniversario di matrimonio, stanno facendo una
specie di remake del loro viaggio di nozze e hanno ancora l'abitudine
di lasciare le mance. A Nadia stanno simpatici.
La ragazza sta fissando con un mezzo sorriso i due anziani che
complottano su quali potrebbero essere i futuri sviluppi della soap,
approfittando dell'intervallo pubblicitario, quando vede con la coda
dell'occhio la porta di ingresso che si apre di schianto.
Una folata di vento gelido attraversa la stanza e Nadia si ritrova a
fissare a metà tra il perplesso e l'interdetto il tizio che
ora sta attraversando la hall. Un uomo giovane dall'aria torva, vestito
in modo eccessivamente elegante, che cammina come se da un momento
all'altro potesse estrarre una granata dalla tasca del soprabito di
alta sartoria.
Naturalmente quel tipo non estrarrà nessuna granata, e di
certo è stato il vento a far aprire la porta in quel modo
tanto brusco. Nadia ne è sicura. Più o meno...
«Buona sera» trilla sua madre in direzione dello
sconosciuto. «Possiamo fare qualcosa per lei?».
È uno sguardo assassino quello con cui l'uomo –
più un ragazzo che un uomo – sta guardando sua
madre? Nadia non sa perché le sta venendo la pelle d'oca, ma
vorrebbe tanto che il tizio dicesse di essersi sbagliato, salutasse e
uscisse per tornarsene da dove è venuto. Ma lui non dice
niente, nemmeno in risposta alla domanda di Angela. Forse è
straniero, forse non capisce l'italiano, ma perché accidenti
non parla?
Come se fosse l'unico essere vivente lì dentro, lo
sconosciuto si prende un lungo momento per guardarsi intorno, come se
stesse cercando di riconoscere un posto o una persona. A Nadia sembra
più un segugio che fiuta una preda.
«Sta... ehm... cercando qualcuno?», Nadia prova a
parlare, ma sente uno strano senso di disagio. Forse è solo
quell'insolita tinta di azzurro molto chiaro che fa sembrare gli occhi
del ragazzo così gelidi. Però quegli occhi si
puntano su di lei all'improvviso e in mezzo a quell'azzurro ghiaccio si
accende come una scintilla di qualcosa che sembra rabbia. Poi
nient'altro, lo sconosciuto abbassa le palpebre, fa un leggero sospiro,
come di qualcuno che tenta di ristabilire un certo contegno e quando
riapre gli occhi sembra più... normale. Cioè, non
sembra che voglia far saltare tutto in aria, ma agli occhi di Nadia
continua a non avere un aspetto particolarmente rassicurante.
«Sì» dice di colpo. «Mi
servirebbe una stanza, qui».
Parla in italiano, con una marcata inflessione straniera che la ragazza
non riesce a identificare. Ad ogni modo, contro ogni regola della buona
educazione, lei rimane impalata a fissarlo. Non ha bagagli, tra poco
è sera, ha intenzione di dormire in giacca e cravatta?
«Nadia!» sua madre la richiama a denti stretti, lei
si fa da parte e lascia che l'uomo si avvicini al bancone della
reception.
Angela prende i documenti che lo sconosciuto ha estratto dalla tasca e
compila il modulo elettronico.
«Quanto tempo intende fermarsi?» domanda.
«Il tempo che occorre».
La madre di Nadia non si scompone, ne è passata di gente
strana sotto quel tetto e il tizio non è nemmeno
lontanamente vicino a sfiorare la vetta della hit-parade degli svitati
che il San Simeon ha avuto l'onore di ospitare. Ma di solito
gli svitati hanno la loro buona dose di simpatia e di attrattiva,
questo più che altro sembra la scena di perfetto silenzio in
un film dell'orrore, quando la guardi e sai che da un momento all'altro
ci sarà il rumore improvviso che ti farà
sobbalzare. Lo sai, eppure quando arriva ti prende comunque un colpo.
«Nadia» la voce di sua madre la strappa a quelle
riflessioni idiote. «Accompagna di sopra il
signore».
Nadia vorrebbe obiettare che c'è del personale appositamente
assunto per accompagnare la gente alle proprie camere, portare bagagli
e altre cose del genere, e lei quello lì non lo
accompagnerebbe nemmeno alla poltrona vicino ai coniugi Monteverdi. Ma
la professionalità le impone di non mettersi a discutere con
sua madre in quel momento e in quel posto, quindi si sforza di
sorridere allo sconosciuto – promettendosi che più
tardi andrà nel database a controllare chi è e da
dove viene, e gli fa cenno di seguirlo.
La camera assegnata al nuovo ospite è la numero 7, al
secondo piano. Nadia sale le scale tappezzate di moquette blu
imponendosi di mantenere un'andatura lenta e tranquilla, ma dietro di
sé sente lo sguardo dello sconosciuto trapassarle la schiena.
Finalmente arrivano sul pianerottolo, davanti alla porta lucida di
ciliegio.
Nadia è costretta a voltarsi e a guardare il ragazzo.
È più alto di lei e adesso le sembra quasi un
pesce fuor d'acqua.
«La sua camera è questa» gli dice,
aprendo la porta per mostrargli la stanza. Ma lui non guarda la stanza,
guarda lei con fin troppa insistenza.
«Tutto bene, signor... ehm, potrebbe ripetermi il suo
nome?».
Lui sembra non averla sentita, la sorpassa ed entra nella stanza. Solo
in quel momento la ragazza si accorge di quanto sia pallido e di quanto
siano marcate le occhiaie sotto le palpebre. Sara ne impazzirebbe con
la sua mania per i vampiri.
«Il mio nome, perché? Hai intenzione di chiamarmi
spesso?». Lo dice senza particolare ironia e Nadia non riesce
a capire se ci stia provando, in modo piuttosto maldestro e sgradevole
tra l'altro, o se faccia tutto parte della sua bizzarria.
«No di certo» risponde gelida. «Buona
serata».
Si volta e si avvia verso le scale. Lo sa che dall'uscio della stanza
numero 7 quel tizio la sta ancora guardando, se lo sente, ma mentre
imbocca i gradini le arriva il rumore ovattato della porta della camera
che si chiude.
***
La voce sembra essere fatta di buio e pietra, sembra spegnere le
stelle. È una voce crudele che soffia come il vento in mezzo
al deserto e fa quasi eco nella desolazione rocciosa di quell'universo
lontano.
«Una promessa mantenuta merita una ricompensa. Una promessa
tradita esige un castigo» sentenzia la voce.
Il capo dei Chitauri freme e quasi non osa guardare l'imponente figura
di Thanos stagliarsi contro il nero del cielo. Un frammento di
oscurità contro l'oscurità.
«Ebbene?» chiede, temendo che la domanda giunga
troppo irritante e superflua.
La figura incappucciata china appena il capo a indicare un grosso
oggetto cilindrico, tra le pareti di vetro opaco si agitano come
minuscoli serpenti dei fili di fumo argenteo.
Il capo dei Chitauri afferra l'oggetto, sembra pesante a vedersi, e
invece il suo peso è quasi inconsistente. Guardando
più da vicino il contenuto del cilindro, sente un
superstizioso terrore fargli eco nella mente.
«Possono viaggiare in qualsiasi universo. Possono viaggiare
ovunque»
afferma Thanos con un crudele compiacimento nella voce.
«Voglio Loki, lo voglio vivo».
__________________________________________________________
Venezia. Loki. The Avengers. Venezia...
Sì, Venezia, tanto per essere... ehm... originali.
La
storia delle dieci pietre magiche è stata inventata dalla
sottoscritta. Però Borr è davvero il nome del
padre di Odino - Wikipedia docet.
In
quanto alle questioni linguistiche, ho supposto che gli dei di Asgard
potessero parlare “automaticamente” la lingua del
luogo in cui si
manifestano (dato che Thor piove dal cielo nel New Mexico e parla la
stessa lingua delle persone che incontra... e Loki spunta dal varco
aperto dal Tesseract e non ci sono problemi di comprensione... e
così
via...), quindi ho pensato che potesse essere plausibile che Loki in
Italia riesca a parlare perfettamente l'italiano anche se con
un'inflessione particolare (poi, per il futuro, va da sé che
gli albergatori di un'importante meta turistica sappiano parlare bene
l'inglese).