Amata - Egoist
La luce trattenuta
nella mia mano muore
- Amata.
A-ma-ta.
Allargò le braccia e attese che lui
le corresse incontro, sorridendo ingenuamente del suo richiamo, alle
sue spalle una
brezza leggera che scuoteva lievemente le chiome degli
alberi; e che faceva sembrare quella serata meno tetra di quanto in
realtà non fosse, sebbene lei stessa cercasse di
non farvi caso.
- Amata.
Il viso di suo figlio le premette contro il
ventre, sfregando bisognoso, e qualcosa si ruppe piano, all'interno di
lei, nel profondo, in un punto imprecisato del petto,
spingendola a stringerlo a sé, forte, fortissimo - come se
davvero vi fosse qualcosa, qualcosa a cui non
avrebbe dovuto dar peso.
In fondo, lo faceva per il suo bene, si disse - che grande bugia.
Era una scusa, tutta una scusa.
Un modo come un altro per mettere da parte il
fatto che lo stava per abbandonare, lontano da casa, in un cimitero, e
che con ogni probabilità non si sarebbero più
visti.
Lei non lo avrebbe visto crescere, lui non
avrebbe avuto una figura materna accanto, vigile, quella figura a cui
Amata voleva così bene da piangere quando era assente,
quella
figura che lui chiamava quando aveva paura, o quando desiderava che lei
gli dedicasse attenzioni che non gli avrebbe mai negato,
poiché questo era impossibile.
Totalmente, inevitabilmente impossibile.
- Amata, andiamo a fare una passeggiata?
Bugiarda,
sei una maledetta egoista.
Presero a camminare lungo la strada che portava
al luogo dell'addio, dove avrebbe lasciato Amata, seguito Izumo.
Era tutto così tetro, mentre il sole
spariva dietro alcune colline che circondavano la piccola
città di Neo Landia, le cui rovine, colorate di nero e
arancione e immerse nell'ombra che attendeva la sera, sfilavano
accanto a loro lentamente; e con quella mite lentezza riuscivano a
rendere snervante una semplice passeggiata.
Passo dopo passo il sole sparì,
lasciando il posto alla luna, e l'aria si fece frizzante,
trasmettendole
un senso di vuoto quando sentì suo figlio rabbrividire, e
sempre rabbrividendo stringerle più forte la mano,
guardandosi attorno inquieto.
Lo sentiva anche lui?
Anche lui sentiva che ogni cosa sarebbe
cambiata?
- Mamma...
- Che c'è, Amata?
- Dove stiamo andando?
Perché quella, lo sapevano entrambi,
non era più ciò che lui si aspettava.
E nemmeno lei, d'altronde.
Alicia scrutò il bambino per un
secondo, poi si guardò; guardò quel vestito che
aveva indossato girando
La Danza dei Cieli di Aquaria,
guardò quello che sarebbe sicuramente diventata: un'attrice
qualunque travestita da speranza per un altro mondo.
Poi osservò nuovamente Amata,
sentendosi i suoi occhi violetti puntati addosso, e percepì
la palese insicurezza che li rendeva ancora più grandi,
ancora più innocenti, talmente impauriti da farle pensare di
essere in realtà un mostro.
Non doveva sentirsi un mostro, nel bene e nel male? Non era giusto
sentirsi tale?
Per amore, per Izumo, per un mondo che le era
sconosciuto, Altair... abbandonava il proprio bambino.
Bugiarda,
egoista, traditrice.
Sapeva che lui non l'avrebbe mai perdonata.
D'altronde, come avrebbe potuto? Quale genere di persona si sarebbe mai
permessa di compiere un atto simile verso una creatura così
innocente?
Mostro,
mostro, mostro.
Eppure strinse ancora più forte la
mano di Amata e lo trascinò con sé, cercando di
non guardare quegli occhi che le ricordavano quanto il mondo in
realtà fosse duro, e quanto spesso le persone commettessero
sbagli che difficilmente avrebbero trovato rimedio.
Quand'era più giovane, aveva pianto
tanto.
Aveva pianto perché voleva
realizzare il suo sogno: diventare un'attrice.
Ma quelle lacrime, in confronto a
ciò che avrebbe versato lei - no, che avrebbe versato lui,
lui, Amata, suo figlio - erano il nulla più
assoluto, il dolore meno grande.
I cancelli del cimitero erano inspiegabilmente
aperti; forse si sarebbe dovuta aspettare l'aiuto di Izumo,
giacché da sola sapeva di non potercela fare - ma
sentire l'appoggio, seppur invisibile, dell'uomo che amava,
faceva sì che un po' di coraggio le si insinuasse dentro,
portandola a mettere piede in quel luogo dove i morti riposavano in
pace.
I
morti non hanno più problemi, sono i vivi ad averne,
pensò tetramente mentre adocchiava ad una ad una le lapidi
che attorniavano lei e Amata.
Il bambino aveva smesso di tremare, ma i suoi
occhioni, ora che lo notava, parevano essersi fatti enormi
dall'ingresso del cimitero e oltre, ingrandendosi ad ogni secondo
che passava; tuttavia, poiché suo figlio non aveva mai avuto
modo
di vedere un cimitero, Alicia nemmeno si stupì di tale
reazione, e così, di soppiatto, sussurrò: - In
questo posto riposano coloro che non ci sono più. Un giorno
tutti noi finiremo qui: la vita è così.
Probabilmente, parole come quelle non erano adatte ad un bambino, ma se
ne rese conto troppo tardi, quando ormai Amata aveva palesato uno
sconforto privo di fraintendimenti e, sempre con la stessa
genuinità tipica dei bambini, aveva alzato la testa a
fissarla ponendole mille domande silenziose, gli occhi lucidi a
segnalare il pianto che di lì a poco le avrebbe distrutto il
cuore.
Poteva esserci una madre più stupida di lei?
Con quel piccolo rimorso a premerle dentro, e la sensazione di
spaesamento che la stordiva nel ritrovarsi a dover compiere un
tale scempio, Alicia procedette incerta verso il luogo in cui sarebbe
stata "prelevata", canticchiando lievemente Aquaria Mau Sora,
come se quella canzone potesse rendere l'atmosfera più
leggera.
Utsushiyo
wo nogarete
tazusaeshi no akashi no tae
kotobasukuna ni ikyou wo yukeba
La mano che teneva saldamente era la sua vita. Era stata la sua
vita per moltissimi anni e ora, in quel cimitero, avrebbe lasciato che
ogni cosa venisse cancellata - avrebbe permesso che la piccola luce
nella sua mano si spegnesse piano, da sola, in mezzo al niete, e che
nel niente cercasse di farsene una ragione; ché da un
bambino si potesse pretendere uno sforzo estremo come quello?
- Amata.
Amava ripetere il suo nome.
Amava vederlo alzare la testa in sua direzione, sorriderle, sicuro che
la mamma ci sarebbe stata sempre per lui.
Peccato che la mamma non fosse altro che un'egoista.
La
luce trattenuta nella mia mano muore.
Si fermarono.
Non sarebbe andata oltre con lui.
- Amata, voglio che tu resti qui. Okay?
Si chinò verso di lui irrigidendosi, e gli posò
le mani ai lati del viso - notando poi che la scrutava confuso. E,
sempre mantenendosi rigida, premette la fronte contro la sua, chiuse
gli
occhi identici ai suoi e cercò di trattenere le lacrime per
l'azione che avrebbe compiuto di lì a pochi minuti, e che
con la stessa
velocità l'avrebbe separata - forse - per sempre da suo
figlio.
Per l'uomo che amava, per le cose che amava - per un qualcosa capace di
spingerla verso l'egoismo più estremo, una
crudeltà non voluta.
Amata l'avrebbe odiata.
L'avrebbe disprezzata, avrebbe desiderato la
sua morte.
Forse si sarebbe meritata tanto male, se tanto male avrebbe fatto al
suo bambino.
Sfiorò con le labbra la fronte di Amata, lasciandogli un
ultimo, doloroso segno d'affetto, poi si rialzò e gli
voltò le spalle, conficcandosi le unghie nel palmo di
ciascuna mano - come se un male fisico potesse coprirne un altro che ad
ogni secondo passato andava aumentando, e aumentando la costringeva a
spingere le dita ancora più a fondo, in attesa di un
sollievo
che non avrebbe visto la luce - perché quella luce stava
morendo.
- Addio.
E cominciò a camminare.
Prima lentamente, poi sempre più veloce.
- Mamma!
Non guardare dietro di
te, non farlo, Alicia.
- Mamma! Mamma!
Non guardare, non
guardare.
Sei un'egoista.
- Mamma!
Mamma.
In quel preciso istante si sentì tutto, fuorché
una madre.
Si fermò al centro del cimitero, dove stabilito, e
alzò la testa verso il cielo, venendo quasi subito colpita
da un pallido raggio di luce: vide la parte inferiore del Gnis guidato
da Izumo aprirsi e sentì il proprio corpo più
leggero, la mancanza di terreno sotto di sé. Consapevole di
ciò si voltò per un secondo, uno solo, il minimo
indispensabile per vedere un'ultima volta Amata.
Ma accecata dal bagliore intravide poco, anzi, le sembrò
quasi di scorgere due Amata, uno in piedi e uno per terra, in
ginocchio: si stupì giusto il tempo necessario a capire che
ormai tutto era cambiato.
Poi fu il buio.
* La traduzione dei versi di Aquaria Mau Sora
(potete ascoltarla e leggere il resto della traduzione qui)
che ho inserito nella one-shot:
"Quando fuggo dal mondo
presente
e brevemente visito una
terra sconosciuta
la luce trattenuta nella
mia mano muore."
Note dell'Autrice:
terza storia su Aquarion EVOL. Questa volta, evvai!, sono riuscita a
lasciare da parte Jin - tanto tornerò anche da lui 8D paura,
eh? - per concentrarmi sui miei due personaggi preferiti di EVOL,
cioè Alicia e Amata Sora. Dopo gli episodi 22-23-24, la
sottoscritta ha deciso di scrivere qualcosa su quello che accadde la
notte in cui Amata e Kagura furono divisi da quello scassaballe *coff*
di Mykage.
Bon, ho cercato di capire cos'avesse provato Alicia... sperando di
esserci riuscita (che poi la dinamica dell'abbandono non è
tanto chiara: lei ha portato Amata al cimitero? Lui l'ha seguita? Mah!
Tutto può essere].
Ringrazio Yume_no_Namida,
che ha betato pazientemente questa schifezza <3 [solo DUE
pagine, m'ha ricordato, solo DUE! *discorsi vaghi che non
capirà NESSUNO*]. Ohibò, la sottoscritta scappa!
Un bacione,
Mokochan
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