Si strinse meglio la sciarpa al collo, in quel grigio mattino di Marzo. L’aria
era troppo gelida per le sue abitudini. Troppo pungente per uno sportivo della
Terra del Sol Levante. Una manciata di gradi sotto lo zero, una brezza
tagliente. Una sconosciuta di fronte ai suoi occhi.
-Waka…Wakabajaskij?
Sorrise a quella buffa pronuncia e alle miti vibrazione di una voce cristallina
dall’inglese incerto, mentre il suo fiato caldo si solidificava in nuvole
incorporee nel freddo di fine inverno. Socchiuse le labbra.
-Chiamami Genzo.
C’era qualcosa di melanconico nel suo timbro baritonale. Evocativo. Era come se
l’aria congelasse le note più basse, racchiudendole nella stessa brina, per
liberarle di nuovo in un altro tempo, in quello stesso luogo, e tenere vivo il
suo ricordo anche quando sarebbe stato lontano.
-Genzo…- pronunciò quel nome lentamente, gustandone il sapore sconosciuto per
farlo proprio. Infine sorrise. -Genzochka? Zoshen’ka? Potrò chiamarti Zoshen’ka?
C’era il futuro in quelle iridi chiare che lo scrutavano dal basso. C’era la
speranza. Potrò chiamarti Zoshen’ka? Speranza. Fede. Devozione. E i raggi del
tardo mattino che filtravano tra le nuvole.
Non attese una risposta e, ridendo, come se trovasse tutto dilettevole, come se
la vita stessa fosse per lei un raggio di sole tra le nubi, gli voltò le spalle,
iniziando a correre, quasi saltellando, per le grandi vie semideserte,
tagliandone l’attesa perenne ed irrompendo indiscreta nel silenzio.
Non gli chiese di seguirla. Non si voltò in dietro a guardarlo dubbiosa.
Continuava a saltellare, con la lunga sciarpa grigia che si agitava al vento
dietro di lei. Guardava avanti e, dietro di sé, non aveva nulla.
La seguì, avanzando fermamente tra le strade umide di Mosca, troppo elegante e
troppo dignitoso per assecondarne l’andatura allegra e spedita.
Oltrepassò una piazza ornata da una fontana in oro, addormentata. Le grandi
statue immobili scintillavano ai riflessi del sole sulle ultime nevi della
stagione. Immaginò come quella stessa scena dovesse apparire in primavera, sotto
i raggi diretti, tra l’erba fresca e umida, con l’acqua che sgorgava allegra,
sfumando nei colori dell’arcobaleno. Sveglia, dopo il lungo letargo.
La sua sconosciuta si fermò ai piedi di una costruzione rossa, collegamento tra
la strada e qualcos’altro al di là della sua vista, dalle guglie bianche e
verdi, sormontate da aquile bicipiti d’oro. Lo attese in silenzio, osservandolo
con attenzione e pazienza. I capelli biondi ondeggiavano al vento freddo,
creando un’aureola attorno al suo viso dalle gote arrossate.
Sorrise quando le fu finalmente davanti ed allungò una sottile mano nuda, che
raggiunse la sua, stringendola gentilmente. Camminò davanti a lui, attraversando
la costruzione, senza lasciarlo.
La sua ingenuità lo aveva inibito. Si era lasciato condurre senza opporre
resistenza, quasi che le sue gambe avessero autonomamente scelto di muoversi,
non ancora atrofizzate dalle infime temperature. Una curiosità irrequieta aveva
preso il sopravvento sul suo signorile contegno.
Sgranò gli occhi, una volta oltrepassata la porta, lasciandosi spiazzare da un
insolito, ingenuo stupore. La Krasnaja plošad si estendeva alla sua vista con le
variopinte cupole a cipolla della Cattedrale di San Basilio e le scintillanti
torri del Cremlino ornate, in cima, dalla stella rossa e oro.
La Piazza Rossa.
La Piazza Bella.1
Fu avvolto da un senso irrequieto di malinconia.
Ripensò alla sua vita. Alla teutonica Amburgo, alle arene calcistiche, alle
partite, agli allenamenti, al sacrificio e alla sofferenza e, mai come in quel
momento, il passato gli apparve irrilevante. Banale. Le sue gioie prive di
valore, le cose a cui teneva senza importanza.
Non riconobbe nulla di ciò che si trovava alle sue spalle, come se nulla gli
appartenesse, al di là di quelle nubi chiaroscure, di quel gelo pungente, di
quei riflessi dorati, di quella magnificenza, di quegli occhi grigio-azzurri che
lo osservavano sognanti, pieni delle silenziose parole che appartengono solo
alle anime semplici.
Lei gli sorrise, soddisfatta, senza malizia, dallo stupore donatogli.
-Non mi hai ancora detto il tuo, di nome.
Iniziò ad osservarla, attento, tentando di decifrare quel viso tanto enigmatico
nella sua assenza di maschere. Un idillio tra la neve, il ghiaccio, il sole
lontano. Una genuinità che sapeva di libertà.
-Nasten’ka.- sussurrò con la voce flebile e lo sguardo un po’ assente.
Nasten’ka. Nastja. Anastasia. Resurrezione.
-Significa Resurrezione.- proseguì, sorridendo ancora orgogliosa. E sollevò lo
sguardo, verso un uccello che si librava al di sopra delle guglie dorate del
Cremlino.
Lui abbassò il capo sulla neve sporca di un inverno troppo lungo. Si sentì
inadeguato di fronte ai sogni di lei. Troppo in alto, troppo ingenui e troppo
seducenti per non potervisi perdere dietro, per non lasciare l’insufficienza del
passato in un angolo della mente e nasconderla.
E puntare avanti, al sole che sarebbe risorto dalle nubi, insieme alla
primavera, sciogliendo il ghiaccio e trasformando in pioggia chiara la neve
violata.
-Genzo!- a malincuore si voltò verso le voci conosciute di Taro e Mamoru,
tornati indietro a cercarlo, che lo chiamavano in coro, distogliendolo da
quella realtà parallela. -Tra un'ora inizia la partita.
Li invitò con un cenno di assenso ad andare. E tornò da lei.
-Non essere triste, Zoshen’ka.- gli disse sorridendo.
Rispose al suo sorriso, socchiudendo gli occhi per metterla a fuoco ed
imprimerne i lineamenti nella mente. Tutto gli sembrò paradossalmente irreale
mentre lei allungava una mano gelida sulla sua guancia, sfiorando con la punta
delle dita la mascella ruvida per via della barba, accanto alle labbra.
In un soffio si sollevò sulle punte e gli posò un bacio all’angolo della bocca,
mentre una folata di vento scuoteva l’aria. Durò un attimo.
-Manca poco. L’inverno finirà, prima o poi.
Tornò alla sua altezza naturale.
-Do Skorogo Svidanija2, Zoshen’ka.
Si voltò, reimmergendosi nella sua lieta solitudine, con la sciarpa grigia alle
spalle, i capelli dai riflessi dorati e un nome che significava resurrezione.
Si domandò se l’avrebbe mai rivista.
Fine
1 Krasnaja plošad viene generalmente tradotto come Piazza Rossa ma, in realtà,
il termine ‘Krasnaja” significa anche bella.
2 Ci vediamo presto.
So che mi pentirò di averlo fatto, ma dedico questa storia a te, che mi hai
aperto gli occhi e poi sei svanito nel nulla.
До скорого свидания
…
Dall’altra parte adesso fanno autunno i rampicanti
Tu leggerai i giornali coi vestiti più pesanti
Sui muri di una piazza dritta sull’arcobaleno
E sei da questa parte anche se non ci rivedremo
…forse mai…
(Pooh)