When you crash in the clouds - capitolo 30
Capitolo 30
Hold on to me and never let me go (Parte I)
soundtrack
“Eve
la cena è stata magnifica, grazie mille! Però non ce n’era bisogno … io e mia
madre ce la saremmo cavata benissimo da sole!”
Sentii
Allison protestare con la domestica di mio padre, in sala da pranzo, mentre sparecchiavano
la tavola dalla sontuosa ennesima cena che Eve aveva organizzato durante la
permanenza dei Riley a New York, ospiti di mio padre.
“Allison
ha ragione Eve, tu non sei una cuoca d’albergo e noi non siamo la famiglia del
Presidente degli Stati Uniti” rincarò Lois “questi banchetti quotidiani non
sono necessari … ci stai viziando troppo!”
“Oh
ma io lo faccio con piacere signora” sentii Eve risponderle “mi capita così di
rado di cucinare per più di una persona…anzi sono più le volte che il signor
Hawkins cena fuori e questa cucina rimane fuori uso per settimane. E poi tu
Allison sei ancora convalescente, piccola … non credere che me lo sia
dimenticata. Perciò ora voi due andate di là, che qui ci penso io”
“Vai
tu tesoro” disse Lois dolcemente a sua figlia “io devo fare un discorsetto alla
nostra Eve … sono ancora convinta che il suo maiale con le mele abbia un
ingrediente segreto e lei non voglia dirmelo”
Risero
tutte insieme e il chiacchiericcio tra donne si infittì e divenne
incomprensibile, vuoi perché si erano spostate in cucina, vuoi perché,
infastidito dal vociare delle signore, Doug aumentò il volume del televisore.
“Ci
fosse una santissima volta che io possa seguire un po’ di sport in santa pace …
e ciùciù ciùciù ciuciù…sempre radio Lois in sottofondo” si lamentò, sbuffando.
Tentai
malamente di nascondere le risate, ma alla fine bastò uno sguardo tra me e Doug
per farci ridere di gusto, insieme.
Era
tutto così nuovo e strano, non solo per Allison, che non riusciva – e forse
nemmeno ci si sforzava troppo – a nascondere una sensazione di disagio nei
confronti di questa situazione, a dir poco surreale, venuta fuori in poco meno
di un paio di settimane, ma anche per me, che le famiglie in armonia le avevo
viste sempre e solo in pubblicità da quando avevo 14 anni.
Dopo
le dimissioni dall’ospedale, fu opinione comune che per Allie fosse meglio un
periodo di riposo e calma a casa di mia madre, nella bella e grande stanza che
aveva a sua disposizione lì. Avrebbe dovuto riprendere le forze al 100% e non
poteva certo pensare a fare da balia a me ed Aidan nel nostro piccolo
appartamento/discarica; né era mia intenzione d’altronde che Lois e Doug vi
entrassero e ci vedessero vivere lì, insieme: sapevano tutti ormai che stavamo
insieme, e forse non era difficile per loro immaginare che passavamo il più
delle notti nello stesso letto, ma Allison aveva solo 18 anni, nonostante
l’estrema maturità, e sua madre e suo padre non erano certo pronti ad accettare
un tale passo quale la convivenza con un ragazzo.
Così
Allison tornò da mia madre ed io cominciai la patetica recita del ragazzo
d’oro, che se ne tornava a casa sua dopo il bacio della buona notte. Questo
almeno, fin quando Allison non decise, con mia somma gioia dopo nemmeno una
settimana, che ebbe recuperato a sufficienza la forze e fosse ora di smetterla
con quell’astinenza forzata e dolorosa. Così, come due adolescenti, di nascosto
dai genitori, ce ne andavamo a casa mia e se avessi potuto mi sarei chiuso
dentro e avrei buttato la chiave. Non c’era niente di più bello che starsene a
letto, o sul divano, o sul pavimento o sul tavolo della cucina o sotto la
doccia, avvinghiati, intrecciati, stretti, affannati e sudati, stanchi ma
appagati, obbligati a prendere ossigeno dal respiro dell’altro per respirare,
sazi e saturi dei nostri sapori e dei nostri umori. Poco importava avere a
disposizione cinque minuti o un pomeriggio intero, non era doloroso dover
reprimere urla e gemiti, quando guardando negli occhi dell’altro vedi un
vulcano che esplode e ti rendi conto che quella è la persona che ami, ed
insieme siete magia allo stato puro, e niente è come voi messi insieme.
Perso
nei miei pensieri venni risvegliato da una cuscinata in faccia, che solo da una
persona poteva venire. Mi girai e la vidi entrare nella stanza, lentamente,
come se volesse farsi ammirare da me e farmi venire voglia di rapirla. Era
quasi estate, giugno era ormai alle porte: non faceva particolarmente caldo, ma
Allison si sentiva autorizzata ad andare in giro già in infradito, con shorts
bianchi e una canotta attillata, mettendo così in mostra generosamente le sue
bellissime gambe. Il fratellino del sottoscritto ringrazia sentitamente.
Mi
venne incontro e si chinò su di me, che me ne stavo seduto su una poltrona
accanto a suo padre, e sperai che la partita di baseball offrisse proprio in
quel momento qualche azione importante, abbastanza da estraniarlo completamente
e distogliendo l’attenzione da noi. Allison prese il cuscino che mi aveva
tirato addosso, e lo posizionò direttamente sopra la patta dei pantaloni, dove
si notava un certo rigonfiamento. Si sedette poi sopra il braccioli della
poltrona alla mia sinistra, avvolgendomi le spalle con il braccio destro.
“Quando
pensi certe cose” mi sussurrò all’orecchio, badando bene a coprire il labiale
con la mano libera “cerca almeno di non farlo davanti a mio padre”
“Non
sono io …” le risposi, sporgendomi verso il suo orecchio “che vado in giro
sculettando mezza nuda”. Le depositai un piccolo bacio proprio dietro
l’orecchio, poco al di sopra della nuca: sapevo che era particolarmente
sensibile in quel punto, e la sentii decisamente rabbrividire al mio tocco,
seppur lieve e veloce. Bastava così poco per infiammarla …
“Portami
a casa” pronunciò, monocorde, ad alta voce, fissando lo schermo tv come se
fosse la frase più normale ed innocente del mondo. Ma entrambi sapevamo che non
era così: non certo voleva che la portassi a Brooklyn, da mia madre. Era il mio
appartamento che desiderava, soprattutto perché non erano nemmeno le dieci e
quel giorno non ci eravamo visti per niente, io confinato in libreria, lei
rapita da sua madre e mia sorella in visita al Guggenheim.
Mi
bastò annuirle che subito si alzò e corse a prendere la sua borsa e una
maglietta a maniche lunghe che aveva avuto la decenza di portare con in caso a
sera fosse stato più fresco. Salutò sua madre, che era ancora intenta in cucina
a fare un dettato le ricette di Eve, ma senza grande successo, visto che non
avrebbe mai spifferato la ricetta completa. Era impossibile rubarle i segreti
in cucina, l’unico modo possibile sarebbe stato drogarla o qualcosa di simile.
“Mamma
noi andiamo” si rivolse Allison a Lois, cingendole le spalle da dietro con un
abbraccio e lasciandole un bacio sulla guancia. Non sembravano due persone che
non si erano parlate per tre lunghi anni, non sembravano una madre e una figlia
che avevano dovuto ricucire una ferita profonda e dolorosa, ma sapevo bene
quanto costasse ad Allison sforzarsi d’essere così espansiva con sua madre,
soprattutto così in fretta. “Come?” domandò la donna “di già?! Ma è presto …”
“è
stata una lunga giornata” intervenni, entrando in cucina ed intromettendomi tra
le due “e domani ve ne aspetta un’altra. Allison si è stancata molto, è meglio
che vada a nanna”. Lungi da me rivelare a Lois il mio significato di nanna, ma
queste erano cose nostre.
“Certo
ragazzi … allora buonanotte!” Lois ci lasciò andare, non sospettando
minimamente alcuna deviazione del nostro percorso, nonostante mia madre ci
lanciasse occhiatacce letali ogni volta che accompagnavo a casa Allison a notte
fonda e puntualmente ce la ritrovavamo in salotto con l’abatjour accesa e un
libro sulle gambe, di guardia come un metronotte guardingo e vigile. Mi faceva
sentire colpevole come un adolescente alle prime uscite, ma capivo che sentisse
una enorme, ulteriore, responsabilità nei confronti della sua protetta, dopo
quanto accaduto. Era una cosa di cui cercavamo di parlare il meno possibile,
anche per aiutare Allison a riacquistare
una certa stabilità, ma era inevitabile che ci avesse cambiati un po’ tutti. Io
dal canto mio mi ero impegnato a non lasciarla mai sola nei limiti del
possibile, e ad accertarmi che non fosse da sola quando non era con me; ad
altri sarebbe apparsa una decisione eccessiva, ma dal momento che la polizia
non ci aveva potuto assicurare protezione, erano stati loro stessi a
consigliarci di starle accanto il più possibile e non abbassare la guardia, e
poi anche Allison pareva sentire l’esigenza di avere sempre qualcuno vicino. Da
qui, il riavvicinamento repentino con sua madre.
Arrivati
al pianterreno, all’ingresso del condominio extralusso, vedemmo mio padre, di
ritorno da un viaggio di lavoro. La ventiquattrore ben stretta in mano, il
telefono cellulare all’orecchio, entrava a testa bassa nell’androne del palazzo
mentre il portiere gli teneva la porta aperta. “Non mi puoi fare questo John … e
lo sai” inveì contro il suo interlocutore “no, no … senti, così tu mi uccidi”.
Immaginai che fosse John Jacobs, il suo vice, la cui azienda di editoria era
stata accorpata a quella di mio padre, ma grazie alle sue capacità aveva
mantenuto un ruolo di comando nella nuova società. Insieme lui e mio padre
erano come Scrooge e Marley, una coppia temuta e temeraria, spauracchio dell’alta
finanza e avvolto per le compagnie che navigavano i cattive acque. Laddove c’è
crisi e fallimento là ci sono loro pronti a risucchiare e a guadagnare il
massimo del profitto con il minimo dispendio di risorse.
Invece
che venire verso di noi, cioè verso gli ascensori, si diresse verso un piccolo
salottino nella hall. Il palazzo infatti, con i fattorini e tutti i servizi che
aveva a disposizione sembrava più un resort che un condominio.
Poggiò
la sua valigetta nera su una delle poltrone in pelle bianca, estraendo in tutta
fretta il suo iPad nuovo di zecca. Quella nuova diavoleria made in Apple era
uscita da pochissimo e gli era stata recapitata direttamente in ufficio con i
complimenti di Mr Jobs in persona. Non avevo mai visto mio padre come un
intenditore o appassionato di tecnologia, ma immaginavo che possedere quell’aggeggio
fosse per lui più uno status symbol, piuttosto che una concreta necessità. Lo vidi
smanettare sullo schermo touch-screen, alle prese probabilmente con l’andamento
di qualche borsa asiatica: per cos’altro del resto avrebbe potuto avere tali interesse
ed apprensione? Mi aveva mostrato con estremo entusiasmo le applicazioni che
gli consentivano di seguire in tempo reale gli indici azionari e i movimenti di
capitali intorno al globo 24/7; io non ci trovavo nulla di straordinario, era
solo la tecnologia che seguiva il suo naturale corso evolutivo, ma dovetti
ammettere che c’è chi si esalta per le cazzate. E mio padre faceva parte di
quella categoria di persone.
“Senti” continuò mio padre se possibile ancor
più incazzato di prima “chi tra noi due è il capo? … Ecco vedi allora non sono
affari tuoi quello che faccio fuori dall’orario di lavoro. Ti basti sapere che sono appena
tornato da Washington e non ho intenzione di venire in ufficio ora”
Fosse
stato per me, avrei tirato diritto senza curarmi di lui. Ma Allison era di un
altro avviso e, purtroppo, finiva sempre per decidere lei per entrambe. Ero convinto
che lui non ci avesse visti, che saremmo passati inosservati visto che era
immerso completamente nel suo lavoro e che, se solo ci fossimo avvicinati, gli
avremmo solo recato disturbo e lui non ci avrebbe accolto con lo stesso slancio
che lei gli avremmo riservato. “E se anche così fosse” mormorò Allison,
tirandomi per impedirmi di scappare fuori dall’edificio “non saremo certo noi a
fare la figura dei cafoni”. Ma io mi sentivo tipo una ragazzina timida, di
quelle che non vogliono fare qualcosa da sole che si vergognano e mandano
avanti l’amica o la mamma. Alla stessa maniera io cercavo di mandare avanti
Allison. E lei, invece, testarda e mascolina, rimbeccava e borbottava,
giustamente.
Mentre
noi decidevamo ancora sul da farsi – Allison aveva già deciso, ero io a dovermi
convincere – notai un facchino avvicinarsi a mio padre, ma egli lo mandò via a
grandi gesti, infastidito.
“Vedi
che non è aria … andiamocene” tentai di dissuadere Allison. Non mi andava di
parlare con mio padre, ma lei era cocciuta e mi prese per un braccio, trascinandomi
verso le poltrone dove era seduto. “Tyler Keats Hawkins” sbraitò “smettila di
fare il bambino!”
“John
… John, te lo ripeto un’ultima volta: non sono affari tuoi.” Anche mio padre,
seduto nella sua comoda poltrona di pelle, sbraitava e si dimenava, nervoso. Qualcosa
non andava, lui non era uno di quelli che si scomponeva facilmente, era sempre
in grado di mantenere un certo contegno e conservare un aplomb quasi british. Mia
madre diceva sempre che gli anni di studio alla London School of Economics gli
avevano forgiato quel carattere freddo e distaccato, ma per me si trattava solo
di DNA di stronzo patentato. “Prima … prima cosa?” domandò, tonante, e c’era da
scommettere che chiunque fosse all’altro lato dell’apparecchio fosse atterrito
e ammutolito. Si alzò dalla poltrona con uno scatto repentino e si voltò,
notandoci a primo colpo. Si sbracciò per salutarci, rivolgendoci quello che
poteva sembrare un sorriso, ma che forse, più probabilmente era rivolto a qualche
notizia positiva dall’ufficio. Ci fece segno di accomodarci, sulle poltrone
accanto a lui ed Allison, soddisfatta e fiera di aver avuto ragione, non se lo
fece ripetere due volte. Si avvicinò alla zona lounge con fare altezzoso, in
tono quasi di sfida nei miei confronti, con il naso all’insù e camminando come
se toccasse a malapena con i piedi per terra. Io mi sedetti sull’ottomana più
distante da mio padre ed Allison fu costretta a seguirmi.
“Smettila tu
piuttosto di farti la svelta” protestai, come un bambino dell’asilo che non
accetta la sconfitta “ non hai fatto niente di che”. Ma lei mi rispose,
puntuale, con una linguaccia.“A
te non deve fregare di come gestivo gli affari prima e di come gli gestisco ora”
continuò mio padre “è così importante che io ci sia? Possibile che non riuscite
a sbrigarvela da soli?! … lo vedi?! Lo vedi?! E allora …! Non farmi perdere
altro tempo … eh … buonanotte!”
E
riattaccò, sbuffando rumorosamente e gettando il telefono nella borsa,
venendoci incontro. In tanti anni che lo conoscevo quella era forse la primissima
volta che lo sentivo rinunciare ad una riunione di lavoro. Per lui erano sempre
state la cosa più sacra di tutte, anche più delle feste comandate ,anche più
del 4 luglio il giorno più sacro di tutti per ogni cittadino americano. “Gli
affari non dormono mai” disse una volta
al piccolo figlioletto di 8 anni quando, allacciandosi la cravatta davanti allo
specchio, gli spiegava perché avrebbe dovuto rinunciare alla giornata padre
figlio che la scuola aveva organizzato e a cui il piccoletto non vedeva l’ora
di partecipare, orgoglioso com’era del suo papà gigante, “ e se ti distrai un
attimo, puoi star certo che ti ritroverai qualche pivellino pronto a mettertelo
in quel posto”.
Era
così strano dunque, vederlo rinunciare al suo lavoro, ammettendo le sue
debolezze e preferendo la sua vita provata agli affari.
A
pensarci bene non era la prima volta che notavo questo genere di stranezze da
parte sua (in un’altra persona sarebbe stato normale … ma in lui era
sicuramente un comportamento fuori dalla norma), il che mi fece temere che non
fosse tutto apposto anche se fisicamente era sempre l’uomo in forma e in
perfetta salute che conoscevo.
“Già
andate via ragazzi?” ci chiese ,approcciandoci e abbracciando Allison. A me
riservò invece una pacca sulla spalla. Dopo la figuraccia di Natale stava tentando di recuperare punti
nei nostri confronti. Forse il suo cambiamento era anche merito di quella sfuriata
che gli avevo riservato, anche se io non riuscivo a fidarmi pienamente di uno
come lui ,e mi mantenevo sempre a distanza di sicurezza ,diffidente. Mi ero già
bruciato tante volte con lui, non avevo voglia di ritrovarmi un’altra cicatrice
da ustione per colpa sua. Allison da parte sua se era fin da subito resa
disponibile a dimenticare quanto accaduto ,lasciando che l’innegabile fascino
di un uomo come Charles la irretisse.
“Sì
Charles … sono un po’ stanca questa sera” rispose Allison, come al solito
gentile “” ma sopra ci stono mamma e papà. Questa sera non sono usciti … ci
sono gli Yankees contro i Baltimore Orioles …”
“Uh.”
Commentò mio padre sovrappensiero “… beh allora è meglio che mi sbrighi a
salire ,scommetto che li stiamo facendo neri!”
Anche
se la sua serata tipo generalmente ,quando non era a lavoro, vedeva mio padre impegnato in riunioni privatissime al suo
circolo esclusivissimo, da quando aveva invitato i Riley a stare in casa sua
finché ce ne fosse stato bisogno, aveva rinunciato alle sue amicizie altolocate
in favore di serate tranquille nel suo appartamento tra cenette e partite di
biliardo quando Lois e Doug non erano in giro a godersi la New York by night.
Si
era creato un buon rapporto tra il padre di Allison ed il mio, forse aiutato
dal fatto che parlassero la stessa lingua a proposito di lavoro, nonostante
Doug fosse un semplice contabile. In più, entrambi erano fan degli Yankees in
Major League.
Nel
frattempo entro nel palazzo anche Smith, l’autista di mio padre. “Signore mi
ha chiamato?” chiese lui, formale e reverente. Mi ricordai solo allora di
averlo visto manovrare il cercapersone quando ci vide all’uscita degli
ascensori.
“Sì Bruce” ero talmente abituato a chiamare l’autista con il suo cognome, che
ogni singola, rarissima, volta che sentivo quel nome, dovevo trattenere le
risate, come un cretino. Ma non era colpa mia se Smith non aveva la faccia da Bruce manco per niente. “Per favore
riaccompagna la signorina Riley e mio figlio. A casa tua, Tyler, vero?” mi domandò
mio padre, sorridendo con aria furba.
“Sì
… cioè no” mi ripresi, ma solo dopo una dolorosa gomitata in pieno fianco da parte
di Allison. “ma ... ma cosa …?!“ rimasi interdetto. Non era da lui usare dell’umorismo leggero e sornione,
soprattutto quando parlava con me. “non crederete davvero che io e Doug non
abbiamo capito il trucco del riposo … siete giovani e vi volete bene …
è normale cercare qualche momento di intimità”
No
ok vi supplico … scavate una fossa per sotterrarmi … Dio che vergogna! Certi
discorsi me li aspettavo da Les ,con il quale negli ultimi tempi avevamo
instaurato un rapporto amichevole splendido, ma non da mio padre l’uomo
moralista e tutto d’un pezzo, sempre ligio al dovere e mai disposto a prendere
la vita con leggerezza. L’uomo che aveva sorriso per l’ultima volta nel 1999
quando gli dissero che finalmente aveva avuto una figlia femmina.
“Touchée”
sorrise Allison tra il divertito e l’imbarazzato “però non dica nulla a mia
madre la prego. L’ultima cosa di cui ho bisogno è una lezione sui fiori e le
api da parte sua …. O peggio ancora che mi faccia una di quelle prediche sulla
morale d il buon costume che il pastore della sua congregazione le ha fatto
imparare a memoria.”
Mio
padre sorridendo imitò una cerniera lampo che si chiudeva sulle sue labbra:
“Non ti preoccupare … sarò muto come una tomba. Buona notte ragazzi!”
“Buonanotte
papà!” salutai, spontaneamente e, come non mi accadeva più da una vita, non
sentii il sapore amaro della forzatura e della farsa. Non mi accorsi quasi di
essermi accomodato nella sua Maybach scintillante e luccicante senza nemmeno
una mia minima rimostranza, e che per una volta dopo tanto tempo vedevo in
quell’uomo mio padre e non un orco che era stato costretto a darmi il suo nome.
La
brutta esperienza di Allison ci aveva davvero cambiati tutti.
Seduti
nel retro della limousine mentre la strada e i palazzi sfilavano tutt’intorno e
New York si illuminava per la notte, Allison si accucciò a me, intrecciando le
sue gambe alle mie. Non era esattamente una posizione comodissima, le due
poltrone erano infatti divise da una colonnina divisoria con il frigorifero per
le bevande e la consolle multimediale; ma lei era piccolina, riusciva a trovare
spazio per accomodarsi anche nelle superfici più ristrette. Le posai un bacio
sulla testa carezzando la bella chioma castana, molto più lunga setosa e profumata
di quando la sfiorai la prima volta, nel buoi di quella catapecchia che lei
aveva per casa. Poi scesi con la mano verso le tempie, massaggiandole per un
po’, e poi più giù, con il dorso della mano ad accarezzare quasi
impercettibilmente la sua guancia offesa.
I
punti che le avevano applicato erano caduti da soli pochi giorni prima, lasciando
al loro posto una lettera scarlatta come impressa a fuoco. Il chirurgo plastico
che l’aveva presa in cura subito dopo l’incidente aveva già cominciato le
infiltrazioni di cortisone e le applicazioni giornaliere di creme e cremine, in
più si stava incominciando a pianificare un’eventuale laserterapia a fine
estate se non ci fosse stato nessun miglioramento con la terapia farmacologica.
Noi
cercavamo di non far cadere lo sguardo sullo sfregio che quei bastardi le
avevano lasciato perché, più che fisicamente, ad Allison faceva male
moralmente; d’altro canto però, Allison stessa s’era rifiutata di coprirla con
trucchi e correttori vari. Voleva andare avanti, ma non si sarebbe mai concessa
di dimenticare quello che le avevano fatto.
“Dimmi
un po’” esordii “mio padre non ti sembra un po’ strano ultimamente?”
“Mmm
no” rispose Allison, dopo averci riflettuto un po’ “se per strano intendi che
passa più tempo a casa rispetto a qualche tempo fa’… beh sì, ma non lo trovo
strano: io e te siamo spesso a casa sua per via dei miei e sicuramente ne vorrà
approfittare per starti vicino … hai visto che anche con Caroline la situazione
è migliorata tantissimo”
Già,
Caroline. La piccola era entusiasta della trasformazione positiva di nostro
padre, che l’aveva persino portata a visitare il suo museo preferito, il Met,
il giorno in cui Allison era appena tornata dall’ospedale ed era importante che
avesse attorno meno confusione possibile. Forse non lo aveva fatto proprio per
stare con la bambina, ma considerando i precedenti, quello era un passo da
titani.
“Non
lo so” continuai, scettico “mi sembra strano che tutt’a un tratto si comporti
da padre amorevole e premuroso come per anni non ha fatto. Voglio dire … sono
contento, soprattutto per Caroline, ma non mi convince … è cambiato dall’oggi
al domani!”
Allison
riemerse dalla cuccia che si era creata tra le mie braccia e il mio costato, tornando
a sedersi, con un gioco di contorsionismo, sulla sua poltrona e guardandomi con
attenzione, mentre mi posava una mano sulla guancia.
“Perché
ti sento preoccupato?” domandò, corrucciata.
Come
al solito, mi leggeva dentro meglio di chiunque altro, meglio anche di me
stesso, che non riuscivo a decifrare mai con chiarezza tutte le paturnie e
pippe mentali che mi tormentavano. Sì, aveva ragione, mi sentivo invaso da una
strana sensazione di paura e preoccupazione, come se gli ultimi eventi mi
avessero convinto che non si potesse mai abbassare la guardia, che non c’è mai
fine alle disgrazie.
“Sì
… sono preoccupato, hai ragione” ammisi. Ma perché? “Ho paura” le confidai “ho
paura che gli sia successo qualcosa, qualcosa che gli abbia fatto mettere in
discussione la scala dei suoi valori. Che voglia passare del tempo con i suoi
figli o che voglia redimere le sue cattive azioni perché non sta bene … o
qualcosa del genere.” Era un’assurdità, a dirla ad alta voce me ne rendevo
conto da solo, ma con un uomo come mio padre il diritto diventava rovescio con
una facilità disarmante. Quindi dovevo ampliare il raggio del plausibile…
“Non
ho un buon rapporto con mio padre, lo sai” continuai “ma è pur sempre mio padre
e gli voglio …”
“…
bene” concluse Allison per me una frase così semplice, ma così devastante, che
mi si bloccò in gola.
“vedi?!” proseguì lei “è la stessa cosa che è successa con mia madre. Le cose
non sono ancora andate a posto tra noi, ma il nostro è un legame di sangue che
non si spezza mai del tutto.”
“Già”
fu tutto quello che fui capace di dire. Non c’era nulla da fare, Allison
sarebbe sempre stata molto più matura e responsabile di me.
“La
tua famiglia – come la mia del resto – ha subìto una grave perdita. La botta è
stata forte per tutti, per noi, per loro e ognuno reagisce in maniera diversa,
te l’ho già detto una volta. Magari tuo padre ci ha impiegato un po’ di più per
via del brutto carattere … e la tua strigliata di Natale gli è servita per
svegliarlo e fargli capire che ha altri due figli che sono ancora vivi e hanno
bisogno di lui. Esattamente come io ho svegliato mia madre andandomene di casa”
“Tu
credi?” “Ne sono sicura … sei l’unico che in questi mesi non se n’è accorto …
non c’è niente di cui preoccuparsi” mi incoraggiò, serena. Mi sorrise, semplice
e luminosa come una mattina d’estate. Mi piaceva l’estate, mi piaceva lei. Riusciva
a trasmettermi tutta la calma interiore e la serenità che solo la pace
riconquistata con sua madre le aveva potuto restituire. Adoravo la prima Allison,
quella piena di problemi che mi facevano dimenticare i miei, scontrosa e a
volte intrattabile, ma la nuova Allison, quella vera, quella che avrei potuto
incontrare per le strade di Indianapolis solo qualche anno prima, lei mi aveva
rapito il cuore.
“Sei
perfetta … come farei senza di te” esclamai, avvolgendola in vita e trascinandola
a sedere su di me – i vantaggi di un’auto con i vetri oscurati.
“Non
è vero” replicò lei, arricciando il nasino e corrugando la fronte, mentre nascondeva
il viso nell’incavo del mio collo, bordeaux per la vergogna.
“Lo
sei” insistetti, pretendendo che mi guardasse e scuotendola fino a farla ridere
“perfetta per me”
“Ti
amo” disse, sfiorando le mie labbra, arpionandosi alla mia t-shirt.
“Ti
amo” risposi, e colmai l’esigua distanza che c’era tra noi con un bacio.
NOTE FINALI
Eccoci qua, l'inizio della fine.
Beh, come ormai immagino abbiate capito, non sarà un addio, ma piuttosto un
arrivederci, ma dopo tanto tempo è difficile e strano usare la parola
fine per qualcosa che ci ha accompagnato. Per me è stata una esperienza
meravigliosa, un viaggio difficile e tortuoso, una sfida costante, una
ricerca dei miei limiti (al solo scopo di superarli ogni volta). Ma non voglio
tediarvi con discorsi pesanti e strappalacrime, non è ancora il momento. Ho voluto
occuparmi di Charles tra gli altri oggi, con questo capitolo, perché non mi
sembrava giusto chiudere la storia e lasciarlo lì, con la sua cattiveria e con
quell'aura da cattivo che, in realtà, è solo una corazza di dolore che si porta
dietro dalla morte del figlio. Certo Tyler non è ancora pronto a riallacciare
dei buoni rapporti padre-figlio con lui, ma è un'inizio. Così come è agli
inizi, il rapporto Allison-Lois, di cui però parleremo più ampliamente nel
prossimo capitolo, l'ultimo (prima dell'epilogo).
Grazie mille a chi non mi ha mai fatto mancare il suo appoggio, grazie a chi
vorrà commentare (spero sarete di più dell'ultima volta)
à bientot
Federica
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