Credere nella felicità
Credere
nella felicità
È
la prima volta che piango di gioia.
Non ricordo
di averlo mai fatto.
Non ricordo
un motivo per cui avrei mai dovuto farlo.
Eppure, ho
pianto tanto in vita mia...
Sprofondo
ancora un altro po’ lungo il sedile stringendo le dita tra le dita fredde.
Chiudo gli occhi lasciando che altre lacrime cadano a rigarmi le guance,
solcandole in un nuovo torrente di felicità. Sono felice, e non riesco a
smettere di piangere. Sbatto le palpebre e prendo un respiro profondo, soffiando
fuori l’aria dai polmoni in un lungo sospiro. Tra le ciglia ancora imperlate
poso lo sguardo oltre il vetro del parabrezza. L’umidità ha steso un velo di
sottili goccioline d’acqua sul vetro, ma dietro di esso riesco a vedere comunque
il baracchino dei panini, con le sue luci al neon e le due persone dietro il
bancone: una ragazza ed un signore bello tondo, probabilmente il padre. Ha poca
importanza chi siano.
Fisso il
ragazzo col giubbotto di pelle marrone che, mani in tasca, fa la sua
ordinazione.
Senza alcun
bisogno che comandi il mio cervello, le mie labbra si incurvano in un sorriso.
Col magone che mi stringe la gola mando giù a forza la saliva salmastra
e cerco di trattenere altre lacrime. Non voglio essere vista mentre
piango come una sciocca. Quindi, scivolo ancora un pochino a nascondermi dietro
il profilo del cruscotto. Mi sento quasi una spia che mette il naso appena oltre
il bordo di un muro. E a questo pensiero rido di me stessa. Riso e pianto si
confondono insieme. Penso di essere pazza e rido ancora. E piango ancora! Dio,
sono pazza... Pazza di gioia!
E mi mordo il labbro superiore.
E sorrido. Da inguaribile freddolosa mi stringo le braccia intorno al
corpo, tirando il più possibile le maniche del cappotto sulle mani. Inclino la
testa da un lato e continuo a fissare il ragazzo al baracchino. Forse sto solo
sognando... Ma lo stomaco che brontola e fa le capriole è troppo reale, per
fortuna.
Abbasso piano
le palpebre ed altre due lacrime cadono dagli occhi.
Nel buio del
mio silenzio vedo una bambina coi capelli lisci e scuri nascondersi dietro il
frigorifero, mentre un vetro cade in
frantumi. Non vuole vedere sua madre che spinge a terra la nonna con in braccio
la sua sorellina. Non vuole vedere suo padre che le dà una spinta indietro e
soccorre la piccolina e la nonna. Se potesse, vorrebbe non sentire nemmeno le
urla dei genitori ed il pianto della sorella. Non vorrebbe sentire il fragore
del vetro della camera da letto che cede ad un pugno della madre e rovina al
suolo in mille pezzi... Oggi la bambina ha quattro anni. È il suo compleanno.
Mando giù un
sonoro, amaro, boccone. Col dorso della mano destra mi stropiccio gli occhi, poi
cerco un fazzolettino di carta nella tasca della giacca. Mi soffio il naso con
l’unico esemplare che riesco a trovare e torno a guardare davanti a me. La
ragazza dietro il bancone sta porgendo al giovane due bottigliette d’acqua.
L’uomo del baracchino, intanto, affetta un salume.
Il momento
delle lacrime amare passa e torno ad increspare le labbra felice. Un istante
dopo, il mio sguardo vaga nel vuoto della strada buia.
La bambina
dai capelli lisci e scuri vuole giocare con la mamma. Ha due telefoni finti
che possono comunicare tra loro. Vuole che la mamma giochi con lei a
telefonarsi da una stanza all’altra.
Ricordo
ancora il colore beige degli apparecchi, le cornette con i microfoni tondi, la
ruota con i buchini per girare i numeri, i lunghi fili attorcigliati.
La bambina
piange perchè la mamma non vuole mai giocare con lei, perchè non vuole mai
raccontarle una favola. Il suo papà lavora tanto la notte, e di giorno dorme, ma
l’aiuta a completare l’album delle figurine di “Kiss me Licia”, ed ogni sera
gliene legge una parte prima di andare via.
La bambina preferisce in assoluto la pagina in cui c’è la figurina di Marrabbio
che si ritrova con una padella in testa.
Un sorriso a
metà si ferma sul mio volto; gli occhi restano fissi sull’asfalto nero. In
realtà vedo, nitida, la figurina di Marrabbio dell’album di “Kiss me Licia”,
l’unico che riuscii a completare.
Scuoto il
capo lentamente e sbatto ripetutamente le palpebre per scacciare questa immagine
dalla mia mente e tornare al presente. Non faccio in tempo a pensare a quanto
sia fortunata a starmene qui, al calduccio di quest’automobile, aspettando il
mio panino caldo dalle mani premurose del mio ragazzo, che i ricordi
ricominciano ad errare da soli nel mio cervello.
La bambina
adesso è cresciuta, vive con la mamma ed il marito, ma non è felice. Piange ogni
notte perchè vorrebbe vedere il suo papà, farsi abbracciare da lui, farsi
coccolare. Solo, stare un po’ insieme. Piange e vuole fuggire da quell’uomo
violento che la picchia, picchia lei e sua sorella, per futili motivi, per
gelosia, per stare ad ascoltare le bugie e gli inganni della mamma, che ogni
notte promette che farà qualcosa, che chiamerà papà e le lascerà andare a vivere
con lui, ma che non mantiene mai la parola. Non le difende mai... Le costringe a
raccontare menzogne su menzogne, per non lasciarle mai troppo tempo con il loro
padre. Inventa che il telefono è rotto, dice che non possono dormire a casa sua
al di fuori delle feste di Natale e Pasqua, dice che lui è cattivo. Usa i soldi
ed i regali che papà fa loro per pagare le rate della macchina del marito; fa
vestire le bambine solo con la tuta. Niente gonne, niente abiti
carini.
Ma la bimba
dai capelli lisci sa che il suo papà non è cattivo. Come sa che la mamma beve di
nascosto.
Si vergogna
tanto... Per questo non parla.
Mentre le
labbra tremano lottando contro una nuova ondata di pianto, mi afferro le braccia
con le mani e cerco di scacciare via il rancore.
Eppure, dopo
tanto tempo, non posso perdonarla...
La bambina e
la sua sorellina riescono a raccontare tutto al papà. Lui le accoglie a braccia
aperte senza pensarci due volte. Non vuole che soffrano ancora e per questo
chiama subito la mamma, parla con lei, si mettono d’accordo per fare le cose per
bene, senza scossoni, senza cause in tribunale. Le bambine sono felici, ma la
madre ci ripensa: per tutti gli anni della durata del processo continuerà ad
accusare le figlie di mentire, di essersi inventate tutto, di essere pazze.
Ma io non
sono pazza. Mia sorella non è pazza.
Adesso mi
mordo il labbro inferiore e sento il gusto metallico del sangue sulla punta
della lingua. Ma non sto piangendo, nonostante gli occhi lucidi. Mi manca mio
fratello, il fratello che ora vive con mia madre e con suo padre. Vorrei che un
giorno potesse credere alla verità, ma lo
sento così lontano... Probabilmente sbaglio anch’io, ma il rancore è tanto, e
non riesco a perdonarla. A volte sembra che abbia capito, che voglia
riavvicinarsi, ma poi, un attimo dopo, tutto torna come prima: lei è la vittima
e noi siamo le pazze.
E adesso,
mentre il ragazzo con la giacca di pelle marrone viene verso la macchina con due
panini fumanti in mano, e le bottigliette d’acqua infilate nelle tasche laterali
del cappotto, non voglio più pensare al resto. Solo un ultimo, fuggevole
ricordo.
La mamma che
scopre di avere l’epatite C e che non ci fa fare le analisi per paura della
reazione di papà. Io, con la paura e questo grande segreto, che mi confido con
lui, chiedendogli in lacrime di farci fare le
analisi a tutti i costi, nascondendone il vero motivo a mia sorella,
ancora molto legata alla mamma, nonostante tutto. Allora avevo diciassette anni
e la causa era finita da poco più d’uno.
Non voglio
più ascoltare le bugie di mia madre. E non voglio più mentire per nessuna
ragione al mondo. Né voglio più piangere.
Il ragazzo
entra in macchina e mi porge il mio panino salame e mozzarella. Mi sorride
mentre lo fa, ed io ricambio. Nel ridere una lacrima sfugge al mio controllo e
mi riga la guancia. Ma lui, prontamente, la raccoglie, accarezzandomi il viso.
Lui sa tutto, ogni cosa. È la prima ed unica persona a sapere ogni cosa oltre
mia sorella. Lui, il ragazzo dai capelli scuri, gli occhi grandi ed il pizzetto,
col nome da immortale e la gentilezza di un uomo capace di amare senza chiedere
nulla in cambio.
Lui è l’uomo
che mi fa stare bene, che mi crede, che mi ama nonostante i difetti, che ha
deciso di rischiare con me. È grazie a lui se da un mese a questa parte dormo la
notte, io, che non ho mai dormito bene.
Ci
abbracciamo, forte forte, ed io che lo
stringo quanto più posso. La forza delle sue braccia intorno a me mi dà conforto
e sicurezza. So di non essere sola, e so che le persone buone e sincere esistono
ancora.
E tra i miei
pensieri, recito una preghiera, un ringraziamento, per questo piccolo grande
miracolo.
Non avrei mai
creduto di poter essere tanto felice, tanto libera.
Non posso
cambiare ciò che è stato, ma ringrazio Dio, il cielo, il destino, me stessa, per
avermi fatto incontrare quest’uomo meraviglioso. Perchè adesso rido, e sono
felice. E questo mi basta.
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