PRIMA CHE SIA TEMPESTA
Passo
delle Termopili, Tessaglia, 480 A.C., estate
I
più giovani blateravano di
mostri, di demoni vomitati dall’Ade, tanto numerosi da
prosciugare i fiumi,
tramutare i boschi in un deserto, rendere nera e sterile la terra con
le ceneri
dei loro bivacchi. Il Re fingeva di non sentirli, dicendosi da
sé che era solo
per darsi coraggio, come fanno i bambini quando, gli occhi spalancati
nel buio
della notte, si raccontano storie terrificanti sussultando al frusciare
leggero
d’ali di falena, al miagolio lamentoso della civetta nascosta
dentro un vecchio
rudere. Li ascoltava, e li guardava tremare, avvolti nei mantelli,
durante gli
interminabili turni di guardia. Non sono mostri, figli di Tifone e di
Echidna,
idre, centimani e ciclopi divoratori di carne umana, ma barbari dalla
pelle
scura e dai lunghi occhi truccati, Medi, Bactriani, Arabi dai barracani
svolazzanti, Assiri dalle barbe ricciute, Egizi, Caldei, Etiopi e
Nubiani neri
come la notte, Seri* dalle carni gialle
come i deserti della loro terra aldilà delle montagne. Il
poderoso esercito
che Khshayarsha* ,
il Re dei Re, ha
radunato sotto il suo comando per vendicare l’onta inflitta
dieci anni prima a
suo padre da
quel piccolo popolo
litigioso e disunito, da quelle insignificanti formiche che, invece di
sottomettersi, avevano osato impugnare le armi contro il possente Darayawus*
infliggendogli una sconfitta che avrebbe bruciato il suo
orgoglio per
l’eternità, non fosse stata lavata nel sangue,
incatenata nella schiavitù.
Il poderoso esercito che si sarebbe riversato
sulle pianure gialle di grano, sulle colline e sui boschi, sulle
montagne dove
avevano dimora gli dei, sui villaggi e sulle città, fino a
giungere al mare.
Avrebbero divorato il loro pane e i loro armenti, bevuto il loro vino,
stuprato
le loro donne, ridotto in schiavitù i loro
figli…Se gli uomini di guardia
al Passo avessero
ceduto alla
stanchezza, alla paura e al disinganno,
sarebbe stata la fine.
Sono
mostri, demoni vomitati
dall’Ade per portarci rovina e morte. Sono barbari selvaggi
votati a
distruggerci e ad annientarci. Diecimila? Ventimila? E noi solo
trecento, di
guardia al Passo, per fronteggiare la loro avanzata. Ragazzi a cui
è appena
spuntata la prima barba, che ancora non hanno giaciuto tra le braccia
di una
donna e vecchi soldati con i corpi devastati dalle cicatrici come
tronchi
scabri di antichi
ulivi. Trecento, e non
uno di più, perché la possente razza dei
guerrieri di Sparta dagli occhi
azzurri e dai capelli biondi come
gli
avi calati dal Nord all’alba dei tempi non rischi di
estinguersi o
d’imbastardirsi. Trecento guerrieri voltati
a morte sicura per salvaguardare la libertà di avidi
mercanti corinzi, di
debosciati ateniesi, di superstiziosi tebani, di vigliacchi che li
avevano
lasciati da soli a fronteggiare l’impossibile, da soli a
battersi contro una
morte che, come la luce del primo mattino, sarebbe arrivata da Oriente.
Trecento, contro ventimila. Che non sono mostri, e nemmeno barbari
selvaggi.
Fuori
dalla tenda, il fuoco del
bivacco illuminava di una luce tenue le tenebre di una notte senza
luna, e la
brezza che mitigava la calura dell’estate spettinava i lunghi
capelli rossi del
Re. Il lamentoso ululato di un lupo solitario echeggiò per
tutta la vallata e
Leonida, la testa china, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, si
abbandonò ai
ricordi.
***
Prima
che fosse tempesta.
Venti anni inghiottiti dal niente. Ne aveva sedici, quando il dolore
aveva
fatto di lui un uomo. Qualcuno soccombeva sotto i colpi dei bastoni,
perdeva i
sensi e si risvegliava nell’Ade. Gli efori* dicevano che chi
non superava la
prova era indegno di vivere, come chi nasceva storpio e veniva
abbandonato ai
lupi del Taigeto*. Nemmeno le madri dovevano piangere sui loro destini,
perché
Sparta non poteva permettersi il lusso di mantenere individui il cui
occhio non
era abbastanza acuto da centrare un bersaglio, il cui braccio non era
abbastanza robusto da scagliare una lancia con tanta forza da perforare
il
bronzo di una corazza , il cui petto non era abbastanza saldo da
fronteggiare
un nemico. Guasterebbero il vigore della nostra razza, aveva
sentenziato, un
mare di tempo prima, Licurgo, il grande Padre della Patria. Un padre
severo
fino alla spietatezza, ma se una piccola città priva di mura
che la
difendessero continuava ad esistere e il suo nome veniva pronunciato
con
reverente timore ai quattro angoli del mondo era in grazia di quelle
leggi
spietate.
Da
quando non era che un
marmocchio lentigginoso, sapeva che gli avrebbero chiesto di essere
coraggioso,
frugale, morigerato, misurato nei gesti e nelle parole. Gli avrebbero
chiesto
di ignorare la paura, di soffocare la pietà, di non credere
nell’amore. Gli
avrebbero chiesto di non piangere mai. E di dimostrarlo davanti a
tutti, nel
giorno in cui si celebrava Artemide Orthia e il dolore avrebbe fatto di
lui un
uomo e un soldato finché nel suo corpo temprato dal dolore e
dalle rinunce
fosse rimasto un alito di vita. Come gli altri e più degli
altri, perché era
figlio di re e re sarebbe potuto diventare egli stesso.
Il
vento di Borea era rude
sulla sua pelle escoriata e contusa. Leonida abbassò le
palpebre per difendere
gli occhi dalla polvere. Aveva
stretto i
denti e si era imposto di non urlare come una femminuccia,
ricordò, anche se l’istinto
gli imponeva di cancellare la memoria del dolore, come una donna che
abbia
appena partorito. C’era
riuscito. Suo
padre era stato orgoglioso di lui, e sua madre aveva medicato con oli
balsamici
il ricordo di quel giorno. Quello stesso ricordo che lui stava tentando
invano
di cancellare. Chissà se sarebbe stato sufficiente
allontanarsi a cavallo dalla
città, abbandonandosi alla ruvida carezza del vento, alle
acque corroboranti
dell’Eurota, cercando
nella solitudine
una risposta che non sarebbe venuta.
Ma
che importava? Con un
agile balzo scese dal cavallo che montava a pelo e si avviò
a passi decisi
verso il fiume. Per lavare via dal suo corpo la polvere, il sudore e il
sangue.
Per rinvigorire le membra con un’energica nuotata in
quell’acqua fredda che
rifletteva la sua immagine: quella di un sedicenne dinoccolato, dai
lunghi
capelli rossi raccolti sulla nuca con un lacciolo di cuoio e dai tratti
delicati di ragazza,coperto a malapena da una clamide corta, lisa per i
troppi
bucati, nient’affatto diverso da com’era stato
prima che a colpi di sferza e di
bastone facessero di lui un uomo e un guerriero.
Il
fruscio che percepì alle
sue spalle non era il vento di Borea che scuoteva le foglie.
Né il brontolare
sordo il tuono lontano, presago di un temporale imminente. Era un
pericolo, gli
diceva l’istinto, e, da guerriero spartiate, doveva
fronteggiarlo guardandolo
in faccia. Senza tremare. Qualsiasi cosa fosse.
Qualsiasi
cosa fosse.
Eppure, di fronte a un nemico come quello, anche il più prode degli eroi avrebbe tremato
di paura, battendo
i denti come sistri: un grosso lupo lo fissava immobile, facendo
filtrare un
ringhio rauco tra le fauci bavose. Gli avevano insegnato che i lupi temono l’uomo e
lo fuggono, ma
quell’animale…quell’animale era
idrofobo. Lo avrebbe attaccato e, anche se lui
fosse riuscito a spaccargli il cuore con un colpo del suo pugnale, una
sola,
piccola scalfittura di quei denti infetti sarebbe bastata a condannarlo
ad una
morte terribile.
Tratterrai
il dolore,
ricaccerai indietro il pianto e la paura anche quando il panico ti
torcerà le
budella, anche quando il sangue che fluirà rosso dal tuo corpo ti
lascerà intendere che la
morte è pronta a ghermirti, perché uno Spartiate
non trema neppure dinanzi al
Fato, il dio a cui tutti si inchinano rabbrividendo. Non ci sarebbe
stata la
gloria, nel suo destino.Neppure quella di una morte eroica, che avrebbe
reso
eterno nei secoli il suo nome. La follia avrebbe spinto la belva che lo
fronteggiava ringhiando ad attaccare, facendo violenza alla sua natura
vile ed
elusiva…Non gli avrebbe inflitto ferite gravi, ma sarebbe
bastato un graffio e
la fine sarebbe stata inevitabile. E atroce. Se una lunga freccia non
lo avesse
trafitto da parte a parte nello stesso istante in cui spiccava il balzo.
Leonida
crollò in
ginocchio,il cuore il tumulto, gli occhi incendiati dalle lacrime che
non
doveva piangere, neppure dinnanzi a un dio. A Febo, Signore dei Lupi,
che gli
aveva salvato la vita.
-Non
toccarlo.E’ più
pericoloso da morto di quanto non lo fosse da vivo.
Ma
non era stato il dio a
parlargli, con voce cantilenante e accento straniero. Leonida si
vergognò che
un altro uomo lo avesse sorpreso a tirar su col naso, come un bimbetto
piagnucoloso ancora attaccato alle sottane della madre. E si
voltò,
sussurrandogli grazie con un filo di voce arrocchita.
Hai
una mira eccellente,
straniero di cui non conosco il nome. E l’arco che impugni
è degno di un dio,
per magnificenza e valore. Ma un’arma deve uccidere con
efficienza, non
ammaliare per la sua bellezza…Avrebbe voluto dirglielo, ma
perché mancare di
rispetto a colui a cui doveva tanto?
***
-Dimmi
il tuo nome, così
saprò chi debbo ringraziare. Quel che hai fatto per me non
c’è oro che possa
ripagarlo.
E
adesso mi dirai che tutto
l’oro del mondo non vale la vita del più
miserabile tra gli schiavi, straniero?
Eppure, quelle parole sarebbero suonate strane in bocca a un uomo
abbigliato
con un fasto che non solo nella sua austera città ma perfino
ad Atene o a
Corinto sarebbe stato giudicato esecrabilmente sfarzoso, barbarico ed
effeminato.
-Mi
chiamo Shapur. Passavo
da queste parti per caso e…
La
voce grave era molto più
adulta dell’età che doveva avere. Come i suoi
gesti lenti, pacati e solenni.
Era bruno e olivastro come i miserabili iloti*, feccia della terra. Oro
e
argento gli scintillavano ai polsi e alle orecchie, come a una
cortigiana.
Eppure Leonida non avrebbe avuto dubbi circa la sua natura nemmeno se
non lo
avesse visto tendere l’arco, scoccare la freccia, uccidere il
lupo rabbioso.
Perché quel giovane alto,dai lunghi riccioli neri raccolti
in una complicata
acconciatura era un guerriero. Come lui.
Il
suo fato, già. Straniero,
quindi nemico, un dogma nel quale gli era stato insegnato a credere
senza
discutere dacché aveva raggiunto l’età
della ragione. Straniero, nemico…E aveva
salvato qualcuno destinato ad essere re. Ammesso che riuscisse a
crederlo,
guardando la sua clamide scolorita, i suoi piedi callosi dentro i
logori
sandali, come un contadino qualsiasi.
-Mi
farebbe piacere dividere
il pranzo con te. Come ti chiami?
-Leonida,
principe di
Sparta.
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