PREMESSA: dunque,
considerando che normalmente, quando scrivo, io esigo il più assoluto,
completo, devoto e mortale silenzio, questa shot è una di quelle
pochissimissimissime eccezioni che non possono finire sotto il nome di songfic,
perché con il testo e con la canzone in sé non hanno nulla a che vedere, e che
non sono nemmeno state scritte con un sottofondo musicale oggettivo, ma tutto
mentale.
Mi spiego:
scrivevo, e intanto nella mia testolina andava a tutto volume una di quelle
canzoni che io non riesco ad ascoltare senza cantare come una disperata (per il
sommo orrore del vicinato).
Perciò, siete tutti
caldamente invitati a procurarvi quel capolavoro che è “How am I supposed to
live without you” di Michael Bolton e di ascoltarla durante la lettura.
E poi mi direte se
non viene anche a voi da cantare a squarciagola.
I bagagli erano
pronti.
Certi momenti
arrivano, e tu non ci puoi proprio fare niente. Puoi al massimo cercare di
viverli, sforzarti di piantarteli bene bene nella testa, e poi vivere per
sempre nel terrore di dimenticarteli.
La vita è fatta di
tappe e traguardi, è vero. Vogliamo crogiolarci un po’ nel piacere di qualche
sofismo? E va bene, mettiamoci qui e discutiamo per ore dei due grandi cancelli
della vita di ciascuno, quello che sta all’inizio, e quello che sta alla fine.
Che poi, a ben guardare, potrebbe perfino essere lo stesso, ed essere stati noi
ad aver fatto un giro in tondo lungo un bel po’ di anni, e costato una miseria
di fatiche. Normalmente se si gira in tondo significa che ci si è persi, e
allora su, valanghe e valanghe di frasoni altisonanti, di massime
peudofilosofiche, paranormali e paranoiche.
Hermione ci
sguazzerebbe.
La verità, è che
discutere di vita e di morte, di momenti che ti segnano come croci, che ti si
tatuano addosso più o meno a tradimento, è facile, e a lungo andare annoia.
Perché alla fine dei conti, i momenti che poi veramente uno si porta nel cuore
non sono quelli.
Chi se la ricorda,
la propria nascita? Chi passa tutto il proprio tempo a pensare alla propria
morte?
No, le cose che
davvero rimangono dentro, quelle che ti condizionano l’umore durante una serata
fra amici, quelle che ti fanno dire sì o no il più delle volte, sono le cose
piccole.
Come il primo
giorno di scuola, per esempio. O l’ultimo.
I bagagli erano lì,
pronti da ore, addossati tutti assieme dietro la porta.
Harry dondolava le
gambe giù letto, incespicando di tanto in tanto sul pavimento, perché si erano
fatte troppo lunghe.
Harry Potter, per
Hogwarts, era nato un bel giorno di sette anni prima, e sarebbe morto oggi. E
stava per uscire dallo stesso cancello da cui era entrato. Ironie del destino.
Ron era volato di
sotto, assieme a Seamus e a Dean, a salutare la Sala Comune. Probabilmente
stava saltando come un ossesso sulla sua poltrona preferita, oppure si stava
imboscando nelle tasche qualche pezzo di brace del camino, e c’era solo da
pregare che si assicurasse fossero ben spente, prima.
Harry era rimasto
da solo nel suo dormitorio. Era felice di avere qualche minuto di tempo da dedicare
alla stanza che aveva visto tutto di lui, che gli aveva fatto da guscio sempre,
in silenzio, senza mai far pensare l’antichità ingombrante del suo soffitto e
delle sue pareti. La sensazione di affettuosa gratitudine che provava verso di
essa sarebbe stata qualcosa di animista, se non fosse stato per la fastidiosa
interferenza della razza peggiore di nostalgia, quella preventiva, quella che
“dì addio a questo posto, perché non lo rivedrai mai più”, però tu intanto ci
sei ancora dentro, in quel posto, ed è strano, è stupido, che ti manchi.
I bagagli erano
pronti, già. Lui un po’ meno.
Non era solo al
dormitorio che avrebbe dovuto dire addio.
Ron, lui ci sarebbe
sempre stato. Hermione, nemmeno da parlarne, come si poteva anche solo pensare
di perdersi di vista?
Ginny,
Dean, Seamus. E con un po’ di
fortuna, anche Neville. Harry poteva dirsi quasi certo che non avrebbe perso
nessuno, nessuno di loro, nessuna delle persone importanti per lui.
Ma Hogwarts era
molto, molto di più, del suo gruppo di amici di sempre.
Hogwarts era tutto
quell’insieme di vociare a cui ci si abitua subito, era un milione di facce
note, di volti senza un nome preciso, di chiacchierate occasionali, di risate
che nascono per caso, di persone che non sapresti se salutare o no, se le
incontrassi per le strade di Diagon Alley. Persone prendono vie diverse dalle
tue, durante le gite a Hogsmeade, che vanno in locali diversi, a parlare di
cose diverse con amici diversi, ma che intanto sono lì, e hanno quelle facce
che tu conosci, che tu sai, che tu ami per abitudine, che hanno voci che tu a
volte riconosci e a volte no.
I bagagli, ora, non
c’erano più.
Harry sapeva che
era ora di andare. Scese le scale ripide con l’agilità figlia di tanta pratica,
infilò il quadro, ed eccolo, travolto dalla confusione, dalla solita
confusione. L’ultima confusione.
Le scale lo
spostarono a tradimento verso un pianerottolo che non era il suo,
costringendolo ad allungare il giro.
Harry le ringraziò
di cuore.
La Sala Grande era
un vociare eccitato e disinvolto, un gridare nomi, un correre da una parte
all’altra che non faceva che amplificare la sensazione che non ci fosse più
tempo, che ormai ciò che era fatto era fatto, che i semi piantati in quegli
anni adesso sarebbero germogliati da soli, senza che lui potesse più
innaffiarli, o cambiarli di posto.
Harry guardò Ron di
sfuggita, seduto poco lontano, e si chiese se anche lui avesse la sensazione di
essere ormai allo scacco di una lunga, lunghissima partita a scacchi, nella
quale ognuno aveva avuto il suo turno, ognuno aveva mosso le sue pedine, ognuno
aveva scelto la propria strategia.
E dire che il primo
a cominciare era stato proprio lui, quando il primo giorno aveva preso in mano
i suoi futuri sette anni senza nemmeno saperlo.
“Non Serpeverde”,
ed ecco la prima mossa, che aveva condizionato il nascere di amicizie e di
inimicizie quasi allo stesso modo.
La sua torre in
risposta al primo pedone mosso da un altro, che era avanzato di una casella e
gli aveva teso la mano.
Harry si azzardò a
guardare il tavolo Serpeverde come mai aveva fatto prima. Ecco, maledizione,
un’altra cosa che in tutti quegli anni non aveva mai fatto. Sette anni, e
nemmeno sapeva come mangiava Draco Malfoy, se sceglieva il pane bianco o quello
integrale, se gli piaceva intingere i biscotti nel tè, oppure se inzuppava le
brioches nel latte, come lui.
Harry non era mai
stato pronto a dire addio a Draco Malfoy.
Addio per davvero,
addio nel senso di a mai più rivederci.
Eppure, con ogni
probabilità, lui sarebbe stato la persona che avrebbe ricordato di più, dopo i
suoi amici. Il primo nome fuori dall’elenco dei protetti, il primo incerto.
Anzi no, incerto no, perché non c’erano dubbi sul fatto che non lo avrebbe mai
più rivisto in vita sua.
Dio, mai più. Che
razza di suono agghiacciante avevano, quelle due paroline del cazzo messe
insieme. Suonavano proprio come morte, come un “no” secco e inappellabile.
Mai più, mai più
Draco Malfoy, mai più occhiatacce e pugni serrati, mai più testoline bionde che
fluttuano sulla folla, e chissà perché lui se ne accorgeva sempre, non se li
lasciava scappare mai, quei capelli unici.
Draco Malfoy se ne
andava per la sua strada, e lui? Che cosa ne pensava, lui, di Draco Malfoy?
Quali parole erano le più giuste per tirare una conclusione degna a tutto ciò
che lui e Draco erano stati, in quegli anni? Come dare un peso, un’unità di
misura, all’importanza che Draco aveva avuto, al ruolo che aveva recitato,
nella sua vita?
Probabilmente in
nessun modo, visto che Draco non aveva mai recitato, Draco non se n’era mai
stato al suo posto, Draco era sempre, sempre entrato nella sua quotidianità con
naturale prepotenza, e Harry, forse, non gli aveva opposto una resistenza
adeguata.
-
Scusatemi. -
- Hey,
Harry! -
- Torno subito. -
Se doveva dirgli addio
quel giorno, lo avrebbe fatto guardandolo in faccia. Avrebbe mosso l’ultima
pedina, perché non voleva vivere con il rammarico di non aver chiuso la sua
partita con Malfoy. Dopo tanto giocare, dopo tutte le strategie andate a vuoto,
dopo i bluff, e i mille ribaltamenti di situazioni che sembravano disperate, da
una parte e dall’altra.
Non un pari. Fra
loro non poteva finire con un nulla di fatto.
- Malfoy. -
- Allora? Che vuoi?
-
Già. Difficile a
dirsi.
- E così, siamo
all’ultimo giorno. -
- Un applauso
sentito, Potter, direi che ormai non ti batte più nessuno, quando si tratta di
accorgersi di cose ovvie. -
Nemmeno Draco ci
credeva troppo, in quello che diceva. La malinconia è una malattia notoriamente
contagiosa.
- Ti mancherà,
questo posto? -
- E a te che
importa? -
- Così. In fondo
tutti quanti lasciamo qualcosa di nostro, qui. Persino tu. -
- Ah sì? E tu che
cosa lasci, qui? -
Harry contrasse
l’angolo sinistro della bocca in un sorriso doloroso. Probabilmente, la cosa
che gli faceva più male lasciare lì era proprio lì davanti a lui. Lì, per gli
ultimi minuti, prima di andarsene.
- Riuscirò ad
essere sincero con te, almeno adesso? -
- … Prego? -
Harry si studiò la
mano destra con cura. Controllò che tutto fosse a posto, che non ci fosse nulla
di imperfetto, che fosse degna.
E la offrì a Draco.
Draco sbarrò gli
occhi fino a perderne il colore.
- Sai, credo che… -
incespicò Harry. – In fondo io e te non abbiamo mai cercato di capirci. E
adesso che è tutto finito, mi dispiace. Probabilmente tu rimarrai per sempre il
mio rimpianto più grande. -
C’era una buona
quantità di cose che Harry si era sforzato di ficcare dentro a quel
“rimpianto”, come fosse stato uno dei suoi bagagli, un baule troppo piccolo per
riuscire a farci star dentro tutto quanto. Ma non voleva che le cose più
importanti restassero fuori, non quella volta.
Per questo,
“rimpianto” assunse il sapore metallico e strano dell’imbarazzo, e quello più
amarotico della paura, quello beffardo e troppo speziato della vergogna, e
quello delicato della sincerità, che faceva capolino nel sottofondo. E il
linguaggio discreto delle parole di Harry divenne un alfabeto cifrato fra le
cui lettere Draco si orientò, un po’ stordito, decisamente incredulo, e sotto
sotto grato.
Sollevò la sua
mano, indeciso, tenendole gli occhi addosso come se fosse stato il suo sguardo
a muoverla, e non il suo braccio, come se fosse stata la marionetta della sua
volontà. Si fermò sotto il palmo di Harry.
Dalla nicchia
protetta dagli alberi dove si trovarono, Harry e Draco sentirono all’improvviso
il rumore delle ruote delle carrozze che si fermavano davanti alla scuola.
Adesso, era questione di minuti, prima che tutti uscissero, e saltassero sulla
loro vettura, schiamazzando e gridando.
Era questione di
minuti perché tutto finisse.
Harry afferrò la
mano di Draco, e non era una stretta, la sua.
Il linguaggio del
corpo parla una dialettica sua, precisa, fatta di sfumature precise, come
precisa è la differenza fra un palmo contro un palmo, e fra un palmo contro un
dorso. Due palmi fanno una stretta di mano, un dorso e un palmo fanno… cosa
fanno?
Un tenersi per
mano? Un qualche intreccio strano? Esiste una parola per descrivere quella
posizione particolare delle mani?
Harry pensò che, se
non altro, un paio di paroline per spiegare il significato di quel gesto
esistevano, e gli prudevano sulla lingua.
Tese le dita,
divaricandole prudentemente, e Draco infilò le proprie fra le sue, annodandole
con cura.
- Hey,
Harry, dove sei? -
Harry non si mosse
finchè Draco non allentò la sua presa.
- Stanno per
partire. -
- Già. -
- Faremmo meglio ad
andare anche noi. -
- Sì, hai ragione.
-
- Potter? -
- Mmh? -
Gli occhi di Draco
danzarono su e giù, imbarazzati.
- Forse… forse noi…
potremmo… -
- Sì. Io spero di
sì. -
Draco annuì, e non
disse più niente. Se ne andò con lo sguardo basso, senza voltarsi indietro.
Harry si prese il
tempo per guadagnare qualche passo di distanza da lui, prima di incamminarsi e
raggiungere i suoi amici. Pensò con un mezzo sorriso pieno di illusioni che
quell’ultima mossa non era stata uno scacco matto.