Lazy Bones
Te lo ricordi il giorno in cui
ti hanno dato il permesso di volare?
Prendesti subito carta e penna
e iniziasti a disegnare lo scheletro per
le ali. Linee e linee d’inchiostro che andavano a sistemarsi
ordinatamente sulle righe e oltre. Di tanto in tanto comparivano
piccole nuvole nere, pesanti, di quelle che promettono temporali.
Nuvole per nascondere gli errori, per cancellare le sviste. Piccole
nuvole su cui atterrare nel caso il vento fosse diventato
più forte. Nuvole per distendersi e
non cadere sulla fredda roccia della terra.
Disegnasti centinaia di paia
d’ali su altri cento fogli. Ali
per volare sull’amore, altre per sfogare la rabbia e la
frustrazione. Allora prendesti del legno, o forse una chitarra, e
quelle ali di carta divennero elettricità e suono.
Luce e suono.
I più veloci a viaggiare nel tempo e nello spazio.
Non avevi bisogno di piume,
non avevi bisogno di ossa.
Luce e suono e il decollo era
dolce e facile come addormentarsi.
Ti ritrovasti a galleggiare
sotto il tetto del cielo senza nemmeno
accorgertene. Non trovavi la differenza tra suonare e volare. Per te
erano la medesima cosa.
Iniziasti a sorvolare le
soffitte della tua città e i tetti
dei grattacieli. Trovasti anime simili alle tue; alcune sono rimaste
indietro, troppo attaccate al loro nido per seguirti, altre ti hanno
seguito, senza chiederti dove stessi andando. L’hanno fatto
per lo stesso amore che riempie il tuo cuore.
Amore per la musica.
Allora siete rimasti in tre,
anzi quattro, a volare e un mondo intero a
osservare il vostro volo.
Pochi hanno assistito al
decollo, eppure chi non c’era sente
di farne parte.
Però, forse, hai
creduto più volte che da
lassù il mondo facesse meno male, che stare più
vicino a chi se n’è andato ti facesse sentire
tranquillo. Che non avresti sofferto per chi se ne andava e che il
tempo sarebbe trascorso più lentamente.
E invece no.
La verità
è che il tempo non cambia dalla terra
al cielo, ma solo spazio.
Un problema, visto da
lassù, può sembrare
più piccolo, ma c’è. Un po’
come quando t’infili una spina nelle dita. Non la vedi, ma il
dolore lo senti comunque.
Ed è
così che hai iniziato a perdere quota, a
sentire il peso sotto le tue ali.
Cantare non bastava,
né tanto meno scrivere. Il suono non
era magari quello che volevi e la luce dei riflettori iniziava a
diventare accecante.
Hai adottato la tecnica del
silenzio e accettato le avance della
depressione. Ci sei andato in giro bello e sorridente. Come se nulla
fosse.
Hai preso a volare basso, tra
le mura dei grattacieli e grattando i
tetti delle case. Hai schivato all’ultimo istante la cima di
un albero e il campanile di qualche chiesa.
Hai ceduto. Sei andato a
schiantarti contro quei fili della luce dove a
volte qualche rondine ci rimane secca. Hai rischiato di rimanere
crocefisso su qualche palo della luce.
Era da vent’anni che
volavi e non te ne sei nemmeno accorto.
Hai sofferto per quel tempo passato in fretta cercando di trovare un
perché a quel corpo e a quell’anima che non ne
hanno risentito. Non riuscivi a trovare il perché di quella
stanchezza e di quel dolore, quando poi eri sempre lo stesso.
È lì che
il tuo canto di fenice è
diventato un lamento di gufo.
Loro ti hanno ascoltato e ti
hanno preso in tempo, a qualche metro da
terra.
Ti hanno adagiato piano su
quelle nuvole nere che avevi riempito con
tanta cura per i momenti di debolezza, in cui avresti tremato di paura.
Ti hanno dato tempo e fiducia.
Sanno che tornerai con quel
sorriso storto e gli occhi verdi di
speranza.
Perché volare
è il tuo mestiere, ormai, e chi ti
guarda da quaggiù lo sa!
Perché, in fondo,
ci hai insegnato a volare.
Perché, lo
sappiamo, siamo
parte dello stesso volo.
Angolo della pazza/demente:
Holà, son tornata.
Cioè, vi ho lasciato questa semi-cagata (togliamo anche il
semi), in attesa che mi torni l'ispirazione per un nuovo racconto.
Credo si capisca il motivo che ha ispirato questa non-so-cosa.
Ad ogni modo, se volete lasciare una recensione anche per insultare, ne
sarò felice.
Bye!
Franny
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