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GLAUKOPIS
CAPITOLO 1
Sono
passati anni, tanti
anni, dall'ultima volta in cui ho messo piede in questo luogo. Tanti
anni, ma non abbastanza da farmi dimenticare di quello che è
successo.
La piana è deserta, tutto ciò che i miei piedi
calpestano
è terra chiara mista a sabbia ocra. Il vento fa volare la
polvere tutto intorno a me e mi scompiglia i capelli, che la mia
complicata acconciatura non riesce a trattenere. Briciole di pulviscolo
mi entrano negli occhi, facendoli lacrimare. O forse sto
piangendo veramente, non è colpa del vento.
Alla mia sinistra si estende il
mare, una distesa del
blu più vero che abbia mai visto. E' un pozzo profondo, una
coperta finemente tessuta, un cielo notturno sceso in terra per
riposare.
Alla mia destra, invece, le rovine. I resti delle mura, squarciate un
po' dal tempo e un po' da quella guerra tanto lontana, e oltre le mura,
macerie di abitazioni ancora annerite. Lo scheletro del Cavallo,
invece, non c'è più. Deve essersi distrutto con
lo
scorrere degli anni, con le piogge e con i fulmini di mio padre.
Mio padre. Mi guardo intorno preoccupata. Non c'è nessuno,
ma so
che lui sa che mi trovo qui. Come potrebbe non saperlo? Oltre ad essere
il più potente degli dei, è anche mio padre. Sa
di sicuro
delle lacrime che, ancora una volta dopo tanti anni, mi solcano le
guance.
In me non è cambiato nulla da allora. Sono rimasta la
stessa.
Sono una dea, e gli dei non invecchiano come gli uomini, non con la
loro rapidità. Quanti anni sono passati? Due, cinque, sette?
Potrebbe non esserne passato nessuno. Solo guardandomi intorno intuisco
che di tempo ne è passato.
Ma così come non è cambiato il mio aspetto, non
è
cambiato quello che provo, né il ricordo di quello che ho
provato, in
questo luogo, tempo fa.
Non è cambiato il mio ricordo dell'incontro con quell'uomo,
e di tutto quello che tale incontro ha comportato.
Mi infilo l'elmo che tengo sottobraccio e mi dirigo verso le mura
diroccate, e mi sembra ancora di vedere quell'esercito potente come
un'onda del mare, e di sentire ancora quegli schiamazzi agitare la
piana di Troia.
La prima volta in cui lo vidi, la guerra era appena iniziata.
Il mare color notte era invaso dalle navi. Migliaia di navi. Navi dalle
vele colorate, sparpagliate come stelle. Miriadi di guerrieri, schiavi
e schiave si riversavano sulla spiaggia di sabbia e terriccio. Ognuno
proveniva da un diverso luogo, infinite culture si stavano fondendo in
un trepidante marasma.
Ero scesa alla
piana di Troia con Artemide e Afrodite, per vedere come procedeva
l'arrivo degli Achei a Ilio. Mentre loro erano
entusiaste, io, pur nella mia curiosità, non ero serena.
Ritenevo quella una guerra giusta, ma futile. Una guerra per una donna,
offerta a quel tale, quel Paride, da Afrodite. Una guerra che avrebbe
potuto essere evitata. Ero la dea della guerra combattuta per nobili cause.
Il dio della violenza
era quel megalomane di Ares, io mi occupavo solo ciò che era
combattuto
giustamente. Ero,
però, anche la dea della saggezza, e la mia mente mi diceva
che,
per quanto giusta, era una guerra inutile. Per la prima volta ero
divisa, combattuta.
Ero una dea, non un'umana, eppure mi comportavo
come una di loro.
"Non possiamo restare qui", riflettei ad alta voce. "'E' meglio tornare
da nostro padre".
"Non ci penso nemmeno", cinguettò Afrodite. "A Troia
c'è
mio figlio Enea. Suo padre è Anchise, ve ne ho parlato,
quando...".
"Efesto, Ares, poi questo mortale, Anchise... ti ricordo che sei tu
stessa la causa di questa guerra, Afrodite".
"Artemide, se non vuoi stare qua puoi tranquillamente tornartene
all'Olimpo. E tu Atena, se vuoi, puoi andare con lei. Io ho intenzione
di assumere le sembianze di una schiava, entrare a Troia e salutare mio
figlio".
Ciò detto, in un attimo Afrodite si tramutò in
una
ragazza dagli abiti poveri e poco appariscenti tipici di una schiava, e
sparì in mezzo alla folla. Era così minuta e
veloce che
in attimo la perdemmo di vista.
"Non rischia di essere catturata dagli Achei?", domandò
Artemide, un poco preoccupata, osservando sei enormi guerrieri poco
lontani da noi che scaricavano da una nave un pesante ariete di legno.
"No", la rassicurai. "E' abbastanza veloce e poco appariscente da non
essere notata. E inoltre, è una dea, come noi".
Restammo in silenzio per qualche secondo, ad osservare il viavai di
armi e soldati.
"Io la seguo", affermò. "Anche se di certo non
andrò a
rimirare i guerrieri: voglio vedere Troia. Là sono molto
devoti
al culto di Artemide dea della caccia. Vieni anche tu?".
Artemide si voltò a guardarmi interrogativamente.
Osservai le alte mura di Troia, mura che sembravano inoppugnabili,
stagliarsi illuminate contro il cielo terso. Il Sole ardeva senza
pietà, quel giorno. Poi il mio sguardo passò alla
moltitudine di soldati Achei. Principi e re, ognuno con la propria nave
dalla vela colorata, venuti a combattere per una donna.
"No", le risposi, mantenendo fisso lo sguardo sugli Achei, "io resto
qui, sulla spiaggia".
Mentre Artemide si allontanava, anche io assunsi le sembianze di una
schiava: ma non di una schiava Troiana, bensì una
proveniente
dalla Grecia. Feci il mio gesto abituale di calarmi l'elmo sul viso, ma
restai a mani vuote: non avevo più l'elmo, solo capelli
castani,
ben diversi dalla mia veri chioma color dell'ebano.
Mi avvicinai alla folla, pronta ad inoltrarmici.
Ed ecco, ero dentro. Le persone mi sorpassavano, mi urtavano, mi
vedevano ma non mi osservavano. Potevo spiare senza essere spiata.
Sentii un richiamo nell'aria. In lontananza volava una civetta.
Sospirai. Una civetta che volava in pieno giorno non era normale, i
guerrieri avrebbero subito capito che Atena si era nascosta tra la
folla. Feci un'impercettibile gesto con la testa, invitandola ad
allontanarsi.
La mia attenzione fu attratta da una coppia di uomini accanto ad una
tenda che discutevano con, apparentemente, enorme trasporto. Non
stavano litigando, come avevo pensato in un primo momento. Stavano
parlando di spedizioni militari, e uno dei due faceva proposte
all'altro, con il tono di chi non può aspettare un minuto di
più. Spedizioni militari. Mi avvicinai, cercando di non
essere
notata. Era sempre così: ogni volta che si trattava di
guerre e
battaglie, sentivo un fremito percorrermi da capo a piedi, ed ero
attratta inevitabilmente dal discorso, o dalle armi, o da qualsiasi
cosa fosse. Gli scintillii al Sole degli scudi erano tutti per me,
quando li vedevo sembravano quasi chiamarmi. Parole come "spedizione",
"armata" e "lancia" avevano un suono che incantava il mio udito, come
una musica che conquista lo spirito.
Li osservai. Uno dei due era più basso e meno appariscente
dell'altro, parlava con un
tono di voce più pacato e sembrava più tendente
alla
bontà e alla
gentilezza. L'altro invece si esprimeva con gesti forti e decisi. Era
più muscoloso e alto dell'amico, la voce più
possente,
maggiore
l'inclinazione alla guerra e alla violenza. Però, erano
entrambi
biondi e bellissimi. I loro capelli sembravano pagliuzze d'oro, che
risplendevano come infuocate al Sole della terra di Ilio.
"Dobbiamo essere soltanto noi Mirmidoni", stava dicendo quello più alto al compagno,
gesticolando freneticamente. "Altrimenti la cosa non
riuscirà.
Per abbattere le difese esterne della città bastano pochi
soldati, mobilitare l'intero esercito significherebbe...".
"Lo so, lo so!", esclamò l'altro ridendo. "Tranquillo. Me lo
hai
già detto. Ora, piuttosto, vai a recuperare il resto della tua roba, l'hai
lasciata quasi tutta sulla nave".
"Ora non posso", rifletté il primo. "Ho altro a cui pensare,
devo parlare con Agamennone di una faccenda, e poi mettere a posto gli oggetti che ho già scaricato".
"Allora andrò io a prenderla, se vuoi".
Il guerriero guardo l'altro sorridendo.
"Grazie. Sei un amico".
"Di niente. Sono solo felice di poterti fare un favore".
Nei pochi secondo in cui rimasero a fissarsi, potei notare che,
nonostante le maggiori altezza e virtù fisiche, il guerriero
che
aveva parlato di spedizioni militari sembrava il più giovane
fra
i due. Si notava in lui una certa impulsività a cui l'altro
sembrava essere superiore, come chi ha più anni di
esperienza -
o forse, semplicemente, erano due persone molto diverse. Diverse ma
profondamente, inscindibilmente legate. Lo si intuiva dal sorriso
impresso sui volti di entrambi nei pochi istanti in cui si guardarono
negli occhi. Mentre quello più basso aveva sorriso per tutto
il
tempo, l'altro l'aveva fatto solo in quel momento. Ma in quel sorriso
c'erano tutta la sincerità e tutto l'affetto di un vero
amico,
quasi di un fratello.
Si separarono. Uno si diresse verso il mare, l'altro sparì
in
direzione delle mura. Davanti a me era rimasta solo la tenda, immaginai
appartenente ad uno dei due.
Vinta dalla curiosità e dal desiderio di saperne di
più su quei due amici dai capelli d'oro, vi entrai.
C'era un ricco giaciglio addossato alla parete in fondo, e il resto del
pavimento era cosparso di sacche di tela piene di qualcosa. Il
guerriero proprietario della tenda evidentemente non era ancora
riuscito a mettere ordine. Mi chinai, tentata di sbirciare il contenuto
di una delle sacche. Un pensiero mi attraversò la mente come
un
lampo di quelli di mio padre: mi stavo comportando esattamente come
Afrodite. Un'impicciona irrispettosa. Ero la dea della saggezza. Ma ero
anche la dea della guerra, e probabilmente alcune di quelle sacche
contenevano armi. Al solo pensiero di slacciare l'apertura della tela e
ritrovarmi fra le mani del ferro scintillante, non resistetti.
Proprio come avevo immaginato, il baluginare del riflesso del Sole che
filtrava dalla tenda sul ferro mi rapì. Un attimo dopo,
però, mi accorsi che ciò che riluceva non era
ferro
bensì rame, e che non si trattava di un'arma
bensì di una
statuetta di un dio. La presi in mano: rappresentava una dea che
portava, sopra la veste, un'armatura. In mano teneva un'alta lancia e
in testa un elmo, su cui era posata una civetta.
Era una statuetta di Atena, una mia statuetta.
"Chi sei? Cosa ci fai qui?".
Una voce possente mi fece sobbalzare, e la statuetta mi cadde di mano.
Era entrato il guerriero più alto e muscoloso, che ora mi
fissava con gli occhi azzurri che rilucevano d'ira.
"Chi sei? Come osi entrare nella mia tenda e frugare nelle mie cose?",
gridò. Mi si avvicinò a grandi passi e mi prese
per le
spalle, prima che potessi compiere qualsiasi gesto. "Rispondi! Che cosa
stavi rubando?!".
La soluzione era una sola. Chiusi gli occhi, e un attimo dopo sentii
nuovamente il peso dell'elmo sulla mia testa. Immediatamente, le sue
mani lasciarono le mie spalle, ora ricoperte da veli pregiati e non
più di abiti da schiava.
"Perdonami, mia signora... io non sapevo...", iniziò.
"Chi sei, guerriero?", domandai, interrompendolo.
"Sono Achille figlio di Peleo, re dei Mirmidoni", disse guardandomi
negli occhi.
Achille.
Dunque, finalmente incontravo il Pelide Achille, il semidio figlio di
Teti, di cui avevo tanto sentito parlare. Il bel guerriero forte e
biondo che nessuno aveva mai sconfitto. L'invulnerabile, l'eroe.
Fra tutti i soldati Achei che erano giunti a Troia, ero capitata
proprio nella sua tenda.
Sosteneva il mio sguardo con una luce negli occhi, al contrario di come
avrebbe fatto la maggior parte della gente davanti ad un dio. Ma la sua
non era sfrontatezza: leggevo in lui un profondo rispetto verso di me,
una devozione. Non mi guardava negli occhi per affrontarmi, ma per
comunicarmi in modo diretto la propria ammirazione. Un modo di
comunicare che mi toccò molto più
profondità di
quanto avessero mai fatto inchini e inginocchiamenti.
Lo sguardo che si addice ad un eroe, sicuro di sé ma mai
empio e sfrontato. Da qualche parte, mi colpì.
Un tuono rombò, lontano. Vi sentii un richiamo. Mio padre.
"Achille Pelide, re ed eroe dei Mirmidoni, è stato un onore
conoscerti", dissi restituendogli la statuetta. "Tornerò
presto
da voi Achei. Potrete contare sulla mia protezione".
Mi diressi verso l'uscita e mi fermai sulla soglia della tenda. Il
cielo si era improvvisamente rannuvolato, e i fulmini lo illuminavano
esattamente sopra di me.
"Aspetta, figlia di Zeus Egioco. Ho bisogni di parlarti di questa
guerra".
Mi voltai a guardarlo. I suoi occhi, ora che il Sole se ne era andato,
erano diventati dello stesso colore del cielo nuvoloso.
"Non posso, ma tornerò presto".
"Ti aspetterò presto, dea dall'occhio azzurro".
Guardai un'ultima volta l'eroe di cui avevo tanto sentito parlare, e
poi me ne andai in tutta fretta, ignara di quello che si era appena
scatenato, pensando che i miei occhi erano dello stesso colore dei
suoi.
NOTE:
L'idea di questa fiction mi è venuta da un sogno che ho
fatto, e
ci tenevo a metterla per iscritto perché secondo me come
storia
può funzionare. Ci sto provando ad essere fedele all'Iliade,
alla cultura della Grecia arcaica, al loro modo di pensare e
comportarsi, alle loro idee e alla caratterizzazione dei personaggi
omerici, e quindi a restare In Character. Ci sto provando. Il risultato
è un altro paio di maniche, ma GIURO che ci sto provando.
Ovviamente, alcuni particolari sono un po' diversi da quelli omerici,
ma se non lo fossero, non sarebbe la mia storia ma una fotocopia
dell'Iliade. Per qualsiasi critica, consiglio e qualche eventuale
complimento a caso, ma proprio a caso, scrivete una recensione! Vorrei
tanto sapere cosa ne pensate.
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