I’ll
see you once again, because I promised that I would
Takanori
si svegliò
all’improvviso, scosso dal suono ferroso della vecchia
campana del villaggio.
Un rumore sordo, cupo, arrivò al suo orecchio, e
penetrò fino ai più profondi
recessi della sua anima, facendola vibrare. Sentiva freddo.
Si
alzò in piedi, avvicinandosi a
passi stentati e poco armoniosi all’uscio adombrato della
piccola casa di
campagna. Quella giornata di fine inverno prometteva un tempo sereno,
almeno
non avrebbe piovuto. I campi, già saturi d’acqua,
non avrebbero certamente
resistito ad un’altra tempesta. E’ così
delicata, la natura; i fili d’erba, troppo
fragili, non reggeranno allo
scorrere
incessante del tempo, come l’essenza di ogni uomo si
perderà nell’imperscrutabile,
quanto imprevedibile, universo, quando il corpo si
dissolverà in polvere. Ogni
essere vivente, per quanto forte, è
destinato a scomparire.
Gli
occhi stanchi di Takanori,
arrossati e appesantiti da una notte d’oblio e di lacrime,
seguivano ignari il
percorso delle placide nuvole che venivano trasportate verso est dalla
fredda
scia del vento che, invisibile, le guidava, valicando le alte montagne
alla
spalle del villaggio. Era gelido, ma per il giovane ragazzo era come la
carezza
di una mano amica, nella solitudine di quei luoghi incontaminati.
Il
suo sguardo ora si perdeva
nell’immensità secolare del ceruleo orizzonte.
‘L’esercito
del clan Sanada è in marcia verso
i nostri confini’
‘Non
attaccherà’
Ma
la campagna già odorava di morte.
Fu
investito dalla fioca luce del
nuovo giorno; avvolto nel suo kimono blu troppo leggero,
cominciò a torturarsi
la sue fragili mani, che ben presto iniziarono a sanguinare. Ma il
dolore
carnale che sentiva pulsare e diffondersi attraverso le sue dita non
l’avrebbe
certo distolto dall’oscuro abisso in cui stava lentamente
sprofondando il suo
cuore, e la sua anima tutta.
Si
aggrappò al muro portante; un
groviglio di sentimenti confusi e di pensieri inespressi gli
asserragliava la
gola, impedendogli quasi il respiro. Le unghie, già
lacerate, stridevano al
contatto con la ruvida parete. Gli
artigli in frantumi di una tigre morente.
Si
maledì. Maledì se stesso, i
suoi antenati, la sua beneamata terra natia. Quella terra che, resa
prospera
dalle millenarie faide tra clan, ancora non era sazia del sangue dei
suoi
uomini, dei suoi stessi figli. Il Giappone feudale richiedeva sacrifici
da ogni
famiglia, povera o benestante, incurante
delle conseguenze della già grave carestia che da oltre un
anno dilaniava le coltivazioni.
E ancora risuonavano gli echi rotti dei lamenti delle donne rese vedove
fra le
colline dell’ultima battaglia.
Ma
questa volta il prezzo da
pagare sarebbe stato davvero troppo alto per Takanori.
‘Devo
partire’
‘No,
Ryo, ti prego’
‘Stanno
venendo a prendermi’
‘Ascoltami’
‘Ho
un dovere, Takanori, lo sai bene;
devo
difendere con onore il nostro villaggio’
‘Scapperemo,
ce ne andremo da qui’
‘Ci
troveranno’
‘Che
ne sarà di noi, Ryo?’
Silenzio.
Takanori
fissava il vecchio
armadio vuoto della piccola stanza da letto. Ricordava perfettamente
ogni
forma, ogni linea e decorazione dell’armatura vermiglia di
Ryo, della forte
corazza che gli copriva il petto, della katana da cui non si separava
mai; ‘così sarai al
sicuro’ soleva dire.
Takanori
si rese conto che quel
mobile altro non era che una degna rappresentazione della sua vita.
Dov’era
lui, ora?
Ryo.
Quanta
melodia racchiusa in così
poche lettere, portate lontano dal primo alito di brezza mattutina.
Ryo
era il bambino che viveva
accanto a lui, nella cittadina di Yedo, e che spesso gli rubava i fiori
profumati del giardino, per fargli un dispetto; Ryo era il suo migliore
amico,
colui che era riuscito a strapparlo da quella famiglia indegna e che
con lui si
era rifugiato in quel piccolo villaggio protetto da alture.
Ma
Ryo era anche il suo amante,
l’uomo che lo aveva protetto e che per lungo tempo si era
preso cura di lui.
Perché
Ryo era forte; combatteva
con la sua fedele arma al fianco, prima per difendere le colture, poi
le donne
inermi, e infine il suo villaggio, nelle vesti di samurai. Aveva
ricevuto
l’investitura dal daimyo in persona.
E
ora lottava tra la vita e la
morte per lui, lontano, per la tranquillità di quella
fragile creatura che
giaceva inanimata a terra, nella stanza da letto, privata da ogni
minima
ragione d’essere.
Il
respiro di Takanori si fece
nuovamente affannoso; ricordi di violenze dell’infanzia si
riaffacciavano
puntualmente nella sua mente, precise, inesorabili. Riuscì,
a fatica, a
rialzarsi; da giorni non toccava cibo. Ma forse non era ancora arrivato
per lui
il momento di arrendersi a
quello che,
alla tenue luce della mattina, sembrava un destino ormai scritto nei
cieli. Se
fosse tutto illusione, una mera quanto brutale illusione, non ne era
certo. Ma
il vuoto attorno a se stesso diventava sempre più buio e
tetro.
Così
corse nel luogo che Ryo
preferiva, sotto il grande ciliegio, ora sfiorito, e ivi si
assopì, tra
spaventosi incubi. In mancanza del giovane, Takanori traeva conforto da
quel
luogo silenzioso, al lato del giardino; e se anche la natura in quel
momento
ancora si preparava a sbocciare in tutta la sua bellezza, lo
rasserenò. Sì, Ryo
sarebbe tornato presto.
Il
sole, pallido, era ormai sulla
via discendente e gli uccelli, in segno di rispettosa devozione,
tacquero.
Placide, le acque del fiumiciattolo, continuavano il loro mesto
scorrere: quelle
acque che, attraversando la campagna, portavano la vita; ma a volte,
scendendo
dalle dolci alture alle spalle del villaggio, portavano anche i segni
della
morte.
‘Piccolo
Taka’
‘Non
abbandonarmi ’ disse in lacrime.
‘Ritornerò’
‘Giuralo
su ciò che c’è di più sacro
a questo
mondo!’
‘Lo
giuro; e ti rivedrò, amore mio, io ti
rivedrò ancora,
perché
l’ho promesso’
‘Baciami,
e dimmi che mi ami’
‘Ti
amo, Takanori’
Takanori
non aveva mai visto Ryo piangere.
Davanti
agli occhi di Ryo era
disposto lo schieramento nemico. Riusciva a cogliere, a tratti, il
luccichio
degli occhi di qualche soldato; forse era determinazione, forse era
paura.
L’esercito Sanada era celebre per la scaltrezza e
l’astuzia dei suoi adepti,
come pure era nota la loro vigliaccheria. Da millenni, si dedicavano
alla
sottile arte dell’inganno con particolare dedizione, grazie
alla quale
risultavano frequentemente vincitori, e dominatori assoluti.
Ryo,
spesso, si era chiesto come
fosse possibile che
degli uomini, nati
nella stessa terra, parlanti la medesima lingua e praticanti la stessa
religione, potessero combattere gli uni contro gli altri. La violenza
non
genera che una catena infinita di atrocità, sangue chiama
sangue, e la
bramosità dei daimyo era sempre più
incontrollabile.
Il malevolo ardore dei
potenti, avidi e
ingordi, aveva spezzato ogni equilibrio della Natura, unica
entità in grado di
creare e distruggere; chi erano loro per poter decidere ciò
che era giusto?
Da
troppo tempo si protraeva questa
eterna lotta tra clan; iniziata per futili motivi, ingigantitisi nel
tempo,
aveva mietuto fin troppe vittime. Ryo era deciso a porre fine a tutto
questo.
Si
guardò intorno: i cavalli,
scalpitanti, sembravano agognare l’ora fatidica, quando tutto
sarebbe stato deciso,
quando altre donne avrebbero pianto i loro defunti mariti e figli.
Il
soldato alla sua sinistra
piangeva; singhiozzava così forte che perfino da sotto il
pesante elmo si
potevano sentire i suoi singulti. Legato al polso portava una nastro
rosso, e
tremava. Perché hai paura? Se
morirai in
battaglia, morirai con onore. E’ tuo dovere sacrificare tutto
cio’ che hai per
la patria.
Ryo
lo fissò, e si accorse che
anch’egli stesso tremava; tremava al pensiero del vulnerabile
ragazzo che
amava, e che ora si trovava esposto a qualsiasi pericolo poco lontano,
nascosto
dai dolci altipiani alle sue spalle, tremava al pensiero di non poterlo
più
vedere sorridere, accarezzare quella pelle bianca dal profumo dolce di
mandorla.
Si
sentì improvvisamente cedere
le gambe, già deboli per il lungo cammino; cosa ne sarebbe
stato di Takanori se
lui…fosse morto?
Represse
a stento le lacrime; sii forte. Non
aveva mai temuto la
battaglia, il giudizio finale di ogni guerriero, ma questa volta era
tutto
diverso: non combatteva per l’imperatore, lontano, ma
combatteva per proteggere
la sua casa, la semplice quotidianità della sua vita, e
l’uomo che gliel’aveva
donata.
Ma
di lì a poco l’avrebbe
raggiunto. Avrebbe raggiunto Takanori, si sarebbero seduti sulla
piccola
veranda in legno liscio e avrebbero contemplato il tramonto, e il
conseguente
sorgere delle stelle, e forse si sarebbe addormentato tra le sue
braccia,
stremato. Sì, avrebbe vissuto per la luce gentile del nuovo
giorno.
Strinse
con ferocia la katana che
teneva nella mano destra, stretta in pugno, e serrò
l’elmo. Una scintilla color
del fuoco attraversò i suoi occhi castani. Nessun nemico
sarebbe sopravvissuto.
Veloce
come il vento, implacabile come la punta della lama più
affilata.
Un
urlo roco, selvaggio, ruppe
l’immobile silenzio in cui era caduta la campagna
circostante. L’ultima
battaglia aveva inizio; Takanori aprì gli occhi in direzione
delle montagne.
Nuove lacrime riaffiorarono sul suo viso. Lacrime di terrore.
Ryo
non avrebbe saputo enumerare
tutti gli uomini che aveva ucciso nella sua lunga vita come guerriero.
Per
dovere e per obbligo, non certo per sua propria volontà. La
sua anima era
limpida; un velo leggero la separava da quel profondo abisso nero
chiamato
peccato. Ma quel velo ero macchiato irrimediabilmente del sangue di
decine di
altri armigeri, come lui.
Un
brivido freddo gli percorse la
schiena quando, in una folle corsa, si abbattè sul primo
nemico: un affondo, e
questi cadde a terra, ai suoi piedi.
Il
rumore sordo di lame che si
incontravano in un’accozzaglia polverosa echeggiava sino al
suo villaggio, dove
le madri portavano i figlioletti in casa, al riparo di quel incubo
chiamato guerra.
‘Sì,
papà tornerà presto’
Ryo
affrontava ormai un guerriero
dopo l’altro: il sangue formava sul terreno molte, troppo
pozze vermiglie
dall’odore acre, come lo era quello del mucchio di cadaveri
che ora ricopriva
il manto erboso. Quella visione ancora lo torturava nonostante la lunga
esperienza, trasformandosi in completa rassegnazione al suo destino.
Avrebbe
sopportato anche questo, l’ennesima prova a cui il destino
aveva deciso di
sottoporlo per dimostrare se Ryo fosse realmente degno del peso che
portava.
Un
altro soldato gli si parò
davanti: tentò di sbilanciare Ryo, ma non resse
l’urto con la sua spada, ed
egli stesso finì a terra. Ryo con un movimento agile gli
slacciò l’elmo nero e
sporco, ferendogli la gola. Lo sguardo totalmente perso e terrorizzato
dell’uomo sotto di lui, inerme e spogliato anche
dell’ultimo velo d’orgoglio,
provocò nel giovane un intenso senso di disgusto per se
stesso da causargli
amari conati di vomito. Cos’era
infondo questa guerra se non un susseguirsi di orrori senza fine, senza
senso,
senza onore? Ma non esitò, vinse il ribrezzo che lo
dominava. Non esitò per
Takanori.
La
battaglia continuava, e
infuriava negli animi dei sopravvissuti. Ryo sentiva crescere dentro di
se un
sempre più profondo rancore per se stesso che attanagliava e
imprigionava le
sue cellule come una malattia, che col tempo logora il corpo fino
all’ultimo
brandello di tessuto, non lasciando nulla.
Non
è il momento per simili debolezze. Combatti, e sarai
finalmente un uomo libero.
Uccise
un uomo, ferì mortalmente
un altro: quanto sarebbe durato ancora? Questo tormento fatto di suoni,
odori e
sensazioni rivoltanti; per qualunque uomo che vi avesse ceduto sarebbe
stata la
fine.
Il
caldo soffocante lo opprimeva;
madido, la corazza che ricopriva i suoi possenti arti temprati da anni
di
fatiche sembrava aver creato un legame insolvibile con essi. Ryo non
era più un
uomo; era un insieme caotico di ferro, lacci e cuoio a cui i nemici
prestavano
ora particolare attenzione. Una minaccia, uno dei loro tanti dei sceso
sul
campo di battaglia. La maschera dorata che gli nascondeva il volta
ruggiva per
lui.
Ma
il sudore che gli imperlava la
fronte gli ricordava quanto fosse vivo.
Fronteggiò
l’ultimo soldato; i
compagni dello sventurato erano caduti senza eccezione alcuna, altri
erano
fuggiti fra i boschi. Presto lo disarmò, senza
difficoltà; l’ennesima vittima
assoggettata al volere di Ryo.
‘Inginocchiati’
L’uomo
obbedì, senza paura.
Sapeva bene ciò che lo attendeva, e abbassò il
capo, in segno di resa. Ryo si
preparò a calare su di esso la sua fedele spada, ma poi
esitò, lasciandola
cadere di fronte all’uomo.
‘Ti
risparmierò. Farai seppuku, e
potrai sfuggire ad una morte così disonorevole per mano
mia’
Le
voce di Ryo era ferma. No, non
sarebbe stato capace di rendersi responsabile di
quell’ultimo, definitivo atto
infamante.
Allevia
questo mi dolore.
Ryo
si voltò, in direzione delle
montagne, e immaginò la quiete in cui era immersa la sua
casa, poteva
respirarne l’odore. Cercò con lo sguardo il suo
cavallo, il quale però giaceva
a terra morto poco distante.
Avrebbe
dovuto far attendere
ancor di più Takanori; già da qualche giorno non
riceveva notizie di lui, ai
messaggeri era stato vietato di inoltrarsi nelle colline circostanti,
considerate troppo pericolose.
Non
importa, tornerò.
Ma
un suono secco interruppe i
suoi pensieri. All’improvviso, un dolore forte, insostenibile
all’altezza della
spalla sinistra. Un rivolo di sangue fuoriuscì dalla sua
bocca.
Ryo
iniziò a respirare a fatica;
i suoi movimenti si fecero incredibilmente più difficili e
pesanti. Il braccio
sinistro, paralizzato, si muoveva inerte ad ogni gesto ormai privo di
volontà
di Ryo, i cui occhi cercavano affannosamente una spiegazione a
ciò che stava
accadendo. Il tempo sembrava essersi fermato: non un fruscio, non un
ronzio
arrivava al suo orecchio. Il mondo intero e la natura trattenevano il
fiato per
lui.
Si
girò verso l’uomo che aveva
lasciato alle sue intime preghiere qualche minuto prima: era
lì, retto in
piedi, vivo, e imbracciava un
pesante
arco di legno chiaro. Era stato lui a scoccare la freccia che aveva
ferito Ryo,
perforandogli il sottile strato di tessuto che gli ricopriva la pelle.
La
maschera scivolò, scoprendogli il viso plumbeo.
‘V-vigliacco!’
esclamò Ryo,
cadendo sulle propria ginocchia, non riuscendo più a reggere
un tale dolore
‘non hai onore..e non avrai mai pace!’
Con
un ultimo slanciò,
raccogliendo le sue residue energie, afferrò la spada
rimasta inutilizzata dal
suo nemico e con un movimento fulmineo, e prima che l’uomo si
rendesse conto
della sua rapidità sorprendente Ryo gli trapassò
il ventre con l’arma, sotto il
cuore. Maledetti saranno i tuoi figli, e
i figli dei loro figli, fino al momento in cui la tua stirpe
scomparirà dalla
faccia della terra.
Stremato,
Ryo si lasciò cadere
pesantemente al suolo, trascinato dalla sua stessa armatura.
Assaporò il gusto
sgradevole della polvere, che si mischiava alle copiose gocce del suo
sangue.
‘Takanori…
non riesco più a
sentire la tua voce’ Solo il vento colse quelle parole a
stento sussurrate.
‘Sono
qui’
Takanori
si inginocchiò di fianco
a Ryo, ma quando questi, tremando, allungò la mano verso di
lui, non riuscì a
toccarlo. Un battito di ciglia, e quella fugace visione scomparve.
E’
solo un brutto sogno, vero? Redimimi, salvami da questo inferno.
Le
immagini ai suoi occhi
divennero vacue, e sfocate: i morti si rialzavano in un turbinio di
movimenti
indistinti, accanendosi contro il corpo quasi immobile di Ryo; lo sovrastavano,
soffocandolo, e gli fu negata anche l’ultima
possibilità di vedere lo scintillio di quella solitaria luna
che saliva ora nel
cielo.
Prima di
perdersi completamente, rivide gli occhi tristi di
Takanori. Addio, amore mio. Non
dimenticarmi.
Paradossalmente
l’unico
testimone della morte del guerriero
dalla maschera dorata morì con lui, e nessuno
saprà mai il suo nome, ne la sua
storia, come nessuno potrà mai raccontare come Ryo rivolse
il suo ultimo
sguardo verso la sua casa, piangendo, invocando il nome del suo amato,
esalando
l’ultimo respiro.
Takanori
venne svegliato dal
freddo pungente della sera. Si guardò intorno: gli ultimi
bagliori lasciavano
ora spazio al chiarore delle stelle. Si trovava ancora sotto il
ciliegio: la
terra umida si era ormai trasformata
in
fanghiglia, macchiandogli il kimono. Quel giorno Ryo non sarebbe
tornato.
Si
alzò, voleva tornare al tepore
della sua casa; ma quando si mosse un profondo dolore avvolse in una
glaciale
morsa la sua spalla sinistra. Si toccò con la mano destra
ciò che credeva
essere una ferita, però non sanguinava. Si
avvicinò lentamente al
fiumiciattolo, cercando refrigerio nell’acqua delle montagne,
ma quando si
chinò, vide che essa era di uno strano e insolito colore.
Era scarlatta.
Sconcertato,
si rifiutò di
cercare una risposta; ma, alzando gli occhi, nel buio della notte vide
un luccichio
sulla sponda opposta. Una maschera d’oro.
Un
grido di terrore gli morì in
gola quando capì che Ryo non sarebbe tornato mai
più.
Well
then.
Ci
ho messo mesi. Tra scuola,
impegni, patente eccetera sono riuscita a completarla solo ieri sera.
Di
fan fiction ne ho scritte tante,
forse troppe, soprattutto in quanto ho iniziato a impegnarmi seriamente
solo
quest’anno . Alcune le ho scritte di getto, altre pensate,
metà sgrammaticate,
come forse un po’ tutti.
Ma
questa, non so. Non dico di
essere fiera di me stessa, non lo sarò mai, ma, credetemi,
anche se non vi è
piaciuta o ci sono errori, o non è abbastanza lunga, qui
dentro c’è il mio
cuore.
Bhe,
i protagonisti li
conosciamo, no? Takanori e Ryo, Ruki e Reita. Non credo ci sia molto da
dire…
lasciatemi nella mia valle di lacrime.
Vi
consiglio, per capire meglio,
una colonna sonore: Returner – Gackt
Il
titolo della mia fan fiction l’ho
preso proprio da quella canzone.
Il
video è splendido, lo
consiglio caldamente. Amate quell’uomo ♥
Detto
questo…mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi
và. Arigatou Gozaimasu.
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