Nota: so che le istruzioni italiane
riportano “Wanda” come nome del protagonista e che
è stata la
traslitterazione ufficiosa del nome per anni, ma le mie, americane,
danno “Wander”, che mi fa più cavaliere
e meno pesce e
soprattutto riprende meglio il riferimento voluto da Ueda…
Ho dovuto digerire il finale per un
settimana prima di accettarlo; per più di un anno prima di
scriverne. Dopo che il volo del falco ci allontana
dall’Ancient
Land, che ne è della risorta Mono e del neonato che
può essere o
non essere Wander? Il gioco tace come suo solito e fa bene, ma anche
il fandom anglo-italo-crucco non collabora e quello non fa bene per
niente. Inizio a metterci una prima pezza…
Nella terra sigillata
Anu orta veniya, serere
krythe
praiar sol torrere
solum.
Anu pluvia ire, serere
krythe
praiar nebula torrere
laimos.
(Anu Orta Veniya, Panzer
Dragoon Orta OST)
Al mio Wander, indefesso
cacciatore di lucertole RGB
Ad un anno iniziò a ricordare.
Dapprima semplici immagini che la sua mente infantile potesse
comprendere: sognava grandi montagne vive, camminava su sentieri
nell’aria, sentiva attorno a sé una pelliccia
ruvida che sapeva di
terra.
A due anni si formò in lui
l’incrollabile consapevolezza che la sua mamma, la figura
abbagliante ed eterea che si prendeva cura di lui, fosse la persona
più importante e preziosa del mondo – il fatto che
fosse anche
l’unica non c’entrava.
Era certo che la sua presenza non fosse
scontata, che da un momento all’altro se ne sarebbe potuta
andare
lasciandolo solo al mondo e lui l’avrebbe cercata ovunque
senza
trovarla mai più. Quando questo terrore lo prendeva faceva
del suo
meglio per ricacciare indietro le lacrime: era un bambino silenzioso
e tranquillo, che aveva esaurito tutta la sua irruenza troppo tempo
prima. Ma la dea che gli stava accanto si accorgeva sempre della sua
tristezza e lo prendeva in braccio, cullandolo teneramente. Lui si
abbandonava a quegli abbracci e ne assaporava ogni istante di gioia
intensissima, sapendo, da qualche parte in fondo alla sua coscienza
ancora confusa, che un tempo aveva lottato perché qualcosa
di simile
potesse accadere di nuovo, lottato e perso. Ma se aveva perso, come
potevano entrambi trovarsi lì…?
A quattro anni pronunciò la sua prima
parola: “Mono.” Lei non gli parlava quasi mai,
incerta sul cosa
dire, come dirlo, forse anche timorosa di infrangere il maestoso
silenzio di una terra che seppur morta manteneva intatto il suo
orgoglio. “Mono”, disse, dopo averla fissata a
lungo perso in
ricordi più grandi di lui che diventavano più
chiari con ogni
giorno che passava. “Mono.”
Lei si voltò, incredula e commossa,
trovando conferma di ciò che in cuor suo aveva sempre
sperato. Si
chinò per poterlo guardare negli occhi da pari e,
finalmente, seppe
come chiamare quello strano bambino con le corna che era nato insieme
al suo risveglio: “Tu… sei Wander.”
Quattro anni prima, mentre giaceva
immobile sull’altare del tempio, un demone aveva sussurrato
al suo
orecchio che il suo amato aveva stretto un patto proibito per
riportarla al mondo, che una vita richiede una vita in cambio, che
presto entrambi sarebbero stati liberi. “No!”,
avrebbe voluto
gridare, “Non farlo! Torna indietro, vivi!”, ma era
morta, e la
sua voce di spettro troppo tenue perché lui potesse sentirla.
Non seppe mai cosa fosse andato storto
nel piano del demone, ma quando ebbe riaperto gli occhi non
trovò né
lui né l’amato, solo il fido Agro, azzoppato e
sofferente, e un
neonato supino al centro di una fonte prosciugata. Mono non era una
sacerdotessa né un’incantatrice, ma era chiaro che
quel bambino
fosse frutto di un intervento divino (o umano? Le era sembrato di
sentire degli zoccoli in lontananza, ma poteva essere stato un
sogno…
che uomo, in fondo, tranne un morto o un folle, si avventura fino
alla fine del mondo?).
Che frutto, però? Era un dono per lei,
il figlio che non avrebbero mai avuto? O era il suo amore, tornato a
nuova vita per scontare la sua colpa? O forse ancora, in un atto di
generosità, per permettergli di sfuggire a quella stessa
colpa la
divinità gli aveva restituito l’innocenza
lasciandolo nel suo
stato più originario e puro, con le corna a unico monito di
quello
che aveva compiuto? Non poteva saperlo. Crebbe il bambino con
affetto, divise con lui il poco cibo e il primo rifugio precario
all’interno del Tempio. Ma i dubbi sulla sua origine le
impedivano
di instaurare un rapporto più profondo: non aveva neppure
osato
imporgli un nome, “piccolo mio” lo chiamava, o
“tesoro”, né
tanto meno gli aveva confidato il suo, e le poche parole che gli
rivolgeva sembravano perdersi nell’orizzonte infinito prima
ancora
di raggiungerlo, così dopo qualche tempo aveva smesso del
tutto,
limitandosi a cantare quando lavorava e il piccolo le era vicino.
Altri l’avrebbero definita una cattiva madre, ma se
‘altri’,
dopo lunghi mesi di viaggio e una scalata impossibile, avessero visto
un filo di fumo solitario levarsi dal loro riparo e fossero riusciti
a raggiungerlo li avrebbero visti serenamente intenti nelle loro
faccende serali, schiena contro schiena, e si sarebbero accorti che a
loro andava bene così.
“Mono”, disse dunque, dopo quattro
anni di silenzio, e la ragazza si chinò e lo
abbracciò, senza
aggiungere altro – né parole né lacrime
– a quel primo
riconoscimento sussurrato.
In un altro tempo erano stati compagni
di vita, e il loro legame si era dimostrato più forte della
morte.
Poi, come madre e figlio, erano stati uniti nel silenzio di un
rispettoso affetto. Superato anche quello, restava solo
l’amore.
Non questo o quell’altro amore, non sentimenti creati da e
per
persone comuni che vivevano vite comuni. Si erano gettati tutto alle
spalle: restavano Wander e Mono, al confine del mondo, in una terra
sigillata.
A otto anni, però, iniziò a sentire
pesante su di sé un senso di sconfitta. Era cresciuto forte
e
robusto come non era mai stato nella sua prima infanzia, un altro
ricordo del tabù infranto: era stato Dormin ad avergli dato
forza, e
Dormin ancora risiedeva in lui, sopito, sigillato… il
bambino,
comunque, metteva a buon frutto le sue capacità, qualunque
fosse la
loro origine, e si gettava anima e corpo in tutto quello che era
necessario fare per poter vivere.
Non di rado capitava che finisse le
faccende che gli competevano, e qualcuna in più, ben prima
del calar
del sole, e in quei giorni si accoccolava in un angolo, sul prato,
sopra un muretto, e osservava Mono. Restava immobile e zitto come una
delle grosse lucertole che amava cacciare, arrivando perfino a
trattenere il respiro finché ci riusciva, e a lei ricordava
i
momenti in cui, quando era più piccolo, abbracciandolo
sembrava
scacciare ogni sua tristezza. E non a torto, perché i
pensieri del
piccolo Wander, anche se più coscienti, erano del tutto
simili:
gioia e pace nel vedere compiuto ciò per cui si è
dato tutto,
felice di aver pagato un prezzo anche troppo alto.
La pace, però, non era completa.
Mentre la ammirava, splendida nella luce intensa del pomeriggio,
guardandola tessere o preparare la poca carne che avevano per
essiccarla, Wander non poteva fare a meno di pensare: non era quello
l’epilogo in cui aveva sperato, quando aveva rubato la spada
sacra
del suo villaggio e si era messo in viaggio verso l’origine
delle
leggende.
Non per sé, lui era stato disposto a
morire, che fosse contro un Colosso o contro i guerrieri che
gliel’avevano portata via, non importava. Era per lei che
aveva
immaginato sempre una nuova vita, una vita lunga e ricca come quella
che le era stata strappata da una profezia ingiusta. Non certo
un’esistenza da eremita come quella cui l’aveva
involontariamente
obbligata. Mono meritava di meglio, meritava il mondo in ginocchio al
suo cospetto, pronto ad esaudire ogni suo desiderio… ma
Wander si
sarebbe accontentato di accompagnarla per mano fino alle porte di un
villaggio e darle un ultimo rispettoso abbraccio sullo spiazzo erboso
fuori dalle mura. Da allora in avanti si sarebbe limitato ad
osservarla dai margini di un bosco, pago della sua serenità
quando
fosse scesa al fiume assieme alle donne che considerava amiche o si
fosse attardata a raccogliere fiori in un prato candido come le vesti
che amava portare. Quello gli sarebbe bastato.
In verità nelle sue prime fantasie,
quando in sella ad Agro avevano attraversato decine di villaggi
l’uno
uguale all’altro, al ritorno tutti e tre vi entravano
trionfali e
iniziavano una nuova vita insieme, e lui e la sua amata infine si
sarebbero promessi. Agro però era morto, e nessuna guardia
avrebbe
lasciato entrare un bambino con le corna. Nessun lieto fine. Ma
almeno…
L’idea gli venne in un giorno della
stagione fredda in cui stava trasportando dell’argilla dal
fiume
alla loro casa. Il materiale era appoggiato su di un rudimentale
carretto, e Wander lo trainava con una certa lena, bagnandone di
tanto in tanto il contenuto. Wander seguiva con lo sguardo i falchi,
immaginando di aggrapparsi a uno di loro e farsi portare lontano, e
proprio quello che stava seguendo prese una corrente ascensionale nei
pressi del fiume e planò verso ovest, le pianure e la costa.
La
costa che scendeva a picco su un mare rabbioso (ricordò il
sibilo
del vento, la vertigine, un urlo mai più ripetuto. Poi
più nulla),
scogli invalicabili, tranne che, forse…
Quando, un tempo, la luce della sua
spada aveva indicato l’occidente più lontano, una
deviazione
sbagliata l’aveva portato in vista di una piccola spiaggia,
ed era
certo di poter ritrovare la strada. Doveva fare in fretta, prima che
per lei diventasse troppo gravoso. Smise di guardare i falchi e si
concentrò sulla nuova impresa.
Io ti salverò, si disse.
Quella sera, sorseggiando un brodo
bollente, Mono si sentì osservata con maggiore
intensità del
solito. Rivolse un’occhiata interessata al bambino e, con un
cenno
della testa, gli chiese se e cosa lo preoccupasse.
“Mono…”, iniziò lui, ma non
terminò la frase, e si limitò a risponderle con
un sorriso triste.
Lei ricambiò il sorriso e non indagò oltre,
rispettando qualunque
turbamento l’altro stesse provando. Prima o poi si sarebbe
deciso a
parlargliene, quando il momento fosse stato adatto. Era sempre stato
tipico di Wander, nei ventidue anni in cui l’aveva
conosciuto, e
non l’avrebbe certo cambiato con una domanda in
più. Scrollò le
spalle, gli strinse forte la mano per dirgli che gli sarebbe sempre
stata accanto e tornò al suo brodo.
Nei mesi successivi, quando usciva a
fare legna, aveva cura di cercare sempre almeno un tronco dritto e
lasciarlo, prima di tornare a casa, in un anfratto vicino al Tempio.
Quando i lavori non lo portavano
lontano da Mono, invece, osservava con attenzione ogni movimento
delle sue mani per imparare d intrecciare corde robuste.
Se serviva argilla ne teneva da parte
un po’ e, di notte, creava vasi rozzi e asimmetrici che
riempiva
dell’acqua di fiume e portava nel suo posto segreto, assieme
alla
legna.
Nelle rare volte in cui era Mono ad
allontanarsi, prendeva dei pezzi di carne e frutta essiccata dalla
loro riserva e correva a metterli in uno dei suoi vasi, il primo, che
aveva adibito a quello scopo. In quelle sere mangiava meno,
così che
il suo furto non ricadesse su entrambi. Si chiedeva sempre se lei
notasse quelle piccole sparizioni, e probabilmente era così,
ma non
gli disse mai nulla, e anzi sembrava sempre rivolgergli un sorriso
più radioso del solito.
Quando aveva tempo per sdraiarsi sul
prato e lasciar correre l’immaginazione, invece, pensava al
giorno
sempre più vicino in cui le avrebbe mostrato
l’esito delle sue
fatiche e sarebbero salpati insieme, sulla piccola zattera che stava
costruendo, dirigendosi a nord, verso il mondo. Ogni tanto
fantasticava su cosa avrebbero incontrato se fossero andati a sud,
oltre la fine… gli sarebbe piaciuto, ma non viaggiava solo,
e lo
scopo era un altro. Poi si soffermava a guardare le nuvole,
soddisfatto di aver così giocato il destino per la seconda
volta, e
senza infrangere legge alcuna, umana o divina che fosse. Non doveva
temere vendette né pericoli, tranne quelli che, da sempre,
il mare
riserva ai viaggiatori.
Quando ritenne che tutto fosse pronto
la stagione era ormai calda, e con un certo timore annunciò
a Mono
che si sarebbe allontanato per parecchi giorni, accampando la scusa
del cercare nuovi terreni di caccia ad ovest. Non erano mai stati
separati per più di un giorno o due, e sentì una
stretta al cuore
al pensiero di lasciarla sola, senza la sua protezione. Dovette
forzarsi a seguire quello che gli diceva la mente invece del cuore,
perché, pur con tutte le sue ansie, nella loro terra
desolata non
c’erano davvero pericoli che potessero minacciarla, e la sua
protezione non serviva. Si sarebbe dovuto preoccupare solo della
tristezza che l’avrebbe colto nel coricarsi a terra, la
notte,
senza saperla vicina, e niente più. E una simile tristezza
era ben
poco prezzo per vedere la gioia che si sarebbe dipinta sul suo viso
quando avesse visto la chiave per la loro libertà, pensava.
Così, alle prime luci dell’alba, la
svegliò con una carezza per salutarla e partì.
Gli servirono quattro giorni solo per
trasportare i materiali, poiché la spiaggia distava molte
ore di
cammino, e, per quanto la sua mente fosse adulta e la sua forza
straordinaria, esse risiedevano pur sempre in un corpo che non aveva
passato i dieci anni. Almeno altrettanti ne impiegò per
costruire la
zattera, legando con cura il legno, intagliando un remo, facendo
spazio per tutte le provviste. Poi studiò le correnti, per
quanto
gli fu possibile con i suoi scarsi mezzi e competenze. Infine
varò
la piccola imbarcazione, con un guizzo di gioia pura nel vedersi
galleggiare in mezzo ai flutti. Tirò un sospiro di sollievo
e fece
qualche prova di navigazione vicino alla spiaggia, poi provò
a
remare verso il mare aperto e osservò la costa da una nuova
prospettiva. Alla sua destra le scogliere che conosceva così
bene
assumevano tutt’altro aspetto, mentre a sinistra, dove si
sarebbero
diretti, c’era solo roccia ancor più
impenetrabile, montagne a
strapiombo sul mare, ma in cuor suo era certo che non sarebbero
durate per sempre, e che una volta arrivati a nord
dell’inizio del
Ponte li avrebbe attesi una spiaggia di sabbia bianca e fine, su cui
distendersi e guardare insieme le stelle per un’ultima volta.
Quando fece ritorno dal largo del mare
e delle sue fantasie era quasi sera, e assieme alla soddisfazione per
l’opera compiuta sentì calare su di sé
tutta la stanchezza di
quei giorni che l’entusiasmo aveva sempre tenuto a freno.
Portò in
secca la zattera, lasciandola al riparo di una rupe, e si
addormentò
senza preoccupazioni né sogni.
Sono tornato, annunciò col
rumore dei suoi passi, certo che Mono li avrebbe sentiti. Difatti la
vide uscire e attenderlo sull’uscio, sempre splendida agli
occhi di
Wander, forse ancor più da quando le prime rughe e i capelli
bianchi
avevano iniziato ad incorniciarle il viso.
Nell’abbraccio che seguì le parve di
sentire un’urgenza, un qualche avvenimento importante che il
suo
cavaliere era restio a comunicarle. Non sembrava triste,
però, e
decise semplicemente di aspettare mentre tornavano alla loro intesa
fatta di silenzi, vicinanza e lavoro comune.
“Mono, vieni con me”, disse infine,
poco prima di addormentarsi, con la voce già impastata dal
sonno.
“Ti seguirei fino alla fine del mondo
e oltre”, rispose lei sorpresa. D’istinto aveva
ripreso un loro
vecchio modo di dire che apparteneva a un’altra vita, un
altro
tempo. Anche Wander doveva essersene accorto: lo vedeva sorridere
illuminato dalla luna.
“Alla prima ci siamo già”, disse,
“e il secondo non mi interessa. Ma domani vieni con me, e
porta ciò
che ti è caro.”
“Domani verrò con te”,
acconsentì
prima di cedere al sonno.
Partirono il giorno seguente, come
Wander aveva desiderato. Mono scelse di prendere solo acqua e frutta
per il viaggio: ciò che le era caro la stava guidando per
mano, non
c’era rischio di lasciarlo indietro.
Presto superarono quello che era stato
il limite delle sue esplorazioni. Non si era mai arrischiata ad
allontanarsi troppo con un bambino che dipendeva da lei, e quando lui
era stato abbastanza grande gli aveva lasciato volentieri tutte le
incombenze che richiedessero dei piccoli viaggi, e che lui sembrava
svolgere così volentieri.
Mentre camminavano su prati e colline a
lei sconosciuti, la sua guida indicava, di tanto in tanto, dei punti
più o meno lontani all’orizzonte. Non diceva altro
che poche
secche parole che indicassero con maggior precisione il luogo che
aveva in mente: “Oltre il burrone”, spiegava, o
“Nel lago
prosciugato”. Mono dapprima non capiva, ma
dall’amarezza nella
voce non poteva che riferirsi ai luoghi dove per secoli avevano
vissuto i Colossi di cui era così restio a
parlare… prima che lui
li sterminasse in nome del suo amore. Era giusto che anche lei
sapesse e li onorasse. Provò il desiderio di vederli tutti,
o quello
che ne era rimasto. Uno, l’unico che conosceva, era morto
accanto
al fiume, e in tutta la sua vita non aveva mai trovato parole per
descriverlo.
E un altro ne vide, in una caverna
ricoperta di sabbia. Restò attonita ad osservarne i
giganteschi
resti mentre Wander offriva una preghiera alla sua anima, o a
qualunque cosa fosse l’essenza più intima di un
sigillo vivente.
“Siamo quasi arrivati”, le disse
poi, evitando del tutto l’argomento.
Il ripido sentiero che li attendeva fu
la parte più impegnativa del viaggio, ma Mono quasi non ci
fece
caso, ancora persa nel ricordo dei resti della leggenda che avevano
appena visto. Solo il profumo del mare e lo stridio dei falchi la
riportarono alla realtà, quando ormai la discesa era quasi
finita.
Chiudi gli occhi, ti prego, le
chiese con un gesto della mano. Il sole era quasi calato sul mare
davanti a loro.
Lei obbedì e si fece guidare
docilmente sulla spiaggia, ascoltando il rumore del vento e delle
onde. Non lo sentiva da una vita. Era felice.
Quando sentì le dita di Wander
carezzarle le palpebre seppe di poterli riaprire e si trovò
di
fronte a una piccola zattera, meravigliosa nella sua
semplicità.
Ecco il segreto di quei mesi, e che segreto impegnativo era stato!
“Per te”, disse semplicemente lui,
e con il braccio indicò la costa che saliva dritta verso
nord-ovest.
Per la tua vita. Non fallirò più.
Mono lo abbracciò e lo strinse forte a
sé, cercando di trattenere la commozione. Così si
spiegava non solo
il segreto, ma tutti gli sguardi, le riflessioni, l’ansia che
non
era mai riuscita a comprendere. Se solo le avesse parlato…
Lo
stringeva a sé e scuoteva la testa, e Wander, che dapprima
aveva
interpretato quel gesto come espressione di immensa gioia, si
sentì
rodere da un dubbio.
“Partiamo domani”, disse per
scacciarlo.
No, fece cenno lei con la testa.
“Come? È… è per
te…”, rispose
lui colto da improvvisa tristezza, quasi panico.
Tu hai le corna, indicò. “Non
potremmo stare insieme.” Povero, povero Wander. Tormentarsi
così
per lei… per nulla.
Ma tu no!, lasciò intendere con
lo sguardo. Sei normale, e sei pura. Puoi vivere.
“Io sto vivendo”, rispose a
parole per dare maggior forza alla sua posizione.
Stai vivendo in modo ingiusto, e la
colpa è mia.
“Wander… io non ho più posto nel
mondo che desideri.” Per me, per te, per me come
tuo riflesso.
“Sono morta una volta,” e non
te lo ricorderei se non
volessi essere certa che tu mi capisca. Fino in fondo.
“Non c’è
spazio per i morti nel mondo degli uomini, non più di quanto
ce ne
sia per i bambini con le corna. La loro vita non è la mia
vita, non
lo è più. E non per loro scelta… per
mia scelta.”
Per tua scelta?
“Del tutto mia. Non sono più parte
di quel mondo, il nostro posto è qui. Il tuo gesto
d’amore è
stato immenso e ti ringrazio, ma… no.”
Wander si fermò a riflettere. Quando
si sentì pronto alzò il viso, incrociò
il suo sguardo e le
sorrise.
“Ti seguirei fino alla fine del
mondo.”
Tornarono a casa mano nella mano, al
confine del mondo, in una terra sigillata.
Anu Orta Veniya Serere
Krythe
Praiar Vont Krystallos
Solum
Anu Pluvia Ire Serere
Krythe
Praiar Hals Krystallos
Kore Hoster
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