Dove
ha casa il riposo del viaggiatore
Nelle Terre Selvagge non si poteva cantare né a
cavallo, nel mezzo del giorno, né attorno al fuoco, di sera.
Correre rischi come pattuglie di warg e orchi non valeva il ritmo di
una canzone.
Forse per questo Ori
continuava a scrivere sul proprio taccuino, o almeno così
pensava Bilbo: che il nano scrivesse canzoni o riflessioni
(chissà cosa davvero c'era scritto) per non pronunciarle,
mettendo così in pericolo l'intera compagnia, e pure per non
diventare pazzo, per raccontare i propri pensieri.
Bilbo, in quelle regioni, desiderava tanto sentirsi al
sicuro, a casa; ma il fuoco attorno a cui s'accampavano ricordava solo
vagamente il focolare di Vicolo Cieco Sottocolle.
Prese a picchiettare
le dita sulle ginocchia, nel tentativo di riportare alla mente immagini
di sè e del proprio giardino, impegnato a fumare la pipa e a
scandire il tempo che scorre prima dello spuntino successivo.
Kili, a qualche passo da lui, si accorse del ticchettare
delle dita del loro Scassinatore; fece un rapido conto - forse troppo rapido
- e quindi si lanciò verso lo hobbit, atterrando al suo
fianco.
«Quale
canzone stavi canticchiando, signor Baggins?»
«Nessuna,»
rispose Bilbo. «Nessuna canzone.»
Il che era la
verità, a essere franchi. Ma Fili balzò presto
accanto allo hobbit, così i due fratelli finirono per
stringerlo su entrambi i fianchi - per questo Bilbo si fece piccolo
piccolo. «Avanti, mastro Baggins!» Disse Fili.
«Cosa stavi cantando?»
Lo hobbit, circondato da due fuochi - che non lo avrebbero
lasciato respirare finché quella domanda non avesse avuto
risposta -, si trovò costretto a fare affidamento sulla
propria immaginazione e sulle proprie capacità di
improvvisazione. Stava per prendere un profondo respiro per cominciare
a cantare, quando Thorin si voltò verso di loro, lanciando
occhiate di rimprovero a tutti e tre.
«Le Terre
Selvagge non sono fatte per cantare nella notte.»
Il che sottintendeva
il divieto più assoluto anche di capire se gli hobbit
soffrono il solletico, o di analizzare più da vicino i piedi
di Bilbo - che avevano incuriosito i due nipoti di Thorin.
Fili e Kili
sospirarono, insoddisfatti; anche Bilbo sospirò, ma di
sollievo.
Lo Scassinatore, trascorsi quei terribili cinque minuti in
cui aveva immaginato le melodie più disparate per
accontentare le orecchie curiose dei due nani, si dedicò
alla riflessione che di solito lo accompagnava nel sonno.
Pensò alla canzone che la Compagnia aveva cantato nella sua
casa, prima di partire: allora, a un certo punto, Bilbo aveva perfino
pensato che che il gruppo fosse composto da nani scelti in base allo
strumento che suonavano, più che a una libera decisione -
un'opinione senza fondamenti, ma a parer di Bilbo piuttosto
interessante. Quelle parole pronunciate alla luce di un braciere gli
avevano provocato, col trascorrere dei giorni in viaggio, una profonda
nostalgia della propria casa, mescolata a quella per un posto che lui
non conosceva concretamente: una cima solitaria.
Quella era la magia della canzone dei nani: fargli provare
una struggente nostalgia e un tremendo desiderio della Montagna, di
Erebor, senza che lui vi fosse mai stato.
«Allora, mastro Baggins, facci sentire una canzone
del tuo popolo.»
Accidenti, aveva
sperato che quella richiesta di Fili e Kili fosse stata dimenticata!
Ma quando fece mente
locale, si accorse che la voce che lo aveva chiamato in causa non era
né dell'uno né dell'altro giovane,
bensì del loro zio.
Certo, nella casa di Beorn erano al sicuro da orchi e goblin,
ma lui non aveva alcuna intenzione di cantare davanti alla Compagnia.
Ricordava quel «Lontan
sui monti fumidi e gelati», rime scure quanto la
notte, eppure tanto affascinanti da far sognare e ribollire il suo
sangue Tuc.
Le canzoni hobbit non potevano rivaleggiare con quelle di re
e popoli in esilio, o almeno così aveva spiegato Bilbo ai
nani; tuttavia loro protestarono tanto da strappargli un Forse. Thorin in
persona aveva recuperato la propria arpa, mentre Bofur s'era armato del
proprio clarinetto - quando c'era da suonare, lui non si tirava mai
indietro.
«È ancora presto per una
ballata,» disse Bilbo, «canterò per voi,
ma solo quando sarà sera inoltrata.»
A Bilbo, come a tutti gli hobbit, piaceva la luce del sole,
ed è per questo che i buchi-hobbit si trovano nelle colline,
con tante finestre che si aprono sulla superficie; tuttavia, la notte
era necessaria per cantare con più convinzione, secondo lo
Scassinatore.
«Perché di sera? Perché non
ora?» Domandò Kili.
Bilbo lanciò un'occhiata a Ori, poiché
sapeva che il giovane nano era colui che scriveva le cronache della
Compagnia, quindi il più vicino a poterlo capire.
«Perché la notte e il buio amplificano suoni ed
emozioni. Il cuore di uno scrittore è più ferito
e allo stesso tempo più forte, di notte, che è il
momento migliore per trovare le parole giuste, quelle più
belle, quelle più amate.» Bilbo tacque un solo
attimo. Tutta la Compagnia lo ascoltava con attenzione - sembrava
aleggiare un sacro silenzio, anche se in sottofondo tremolavano alcuni
rumori indistinti. «È nella notte che le persone
si lasciano sopraffare dai sentimenti per accettarli e diventarne
più consapevoli, ma è anche il momento
più pericoloso. Chi rimane sveglio di notte e non scrive,
canta o immagina è solo l'ombra di se stesso.»
Gandalf sorrise, con l'aria di chi la sa lunga, poi
tornò a bearsi del miele e dell'atmosfera quasi magica che
era andata a formarsi. Ori sembrava essere in soggezione, come se si
trovasse davanti a un eroe brillante della sua ultima impresa; anche
gli altri nani erano impressionati, ma ben presto si convinsero che
fosse un bel discorso pronunciato per posticipare il momento in cui
avrebbe dovuto cantare - e, secondo Dwalin, per dissuaderli dal fargli
fare un qualsiasi turno di guardia di notte.
Balin, tuttavia, aveva sorriso - un sorriso simile a quello
di Gandalf - prima di concentrarsi sul proprio piatto pieno di cibi; e
Thorin, là in fondo al tavolo, si portò il
bicchiere alla bocca con l'accenno di un complimento rivolto a Bilbo.
Quello Scassinatore si stava rivelando degno del proprio
soprannome, a suo avviso.
Il momento delle canzoni arrivò.
La notte era scesa da
qualche ora, sfumando nel verde delle foglie e dell'erba, ma nella casa
di Beorn la calata del buio non portava la bellezza dei colori del
bosco, quanto più l'attesa curiosa di un canto capace di
portarli dentro
il verde delle foglie e dell'erba, stando seduti al caldo del focolare.
In fondo è questa la magia delle parole e della
musica, che a parlare fossero hobbit, nani, elfi o uomini.
Frangipane
aveva sangue di fata
e
ali schiuse per un'avventura
allora
prese una borsa e per il bosco
s'immerse
nell'estiva frescura.
"Figlio
mio, dove corri così spedito,
quale
strada allieta il tuo passo?"
"Madre,
il sentiero per il mare,
per
le onde dal tuono lungo e basso."
Tula
rincorse il figliolo con un pensiero,
il
tremito di un incubo nel polso.
Lui,
un piede per terra, lei, una spina nel collo,
Frangipane
corse via, nessun rimorso.
Le
montagne erano azzurre nei suoi occhi,
come
spruzzate d'acque dolci e lievi.
Le
montagne erano blu nelle sue notti,
crebbero
nere come scafi delle navi.
I
prati s'arrugginirono di sale
prima
di vedere l'animato porto.
L'Oceano
mugghiava spuma,
dove
pensò di trovar pace, trovò sconforto.
Si
tuffò nell'acqua, respirò tra le alghe,
amaro
il ricordo dei fiori e dell'erba.
Di
terre che la mente resero nebbia,
perle
e una treccia di capelli ora conserva.
La
madre attese per giorni insonni, diceva
"Fran
muore sulla bocca delle genti!".
Lui
tornò dove per prima vide la luce,
con
un velo opaco sugli occhi stanchi.
"Pazzo!"
ridevano al di qua e di là dai colli,
"Amore
ha rincorso e amore lo perseguita!"
Frangipane
sedeva presso un ruscello;
lì
adagiò, sulle pietre, la propria vita.
Perle
di fiume, capelli, un bacio
dato
a chi, sull'Oceano, fu suo amore;
Perle,
capelli, baci, nell'acqua
scorse,
e della pace il calore.
La
mente chiusa nel vapore s'aprì
alle
mura di fuoco del mondo.
Chi
lui amò era un ricordo,
che
rinvenì su del ruscello nel fondo.
Frangipane
aveva sangue di fata
e
ali schiuse all'orizzonte per volare.
Frangipane
aveva sangue di fata
e
un amore che si empì del mare.
Thorin e Bofur avevano cominciato ad accompagnare il canto di
Bilbo prima della metà della canzone - appena avevano
intuito la melodia -, ma erano note lievi, sommesse, che volevano solo
irrobustire la ballata, senza spingerla né tirarla a
sè.
La canzone piacque ai nani. Non tanto per il testo - montagne
a parte, s'intende -, quanto più per il coinvolgimento
emotivo che da essa era scaturito. Erano lì anche loro,
seduti vicino al ruscello, a ricordare una donna con trecce
meravigliose e labbra rosse come rubini - o come coralli, direbbe
qualcuno tra noi. Anche loro, in quel momento, erano sopraffatti dalla
nostalgia di casa, della loro Montagna, di Erebor e delle sue ricchezze.
Chiesero a Bilbo di cantare di nuovo, e lo hobbit
ricominciò, perché anche a lui uno squarcio s'era
aperto nel cuore e una ballata poteva almeno farlo vivere ancora. Stava
combattendo contro quel senso di smarrimento che investe le persone
nella notte, stava lottando con ogni nota, ogni parola che buttava
fuori dalla propria anima appena incrinata. Il buio per lui era
insopportabile, in quel momento, così come capita a noi,
ogni tanto, quando il mondo sembra lanciarsi sul nostro cuore per
schiacciarlo.
È allora che le persone immaginano, cantano,
scrivono. È un bisogno naturale, è una difesa e
un attacco insieme. E così valeva per il signor Baggins e
per i nani della Compagnia, avvolti in un'atmosfera che dava le
vertigini e faceva mancare l'aria.
Condividere dolori e speranze con chi era vicino, senza
provare imbarazzo, rimorso o disagio, fu forse ciò che fece
scoppiare nel cuore di Bilbo una fiammella d'amore.
Amore indistinto, senza nome, con tutto il creato come
destinatario. Quell'amore primo che afferra e scuote uomini, elfi, nani
e hobbit. Era un amore grande quanto e più del mare,
manifestatosi in una piccola fiamma.
Si addormentarono sui
giacigli di paglia e condivisa nostalgia, sapendo che, una volta svegli
la mattina seguente, tutto quello che avevano vissuto la sera prima
sarebbe stato già chiuso e conservato avidamente in un
cassetto dell'anima di ognuno.
Sotto la paglia, in un angolo, c'erano macchie di acqua
assorbita dal legno del pavimento.
Città del Lago festeggiava sotto le nuvole della
notte.
L'aria era umida, fredda, come un vecchio panno usato per
asciugare il sudore. Il viscidume che vorticava nel buio giaceva sulla
pelle e la insudiciava di fastidio.
Bilbo era messo in
allerta da quella massa d'acqua scura, come se il lago stesso potesse
chiamarlo, irretirlo, portarlo a dormire sul proprio fondo.
Aveva paura di fare la fine di Frangipane.
Non stava ascoltando i rumori e canti della festa,
perché stonavano terribilmente nella sua contemplazione del
lago. Per me e per voi quell'acqua era come la dimora delle sirene,
come se appena sotto la superficie potessimo immaginare le loro code di
scaglie.
Bilbo canticchiò ancora quella ballata, a
ricordare gli errori del proagonista per non commetterli lui stesso.
Nella canzone, Frangipane moriva per amore e per follia, nata dall'aver
compreso l'immensità - fisica e astratta - del mare; il
signor Baggins era atterrito dalla Montagna, dal drago, da quell'amore
scoperto nella casa di Beorn, amore per il mondo, le avventure, la
vita, amore che desiderava fosse più mirato per essere
più sopportabile.
Quel pensiero - amore, per cinquant'anni ricordava
perlopiù quello per la sua casa! - era stato messo da parte,
prima di giungere a Città del Lago, perché Bilbo
si concentrasse sulla sopravvivenza di sé e della Compagnia.
Ma, in quel momento, lo hobbit non doveva salvare nessuno, ed ecco che
quello s'era ripresentato, più forte di prima. O forse
proprio perché gli era mancato per un po' a Bilbo sembrava
più intenso che in precedenza.
Si sedette a gambe incrociate con un sospiro.
Sbuffò un poco dopo aver scrollato le spalle e sfregato le
mani una contro l'altra. Smaug era ancora il tiranno della Montagna, e
questo lo inquietava parecchio.
Non poté negare, qualche minuto dopo, di aver
udito lo scalpiccio di passi di nano - ormai erano inconfondibili, per
lui, dopo tutto quel marciare attraverso pianure e boschi -, ma non si
voltò, né diede segno di aver notato qualcosa.
Stare da soli serve per mettere (o almeno provarci) in ordine i
pensieri, per riprendere consapevolezza di sé, e soprattutto
per riposare le orecchie.
Aveva una blanda voglia di fumare la pipa. Ma Gandalf non
c'era, e la sua assenza non spegneva quel piccolo desiderio che aveva
sulla punta della lingua.
«Tutto bene, Bilbo?»
Lo hobbit aveva preso posto vicino a Balin, dopo essere
rientrato da quella passeggiata all'aperto. «Sì,
Balin, tutto bene,» rispose, sistemandosi al tavolo. C'erano
ancora botti di vino nel salone, ma i bicchieri erano stati riempiti
diverse volte - ed erano ormai tutti vuoti. Molti dei nani avevano
tirato fuori i loro strumenti musicali, e le note sembravano andare ad
accogliere il sonno che entrava dalle finestre.
Bilbo stava effettivamente bene: nel corso della serata non
aveva bevuto abbastanza da dondolare mentre camminava - al contrario,
Ori doveva essersi scolato talmente tanti boccali da essersi assopito
accanto a Dori. Tuttavia, si sentiva addosso una profonda malinconia,
sempre se di malinconia poteva parlare; forse, più come una
sorta di dolce amarezza della sera lo aveva colto quando era rientrato
nella sala.
Bevuto un bicchiere di vino, alzò lo sguardo
davanti a sé. Vide prima Dwalin, poi Thorin. Il ricordo
dell'arpa con cui aveva accompagnato il canto della Compagnia quella
notte a Vicolo Cieco gli intiepidì le labbra, che si
sciolsero in un sorriso lieve.
Thorin gli sorrise in risposta, come un vecchio complice.
Fu solo un pensiero nella testa di Bilbo; tuttavia, per un
attimo credette che Thorin, con una corona di gigli sui capelli,
avrebbe potuto illuminare anche le sale di Erebor più grandi
che Bilbo potesse immaginare.
Bilbo ebbe spesso dolori terribili per il rimpianto. Fatica a
respirare, a non piangere, a vivere - la notte, com'era lunga, com'era
straziante!
Non aveva mai detto a
Thorin quello che pensava. Non gli aveva mai detto che con una corona
di gigli sarebbe stato un re magnifico, per un hobbit.
Quando non c'era modo di dormire, Bilbo si metteva a
scrivere. Non era un metodo per soffrire meno, ma almeno la notte
trascorreva più in fretta.
Una volta si mise a
scrivere una canzone, per colpa di alcuni piccoli hobbit che
gironzolavano presso Vicolo Cieco Sottocolle. Quei marmocchi gli
avevano chiesto perché era da solo, poi avevano voluto
sapere di qualche avventura che gli era capitata; poi, un giorno, una
bimba con una primula tra i capelli gli chiese se aveva mai avuto una
moglie, in uno dei suoi mirabolanti
viaggi - tutte le
grandi storie meritano un'infiorettatura, gli aveva detto
una volta Gandalf.
«No,
io--» rispose allora Bilbo «--ero innamorato, ma
non ricambiato.»
Credo.
Il rimpianto quasi gli
fece scendere una lacrima sul viso, ma si controllò.
«Oh.»
La bimba era seriamente dispiaciuta, e Bilbo si augurò che
la sua sensibilità non svanisse con il diventare una hobbit
adulta. «Come si chiamava?»
Il signor Baggins ci
pensò un po': non poteva certo raccontarle tutta la
verità. Poi le sorrise. «Torna domani. Ti
racconterò com'era, ma ora è tardi. A casa, ora,
su!» E, dandole una leggera pacca sulla spalla, convinse la
piccola a rientrare a casa, dalla sua mamma.
Bilbo sapeva di poter avere pronto un racconto - o, come gli
capitò quella volta, una canzone - sul proprio amore per il
giorno seguente: la curiosità della bambina aveva aguzzato
la sua ispirazione, indirizzando la sua profonda tristezza verso un
obiettivo preciso.
Cinque giorni dopo la bimba si ripresentò presso
la casa del vecchio Scassinatore - Bilbo suppose che la madre della
piccola, prima di lasciarla avvicinare di nuovo alla casa di quello
strano Baggins, le avesse sciorinato un buon numero di precauzioni, e
forse anche per quel timore che hanno i genitori la bambina con la
primula tra i capelli arrivò con due amiche e i due
fratellini più grandi.
«Allora,
pronti per una storia?»
I marmocchi annuirono,
con gli occhietti che brillavano di curiosità.
Dunque Bilbo cominciò a cantare di un amore dai
capelli scuri, labbra come rose canine - quelle rose che il signor
Baggins andava a cercare nei boschi, quando era giovane -, occhi come
il cielo senza nuvole appena dopo il tramonto del sole, e
raccontò di quanto egli stesso amasse il luogo dove il suo
amore riposava, di come invidiasse il buio che circondava il suo viso
nella tomba della Montagna, e di come fosse bello, il suo amore, con
fiori tra i capelli.
I piccoli hobbit erano incantati dalle immagini che le parole
avevano suscitato in loro: reclamarono più volte il bis. Ma
Bilbo si sentiva sempre più vulnerabile, e per questo,
quando la canzone volse al termine un'ultima volta, si alzò
dalla panchina e fece loro segno di tornare a casa, mentre le parole
potevano ancora accompagnarli. I bimbi, un po' insoddisfatti, corsero
via lungo il sentiero, dimenticando il disappunto quando decisero di
fara una gara a chi arrivava per primo a casa.
Bilbo terminò la canzone guardando i piccoli
hobbit; infine, salì in casa, chiuse la porta a chiave. I
ricordi gli pizzicavano gli occhi. Non aveva voglia di piangere, quanto
più di accettare la morte di persone a cui voleva bene, con
cui aveva condiviso una grande avventura.
Scosse la testa. Sospirò. Alzando lo sguardo, vide
sulla credenza il vaso dove quella stessa mattina aveva messo dei gigli
ancora profumatissimi.
Nero
è il colore dei capelli del mio vero amore;
che
io possa soffrire in vita e rivederlo poi,
là
dove ha casa il riposo del viaggiatore.
Note Varie:
I gigli sono simbolo
di regalità, le primule dell'infanzia.
Note
Autrice:
Per la
serie: a volte ritornano (anche se c'è chi spera che non
tornino affatto)!
Non ho molto da dire.
La ballata che canta Bilbo, povero caro, l'ho scritta di mio pugno. Per
cui, amen, tenete conto che è stata pensata come una ballata
che viene tramandata dai tempi andati, per cui potete imputarla a un
povero scrittore incapace e squattrinato (il che mi sa di
autobiografico) che visse anni prima del tempo di questa storia. xD
Per quanto riguarda la
questione delle «ali di fata», invece, devo
spendere qualche parola. Ho fatto alcune ricerche: c'è un
accenno agli spiritelli nello Hobbit, quando si parla di una faerie che
sposò un Tuc. Per cui, insomma, dal momento che ho trovato
soltanto poche notizie, spero riusciate a considerarla una sorta di
licenza poetica. La ballata mi piace così com'è -
nel senso, arrosisco al pensiero di averla pubblicata, ma se fossimo
tra amici, vi direi senza problemi che questa canzone è uno
dei testi che ho scritto di cui vado più fiera -,
perciò nonostante ci fosse un errore, ecco, non la
cambierei. Mi spiace se si tratta di una castronata, ma mi ci sono
troppo affezionata. Se volete, comunque, sono pronta a discutere di
Tolkien e faeries in privato. C: Gli ultimi tre versi sono sempre opera
mia, sì. Avete due scuse per menarmi virtualmente. xD [Mi sono sempre dimenticata di dire che con questa ballata, intitolata
(A)mare, ho partecipato al contest Frammenti di noi indetto da Parsifal
su EFP e mi sono piazzata decima. Un risultato non brillante, ma dal
momento che non mi aspettavo neanche di essere considerata, una batosta
così non fa male. Trovate il link al contest in quella che
viene chiamata bio, almeno credo.]
Sì,
c'è un pochino (poco poco) di Thorin/Bilbo. Ma dal momento
che io di cose romantiche non so scriverne, in pratica è
davvero un accenno a un qualcosa che ritengo molto più
profondo e radicato.
La seconda parte
è una sorta di epilogo, ecco. L'ho scritta solo per
deprimermi (?) un po', e perché la canzone «Black
is the color» dei Gaelic Storm mi ha ipnotizzato e ordinato
di scriverla.
Mea culpa.
Ecco, insomma, spero
che vi sia piaciuta. C:
E se avete qualcosa da farmi notare, non esitate a parlarne! Vi
ringrazio.
claws_Jo
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