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Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Questa fanfiction si basa vagamente sul film X-Men 2, ma ho cambiato
qualcosa qui e là dove mi faceva più comodo. La storia si
incentra su John Allerdyce (a.k.a Pyro) e sulla sua relazione con un
personaggio originale, Meredith St.Clair. Spero che possiate
apprezzarla.
Ho scelto il rating arancione perché ci sono parecchie parolacce
(probabilmente giallo sarebbe bastato, ma meglio non rischiare). Niente
di straordinariamente volgare, ma tanto perché lo sappiate e vi
possiate regolare di conseguenza.
Buona lettura e buon divertimento!
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Meredith St.Clair tirò un’altra boccata di fumo
dalla sigaretta che aveva appena acceso, appoggiandosi più
comodamente al muro della villa.
Sapeva che se qualche professore l’avesse beccata a fumare,
sarebbe stata nei guai. La tirata che le aveva propinato la dottoressa
Grey l’ultima volta le era perfettamente chiara. Niente
sigarette. Le regole della scuola prevedono... eccetera eccetera.
Ma quel posto era tranquillo e sicuro. Nessuno veniva mai nella zona
delle cucine una volta che l’orario della cena era passato. Era
la vecchia ala sul retro della casa, deserta di notte, e ben lontana
dai dormitori. Un pergolato di edera canadese proteggeva il suo
cantuccio dagli sguardi indiscreti e dal vento. Un posto perfetto.
Meredith si portò di nuovo la sigaretta alla bocca, lentamente,
gli occhi fissi sui cespugli di rose bianche di fronte a sé.
Chissà chi li cura, si chiese. Abbassò lo sguardo e
buttò la cenere per terra. Un leggero alito di vento fece
rotolare il cilindretto che si era staccato dalla sua sigaretta verso
il centro del minuscolo cortile. Avrebbe dovuto ricordarsi di spazzare
la cenere nel tombino prima di andare via. Sarebbe stato davvero
stupido farsi scoprire per un dettaglio del genere, anche se dubitava
che qualcuno della scuola frequentasse le cucine, men che meno il
cortiletto dietro le cucine. Di nuovo tornò a guardare le rose.
Le piante erano ben curate, prive di insetti, i rami accuratamente
potati. Evidentemente qualcuno se ne occupava. Escluse i suoi compagni.
Molti di loro erano abbastanza snob da pensare che il cibo apparisse
magicamente, già cucinato e tutto, sui vassoi in sala mensa.
Ridacchiò beffardamente e il fumo le andò di traverso,
facendola tossire. Fu molto felice che non ci fosse nessuno lì
con lei.
Si asciugò gli occhi con un movimento rabbioso, vergognandosi
della sua stupidità. Tirò su col naso e sebbene la gola
le pizzicasse ancora aspirò dalla sigaretta, buttando indietro i
capelli castani con un movimento noncurante. Lottò contro
l’urgenza di tossire e mandò il fumo giù nei
polmoni. Dopo qualche secondo, lo fece risalire lungo la trachea, e lo
espellè con un lungo soffio dalla bocca. Si sentì meglio,
come se questa manovra da fumatrice esperta cancellasse o almeno
andasse a pareggiare la sua goffaggine di poco prima. Aspirò di
nuovo.
Per qualche motivo, escludeva anche che ad occuparsi delle rose fosse
un professore, o il giardiniere. A chi importava del cortiletto dietro
le cucine? Forse era una delle ragazze che cucinavano per la mensa
della scuola. Cioè, lei non le aveva mai viste, a dire la
verità non sapeva chi lavorasse in cucina, ma ci sono in tutti i
posti, no? La bassa manovalanza che cucina e fa le pulizie, gli
invisibili che per dieci dollari l’ora sgobbano per i ricchi.
Immaginò una bella ragazza latina con la carnagione scura e i
capelli neri di nome Maria, o Rosa. Era arrivata da poco dal Messico su
un camioncino colorato carico di immigrati. Aveva trovato lavoro qui
nella scuola dopo averle provate un po’ tutte: contadina in un
frutteto, raccoglitrice di cotone in Mississipi, donna delle pulizie in
un centro commerciale. Aveva freddo qui negli Stati Uniti, e le mancava
il suo paese. Curava le rose sul retro della cucina perché i
fiori le piacevano, le mettevano allegria, e le rose le ricordavano
quelle che crescevano nel giardino di sua nonna, là a casa
sua... Improvvisamente si sentì molto stupida.
Aveva sempre pensieri del genere. Immaginava cose, si raccontava
storie... Doveva finirla sul serio. Era il giardiniere, a curare le
rose, chi altro? Perché una delle ragazze della cucina, ammesso
che esistesse, avrebbe perso tempo in un giardino che non era il suo,
dopo l’orario di lavoro, invece di andare a casa, o da qualche
parte a rilassarsi e a divertirsi? Quale ingenuo idiota avrebbe
immaginato una storia del genere, per giunta zeppa dei peggiori
clichè, invece di considerare l’ipotesi più logica
e probabile?
Scosse la testa, furiosa con se stessa, e un leggero soffio di vento la
fece rabbrividire. Era la fine di settembre e sebbene le giornate
fossero ancora tutto sommato piacevoli, le notti erano già
piuttosto fredde. Si strinse nel cappotto e si portò la
sigaretta alle labbra.
“E tu che cazzo ci fai qua?”
Meredith sentì lo stomaco annodarsi e un rivolo di sudore freddo
correrle giù per la schiena. Il suo primo pensiero fu che
dopotutto non ci avrebbe messo molto a fare le valigie.
Ma mentre abbassava la sigaretta e si voltava verso la voce le venne in
mente che un professore non si sarebbe mai espresso così.
Sulla porta stava uno dei suoi compagni. Si stringeva in un giubbetto
di pelle e la guardava torvo con un pacchetto di sigarette in mano.
Avevano qualche lezione insieme. Jeans sdruciti, capelli sparati in
aria e un accendino sempre in mano. Si chiamava John qualcosa, le
pareva. Non lo conosceva bene, ma d’altra parte lei non aveva
fatto amicizia praticamente con nessuno.
“Prego?” Meredith domandò con un’espressione incredula.
“Ti ho chiesto cosa ci fai qua.” Sfilò una sigaretta
dal pacchetto. “Questo è il mio posto.”
“Il tuo posto? No, non credo proprio.”
“L’ho scoperto io, perciò è il mio posto. Non
mi piace la compagnia mentre fumo.” Si piazzò di fronte a
lei, ostruendole la vista delle rose.
Meredith rise sarcastica. “A chi lo dici.” Alzò la
sigaretta ormai quasi finita. “Sono arrivata prima io,
perciò vattene.”
Lui alzò le spalle. “Vattene tu.”
Meredith non disse nulla. La conversazione stava prendendo una piega da
asilo, e la cosa non le piaceva. Lui sembrò prendere il suo
silenzio come una sorta di capitolazione, e con un’espressione
soddisfatta tirò fuori uno Zippo dalla tasca dei pantaloni.
Avrebbe potuto facilmente accendersi la sigaretta che teneva fra le
labbra, invece usò l’accendino per produrre una piccola
fiamma nel cavo della sua mano. Alzò la mano a coppa verso il
viso e si accese la sigaretta.
“Affascinante.” disse Meredith, caricando la voce con tutto il sarcasmo di cui era capace.
Lui non disse nulla. La fissò insistentemente, e Meredith stava
per chiedergli cosa diavolo avesse da guardare quando lui parlò.
“Che sai fare?” le chiese con la sigaretta tra i denti.
Meredith considerò la domanda per qualche secondo. “So
preparare un’ottima crostata di mirtilli.” ghignò
“Ecco cosa so fare. Che diavolo significa cosa sai fare?”
Aveva alzato leggermente la voce e questo non le piaceva. Non voleva fargli credere che stesse perdendo la pazienza.
Lui sbuffò via il fumo, chiaramente infastidito. “Lo sai
benissimo cosa intendo! I tuoi poteri, genio, e non gridare! Vuoi farci
sentire?”
Il fatto che lui le dicesse di abbassare la voce, anche se ovviamente aveva ragione, la irritò ancora di più.
“Certo che so cosa intendi. Quello che non so è perché questi dovrebbero essere fatti tuoi.”
Invece di reagire come Meredith si aspettava, lui sorrise soddisfatto,
come se avesse appena segnato un punto a suo favore. Diede un calcio ad
un legnetto mentre aspirava dalla sua sigaretta.
“Perché che io mi ricordi non ti ho mai visto usare i tuoi
poteri, zucchero. Comincio a chiedermi se tu sia davvero una di
noi.”
Meredith sentì la rabbia montare. Mentiva di proposito, per
mandarla fuori dalla grazia di dio, così lei se ne sarebbe
andata.
Certo che l’aveva vista. Usava i suoi poteri in continuazione, in
classe. Dalla prima elementare in avanti, non era mai successo che
attraversasse l’aula per prendere un libro invece di muoverlo col
pensiero.
“E tu chi saresti, l’ispettore alle mutazioni?” gli sibilò.
“E tu chi saresti, la più acida dell’universo?” rispose lui.
“Fottiti.”
“Fottiti tu.”
Ed ecco di nuovo la spiacevole sensazione di avere ancora quattro anni.
Sentendosi profondamente a disagio, Meredith guardò la sigaretta
ormai spenta che rigirava tra le dita. Rispondendo ad un impulso
meccanico più che a una vera e propria decisione, diede un
colpetto alla cenere, che si staccò e planò lentamente
sul cemento.
Lui alzò gli occhi al cielo. “No, non lì! Nel
tombino, dannazione! Vuoi veramente mandarlo a puttane questo
posto!”
Meredith lo fissò per qualche istante, carica d’odio,
indecisa se farlo volare o meno con le chiappe sulle rose con una
spinta della sua energia psichica. Le sarebbe spiaciuto molto
distruggere le rose, perciò decise di lasciar perdere.
Propositi omicidi a parte, aveva comunque un grosso problema: voltarsi
e andarsene senza raccogliere la cenere, dandogli così la
soddisfazione di aver ragione a proposito di “voler mandare quel
posto a puttane”, come si era espresso (senza contare la
soddisfazione intrinseca nel vederla andar via), oppure usare la sua
mente per spazzare la cenere nel tombino, così dandogli
così la soddisfazione di rispondere alla sua domanda di poco
prima? Di nuovo Meredith lo immaginò volare sulle rose, e di
nuovo pensò che quelle rose le piacevano parecchio.
Alzò le spalle e gettò quel che restava della sigaretta a
terra insieme alla cenere, per poi concentrarsi e spingere il tutto
verso il tombino. Il materiale era leggero e non faceva fatica, ma era
buio e doveva sforzarsi per vedere la cenere, il cui colore era
maledettamente simile al cemento del cortiletto, ed assicurarsi che
fosse tutto pulito.
Mentre lavorava, lo sentì ridacchiare, felice di avere vinto.
“Oooh, è questo che sai fare allora? Muovi le cose col
pensiero? Un po’ come il professor Xavier e la dottoressa
Grey?”
Meredith annuì. Forse un pugno in faccia sarebbe bastato.
“E sai leggere nel pensiero?” le chiese, piegando la testa
di lato e osservandola come se stesse cercando di capire fino a che
punto lei fosse capace di spingersi.
Meredith non disse nulla. Improvvisamente le venne un gran voglia di piangere, ma scacciò via il pensiero con forza.
“Cosa sto pensando adesso?” continuò lui.
Non si sentiva più combattiva, ma solo stanca. Si domandò
se il fatto di aver usato i suoi poteri l’avesse debilitata in
qualche modo. Se spingere per mezzo metro della cenere le toglieva
tutte le sue energie, allora aveva un bel problema.
“Che devi davvero liberarti di quel giubbotto ridicolo?”
Lui raddrizzò la testa e l’espressione eccitata che aveva
sparì per lasciar posto ad una delusa. “No, non sai
leggere nel pensiero. Ho sentito la dottoressa Grey dirti che devi
continuare ad esercitarti.”
Meredith sentì la rabbia rimontare in lei come l’onda di
uno tsunami. “Allora lo sai cosa so fare, pezzo
d’imbecille!”
Lui alzò le spalle e sorrise compiaciuto. Abbassò la sigaretta e buttò la cenere sul cemento.
“Se pensi che pulirò per te ti sbagli di grosso.” lo avvisò Meredith.
Il suo sorriso di scherno si allargò. “Beh zucchero, non
è poi granché quello che mi hai fatto vedere. Muovere
della cenere? Wow, divertente. Vorrei tanto poterlo fare io.”
Per la terza volta nel giro di pochi minuti Meredith sentì
l’impulso irrefrenabile di usare i suoi poteri contro
quell’insopportabile idiota. Invece fissò un ciotolo tondo
che stava in un’aiuola e lo fece volteggiare davanti a sé.
“Beh, cominciamo a ragionare.” disse lui. Alzò la mano libera. “Fai un lancio, piccola.”
Forse Meredith scagliò il sasso con un po’ troppa forza, o
forse la mano migliore di John era quella che reggeva la sigaretta.
Fatto sta che invece di afferrarlo, John colpì il sasso con il
polso e modificò la sua traiettoria, mandandolo a schiantarsi
contro una delle finestre della cucina.
Rimasero entrambi pietrificati per qualche secondo, fissando il vetro
infranto come se la loro mente fosse troppo orripilata per riuscire a
credere a quello che era appena successo. Poi Meredith ruppe
l’incantesimo.
“Oh merda.” disse.
“Guarda cosa hai fatto!” disse John, la sua voce, per la prima volta, quasi isterica.
“Io? Io?” si difese Meredith, altrettanto nel panico.
“E’ colpa mia se hai le mani di pastafrolla?”
“Zitta!” ordinò John. Si fermarono entrambi ad ascoltare i rumori della notte. “Senti qualcuno?”
Meredith si concentrò. “No.” disse infine. Si sporse
cautamente dal pergolato per guardare le finestre dei dormitori. John
la imitò.
“Si è accesa qualche luce?”
“Levati, non vedo niente!”
“No, nessuna luce. E non starmi addosso!”
Si guardarono in faccia l’uno con l’altra. “Forse non hanno sentito.” disse Meredith.
John considerò la possibilità per qualche secondo.
“Forse no.” Il tono della sua voce lasciava trasparire
quanto poco ne fosse convinto.
“Ok. Andiamo via.”
John annuì. “Sì.” Gettò la sigaretta
che ancora aveva tra le dita verso il tombino, ma lo mancò.
Meredith si concentrò, spinse la sigaretta per i venti
centimetri che ancora le mancavano e la guardò sparire in uno
dei fori.
“Ora sì che abbiamo cancellato ogni traccia.” disse lui, sarcastico. Meredith lo ignorò.
Si infilarono nella porta che dal cortiletto dava sul corridoio delle
cucine e John la richiuse dietro di sé. Entrambi tirarono un
sospiro di sollievo.
“Mi auguro sinceramente che voi due abbiate un’ottima ragione per questo.”
Stavolta Meredith non ebbe problemi a riconoscere la voce. Quando lei e
John si voltarono, trovarono Logan, meglio conosciuto come Wolverine,
che li fissava con le braccia conserte e un’espressione furibonda
sul viso.
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Ok, questo capitolo è finito. Spero davvero che vi sia piaciuto.
E’ la prima fanfiction che pubblico, quindi mi farebbe davvero
molto piacere sapere che ne pensate. In particolare vorrei sapere come
vi sembra la mia Meredith. Se ce qualcosa che mi da il voltastomaco
sono le Mary Sue, e se lei lo è lo devo sapere! Ho cercato di
renderla il più “reale” possibile, e spero di
esserci riuscita.
A questo proposito, vorrei aggiungere una nota sul nome. Lo so che
Meredith St.Clair è un nome spaventoso, ma prima che tiriate
fuori sassi e bastoni ho una spiegazione per questo orrore.
“Meredith” è un nome che, per colpa di Grey’s
Anatomy, mi si è appiccicato al cervello. Originalmente il
cognome di Meredith era Hudson, ma dato che è una trovatella (e
va beh, tanto lo si viene a sapere nel secondo capitolo) ho pensato che
il suo cognome doveva essere stato costruito a tavolino. Sulle rive del
lago St. Clair sorge la città di Detroit, dove Meredith è
nata.
Ok, è davvero tutto. Penso di aggiornare tra un paio di giorni. Un bacio a tutti e a presto!
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