CAPITOLO 4
Brown
Tuttavia, anche se non
le parlava né si avvicinava a lei, il piccolo cacciatore non smetteva di
preoccuparsi per lei e di guardarla da lontano, sentendo crescere giorno dopo
giorno uno sconfinato bene per quella dolce e gentile principessa sfortunata…
La sfortunata ragazza camminò per molto, molto tempo,
perdendosi di nuovo tra i corridoi di quel dirigibile misterioso tanto simile
ad un labirinto. Il suo unico punto di riferimento era il rumore continuo dei
motori, che però sembrava avvicinarsi ed allontanarsi indipendentemente dai
movimenti che lei faceva. Più si addentrava in quell’intrico di passerelle e corridoi grigi e più si
rendeva conto che sarebbe stato meglio se fosse rimasta nella Sala del Trono.
Almeno in quel modo avrebbe potuto affrontare ciò che aveva spaventato le altre
ragazze e recitato quell’orribile filastrocca,
mettendo così fine a quell’incubo… Ma invece era scappata, codarda come sempre.
Jennifer stava rimuginando così
quando si accorse di qualcosa di strano in cima all’ennesima scalinata
metallica che stava salendo, sempre più in alto.
Sulla parete dell’ultima rampa si stagliava una piccola
porta di legno, ma al contrario delle altre porte che lei aveva già incontrato,
questa aveva la superficie lucida ed una maniglia dorata. Quando l’ebbe
raggiunta, Jennifer poté leggere sulla targhetta di ottone che la ornava la scritta “Area passeggeri – Prima Classe”.
Con un tuffo al cuore, la ragazza sfortunata si rese conto
che era la prima volta che vedeva quella porta, che forse l’avrebbe condotta in
una zona diversa rispetto a quell’intrico di corridoi
grigi e bui. Senza esitare, quasi in lacrime dalla gioia, afferrò la maniglia e
spinse.
Dall’altra parte si allungava un altro corridoio, ma questo
non era di metallo o di tela come quelli che la ragazza aveva attraversato fino
a quel momento: le pareti erano rivestiti di pannelli
di un legno lucido simile a quello della porta, il soffitto era abbellito da
cassettoni decorati con motivi floreali ed il pavimento era coperto da un lungo
tappeto rosso bordato d’oro, che a Jennifer risultò
stranamente familiare. Lungo i muri, ad intervalli regolari, spuntavano dei
candelabri dorati che reggevano lampadine, in modo da dotare l’ambiente di
un’illuminazione soffusa e costante. C’erano anche alcuni piccoli mobili con
dei vasi di fiori che spezzavano la monotonia del pavimento.
Ma la cosa che più colpì Jennifer e le fece battere forte il cuore fu la dolce
musica che pervadeva quel luogo, riducendo quasi al silenzio l’onnipresente rombo
dei motori.
Con il cuore in gola, la sfortunata ragazza trattenne il
fiato mentre percorreva il corridoio, che si ramificava di fronte a lei
numerose volte, tendendo l’orecchio verso la musica, certa che avrebbe trovato
la salvezza. Non badò nemmeno alle altre porte che si trovavano lungo i muri
decorati, non badò ai passi felpati attutiti dal tappeto che la seguivano, né
al leggero ansimare alle sue spalle, tanto era desiderosa di trovare la fonte
di quella musica.
Alla fine si trovò di fronte ad una porta simile alle altre,
ma la cui targhetta indicava “Salone”:
la musica, che la ragazza sfortunata non era riuscita ad identificare, sembrava
provenire proprio da quella stanza. Con mano tremante afferrò la maniglia e
spinse. Non si accorse dell’ombra che arrancava inutilmente verso di lei,
ansimando e battendo rapidi e attutiti colpi sul tappeto, mentre la porta si
chiudeva alle sue spalle.
L’ampia stanza era arredata con gusto: un lampadario di
cristallo illuminava con la sua luce elettrica i due divani di raso che si
fronteggiavano, il tavolino di legno intagliato fra di
loro e le poltrone dall’aria comoda sistemate negli angoli. Le pareti ai lati
di Jennifer erano nascoste da librerie, su cui oltre
a grossi volumi facevano mostra di sé alcuni strani strumenti metallici, un
mappamondo e dei soprammobili bianchi. La parete di fronte alla ragazza invece
era occupata da un grosso trumeau dotato di molti cassetti e ante, sopra il
quale, dalla parete tappezzata di stoffa, la guardava arcigno il ritratto di un
uomo barbuto. Sopra il trumeau c’era un grammofono, dal quale si spandeva la
dolce musica che l’aveva attirata lì. Avendo notato la sua entrata, una ragazza dai capelli castano-rossi
e dall’abito in tinta sorrise e disattivò il grammofono.
Subito Jennifer le corse incontro,
non riuscendo a trattenere le lacrime. “Diana!” la chiamò, gettandosi ai suoi
piedi. Lei allora si accucciò di fronte a lei, sollevandole il capo con le
mani.
“Piccola Jennifer,” cominciò, sempre sorridendo. “Sei stata
brava, lo sai?”
La ragazza sfortunata, a quelle parole, sentì il cuore
riempirsi di gioia: dopotutto non era senza speranza, abbandonata da tutto alle
sue disgrazie, al suo dolore, al terrore per ciò che le stava succedendo.
“Grazie, grazie, Diana,” le disse
muovendosi per abbracciarla, ma la Duchessa si ritrasse lievemente. “Ma ciò che hai fatto non può essere perdonato, e lo sai,
vero?”
Il sorriso morì sulle labbra di Jennifer,
che annuì triste. Era vero. Qualunque fosse stato il
suo peccato, sapeva bene di non poter essere perdonata così facilmente.
“Ed inoltre hai dimenticato la gerarchia,”
aggiunse Diana, il cui volto era diventato duro. La ragazza sfortunata la
guardò senza capire, al che l’altra si spiegò. “Il mio rango, mendicante. Non
puoi chiamarmi per nome senza aggiungere il mio rango, lo sai.”
Jennifer annuì con aria colpevole.
“Sì, Duchessa Diana, avete ragione.”
Nuovamente Diana si avvicinò alla ragazza sfortunata,
sollevandole il volto fra le mani con un sorriso. “Così va meglio…”
“Credete…” riprese Jennifer singhiozzando.
“Credete che la Principessa potrà perdonarmi?”
“Oh, piccola, stupida, pezzente Jen-ni-fer,” replicò l’altra come se parlasse con una bambina.
“Conosci già la risposta a questa domanda.”
Jennifer stava per rispondere che
in realtà non la conosceva, ma Diana le posò le mani sulle spalle, quasi
abbracciandola, e le sfiorò un orecchio con le labbra, strappandole un brivido.
“Però posso intercedere per te, se
tu fai qualcosa per me…”
Nonostante la tensione che la pervadeva,
la sfortunata ragazza non trovò la forza di divincolarsi dalla Duchessa e poté
solamente annuire. Diana allora si scostò lievemente per guardarla negli
occhi.
“Portami la crisalide integra di una farfalla, ed io vedrò
cosa posso fare.”
Jennifer rimase in silenzio,
fissando con sorpresa i gelidi occhi della Duchessa. Lei non sapeva nemmeno che
forma avesse la crisalide di una farfalla, non ne aveva
mai viste di intere, e nemmeno credeva di poterne trovare una a bordo di un
dirigibile… ma Diana era la sua padrona, non poteva disobbedirle, tanto più che
avrebbe parlato con la Principessa in suo favore. Chiedendosi già come avrebbe
fatto ad adempiere a quell’incarico,
annuì con scarsa convinzione. La stretta delle mani sulle sue spalle si
accentuò lievemente mentre la Duchessa sorrideva maggiormente.
“Brava, ubbidiente, piccola Jennifer,” le sussurrò. “Sai essere anche una buona suddita,
dopotutto… Portala alla porta della Sala del Trono entro la scadenza,
ci troviamo là.”
La sfortunata ragazza avrebbe voluto chiedere tante cose
all’Aristocratica, ma questa la strinse a sé con fare
stranamente dolce. Poi tornò a guardarla negli occhi, socchiuse le palpebre e
sporse le labbra verso le sue. Jennifer non poté fare
altro che irrigidirsi e scostarsi da lei quel tanto che le permetteva l’abbraccio,
ma un secco tonfo bloccò Diana, che si volse sorpresa verso l’origine del
rumore.
Esso sembrava essere stato provocato dal quaderno di Meg che era caduto al suolo. La Baronessa
infatti era in piedi di fianco alla poltrona più lontana, come se fosse appena
uscita da dietro di essa, e fissava le due ragazze con odio, i pugni stretti
lungo i fianchi.
“Meg!” la chiamò Diana, stupita,
ma la bambina si limitò a stringere le labbra in un’espressione risentita e,
prima che le lacrime potessero cominciare a scorrerle dagli occhi, voltò loro
le spalle e corse via dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.
Jennifer guardò stordita la
Duchessa, che dal canto suo si alzò in piedi con sguardo sprezzante.
“E’ stata colpa tua, lurida pezzente!” le ringhiò contro,
poi le poggiò un piede sulla spalla e la spinse a terra. Jennifer
gridò di sorpresa, più che di dolore, ma quando fu riuscita a rimettersi seduta
Diana aveva già raccolto il quaderno di Meg ed era già sparita dalla stanza, lasciandola sola. La
ragazza sfortunata si sbrigò ad alzarsi e a correre verso la porta, ma quando
uscì nel corridoio non c’era più nessuno. Solo il rumore onnipresente dei
motori rompeva il silenzio.
Ormai era diventata
per lui abitudine lasciare di nascosto nella stanza di lei
i pochi dolci che costituivano le rare ricompense per i suoi servigi. Andò
avanti così mesi e mesi…
“Diana…” bisbigliò con un filo di voce Jennifer,
ma non ottenne alcuna risposta. Senza la musica dolce che l’aveva attirata e la
speranza di incontrare una delle sue amiche, quei corridoi sembravano più bui e
più freddi, anche se sembrava non fosse cambiato nulla.
“Duchessa Diana…” ripeté, stavolta ricordando il titolo, ma
nuovamente le rispose solo il silenzio ronzante del motore. Era proprio rimasta
sola. Sentì lo sconforto montarle nuovamente nel cuore, ma stavolta si sforzò
per trattenere le lacrime e andare avanti: nessuno sarebbe arrivato a
consolarla, ed anzi restare lì a frignare come una bambina piccola poteva solo
farle perdere tempo prezioso. Stringendo le mani sulla spilla a forma di rosa,
si costrinse ad inoltrarsi nei corridoi della prima classe, alla ricerca di una
crisalide integra.
Non passò molto prima che sentisse uno scricchiolio sinistro
provenire da una delle pareti. Con il cuore in gola si voltò, ma nel suo intimo
già sapeva cosa avrebbe visto.
“Rosicchia, rosicchia e scava, il
Randagio si avvicina!”
La sfortunata ragazza urlò e fuggì via dall’orrendo mostro
dalla testa di topo che squittiva il suo strano appello, ma non servì a molto,
perché tutte le pareti della prima classe stavano sfrigolando di passettini, squittii, fruscii e gridolini,
ed i pannelli di legno si crepavano mostrando piccoli e cattivi occhietti
gialli e musi affilati.
“Aiuto… AIUTO!” implorò Jennifer
correndo a perdifiato tra i corridoi che si estendevano in tutte le direzioni,
ma la sua stessa voce si perdeva nell’oceano di suoni stridenti che emettevano
i mostri attorno a lei. Ad un certo punto inciampò sul tappeto e cadde a terra.
Di fronte a lei, uno di quei topi mostruosi si chinò con il naso fremente a
pochi pollici dal suo viso, e le tese le mani. Neppure il suo strillo di
terrore riuscì a sovrastare quel bailamme mostruoso…
All’improvviso i mostri si zittirono e restarono come in
ascolto per un breve momento. La cosa fu così rapida che la stessa Jennifer rimase senza fiato e non osò muovere un muscolo,
nel timore di attirare di nuovo la loro attenzione. Poi risuonò di nuovo un
lontano abbaiare aggressivo, e tutto cambiò. Il pandemonio di grida di panico e
stridii ricominciò, ma questa volta i mostri sciamarono lontano da Jennifer, sparendo all’interno dei varchi nelle pareti,
sotto i mobiletti oppure sotto il tappeto, finché tutto tornò come se non fosse
accaduto nulla. La ragazza sfortunata, ancora sdraiata
tremante sul pavimento, credette di essersi
immaginata tutto. Ma tutto quello che le stava
succedendo era così assurdo che poteva benissimo trattarsi solo di un lungo,
orribile sogno.
Provò a sollevare lo sguardo, ma sembrava davvero tutto
finito: le pareti non recavano tracce di fessure, il tappeto era liscio come se
non fosse mai stato sollevato, ma in fondo al corridoio che stava guardando…
Il cuore le mancò di un battito quando vide una cosa
abbandonata per terra, una cosa lunga e sottile. Per un attimo pensò alla coda
di uno di quegli esseri terribili, ma poi si accorse che non si muoveva. Con
circospezione si alzò e si avvicinò, e solo quando si fu convinta che non c’era
alcun pericolo si accucciò per esaminare il suo ritrovamento.
Era una striscia di cuoio chiaro, un collare, ed al suo
interno era appoggiato un lecca-lecca coloratissimo. Quella vista le ricordò
qualcosa di molto lontano, qualcosa di dolce come quell’oggetto,
ma per quanto si sforzasse non riusciva a trattenere
quel ricordo, che le sfuggiva dalla mente come una saponetta bagnata.
Prese il lecca-lecca, lo guardò titubante ed infine provò a staccarne
un morso. Subito il sapore dolce di quella leccornia le stimolò la lingua e
nella sua mente esplose un ricordo, folgorante come se fosse il più prezioso della
sua vita.
Non aveva ancora visto quel dirigibile strano e terribile ed
i suoi mostri, ma anzi si trovava in una grande casa,
che le sembrava familiare. Era stata appena punita per qualcosa, ma non le
interessava molto. Si sentiva anzi contenta, perché non le piaceva molto dover
fare quello che le si diceva. In quel ricordo tanto
realistico, Jennifer entrò nella sua stanza, al piano
superiore di quella grande casa, e sul letto, accanto
a tutti i panni sporchi che gli altri le avevano lasciato, c’erano un
lecca-lecca e una caramella. Quella vista riempì di gioia il cuore della
sfortunata ragazza, ma proprio quando si stava chinando per raccogliere quei
dolciumi si ritrovò di nuovo nel corridoio di prima classe del
dirigibile, con il lecca-lecca appena raccolto in bocca. Quel ricordo tanto
vivido e felice stava rapidamente svanendo nella sua mente, come un sogno al
risveglio, e già non ricordava più chi fossero gli
“altri” che le avevano portato quei panni sporchi, o perché dovesse essere
contenta di aver trovato i dolci sul proprio letto.
Con un sospiro rassegnato si tolse il lecca-lecca di bocca,
masticando, e se lo infilò in tasca. Poi si chinò e raccolse il collare. Aveva
uno strano odore animale, come se fosse appena stato tolto dal collo di un
cane, e sulla superficie esterna era scritto il nome “Brown”.
A Jennifer anche quel nome
ricordava qualcosa, qualcosa di più dolce del lecca-lecca e più triste di una
poesia malinconica. Lo strinse al seno e chiuse gli occhi, cullandolo:
qualunque cosa significasse quel guinzaglio e l’averlo trovato proprio in quel
momento ed in quelle condizioni, lei sapeva che doveva tenerlo caro più della
sua vita, perché era tutto ciò che le restava di qualcuno molto speciale…
Ma forse, dato che quel collare si
trovava proprio lì…
Sì, doveva essere così!
La sfortunata ragazza si sentì riempita di
una nuova speranza all’idea che quel ritrovamento potesse significare
che il suo amico non fosse perso per sempre. Rimase a guardare ancora a lungo
il guinzaglio che portava il nome “Brown” e le
vennero le lacrime agli occhi dalla gioia: se avesse potuto ritrovare il suo
più caro amico nonostante quello che aveva fatto, non avrebbe avuto più bisogno
del perdono della Principessa della Rosa Rossa.
Con il cuore in gola Jennifer tese
le orecchie, ma nuovamente l’unico suono che si sentiva era il rombo dei
motori. Senza lasciarsi scoraggiare si incamminò lungo
il corridoio, senza accorgersi del basso ringhio rabbioso che risuonava in
lontananza.