Come sei veramente
Come sei veramente*
La porta della
stanza 319 è chiusa. Oltre ad essa, John Smith, da tutti
chiamato solo Johnny, ventisette anni, ex insegnante di letteratura,
appena ripresosi da un coma lungo sessanta mesi.
Eileen Magown,
ferma davanti alla porta chiusa, si passa una mano fra i capelli mossi,
tagliati alla base del collo, tinti di un bel rosso dorato. Si tinge i
capelli, Eileen, perché non sopporta il proprio colore, un
banalissimo castano chiaro. Trova che il rosso le doni molto di
più, valorizzando la carnagione lattea e illuminando gli occhi
grigi. Sa di non essere bellissima: il suo viso è eccessivamente
triangolare, gli occhi troppo piccoli, la bocca troppo grande, il
sorriso un po’ storto, il naso sottile coperto di lentiggini, che
cerca inutilmente di camuffare sotto la cipria. Il suo punto di forza
è il fisico, tonico e con le curve nei punti giusti, invidiato
da molte delle sue colleghe. Chissà cosa succederà quando
i suoi venticinque anni si tramuteranno in trentacinque, il seno
perderà il suo turgore e il sedere inizierà ad abbassarsi
verso la terra, per una semplice questione di gravità; ma
appunto, chi lo sa, e chi se ne frega: da tempo Eileen ha imparato che
il futuro è un’incognita, il passato un cassetto da tenere
chiuso a chiave, e il presente è l’unica cosa che conta.
Sposta il peso
da una gamba all’altra, pensierosa. Lavora come terapista da
quattro anni, ed è la prima volta che assiste alla ripresa
così improvvisa e totale di un paziente in coma per un periodo
tanto lungo, nonostante sia abituata a trattare casi come quello di
John Smith da quando, tre anni addietro, è stata assunta alla
clinica St. Francis di Bangor, Maine, specializzata in neurologia.
Dopo
l’incidente, avvenuto la notte di Halloween del 1970, Johnny era
stato ricoverato per un anno all’Eastern Maine Medical Center,
poi era stato trasferito alla St. Francis per volere dei genitori:
sottoposto a un programma di recupero sperimentale per comatosi, aveva
ricevuto gratuitamente le migliori cure possibili, ma Eileen sapeva che
la cosa non avrebbe potuto durare a lungo. Presto o tardi, quando
Johnny non fosse stato più utile come cavia, il direttore della
clinica, dottor Samuel Weizak, un ometto di origini polacche con tutto
l’aspetto di un hippy troppo in là con gli anni, sarebbe
stato costretto a fare un discorso poco simpatico a suo padre, Herbert
Smith: o avesse iniziato a pagare, e profumatamente, le cure per il
figlio, o Johnny sarebbe stato rispedito a vegetare i suoi ultimi,
inutili, inerti giorni, all’EMMC, dove al massimo gli avrebbero
cambiato posizione ogni otto ore per evitargli le piaghe da decubito.
Herb Smith
è il proprietario di una delle più importanti imprese di
costruzione della zona, vive in una grande villa con un enorme giardino
a Pownal, e certamente ha a disposizione una buona quantità di
denaro. Ma purtroppo, nemmeno un Rockefeller potrebbe sostenere per
molto tempo i costi delle cure intensive a cui Johnny viene sottoposto
ogni giorno alla St. Francis.
Eileen sa che
accettare o rifiutare pazienti è un impegno gravoso per il
dottor Weizak, un impegno che gli costa notti insonni e rimorsi di
coscienza. Lei, al suo posto, impazzirebbe. Ma sono scelte necessarie,
se si vogliono salvare più vite in futuro, migliorandone la
qualità. Del resto, Johnny non sembra destinato ad essere
rispedito all’EMMC tanto presto. Era stato vittima di un tremendo
incidente; stava tornando a casa dopo una serata trascorsa con la
fidanzata, ma il suo destino si era incrociato con le auto affiancate
di due ubriachi che avevano scambiato la strada per il circuito di
Indianapolis. Il povero ragazzo era stato sbalzato fuori dal suo
Maggiolino, fracassandosi il cranio e rompendosi le gambe, l’anca
destra in modo più grave. Era stato operato d’urgenza alla
testa, e fin da subito le sue condizioni erano apparse disperate.
Johnny era sopravvissuto all’intervento chirurgico, ma non si era
più ridestato da quella specie di limbo, chiamato coma, in cui
era scivolato. Aveva perso il lavoro, la sua ragazza aveva smesso di
andarlo a trovare e si era sposata con un altro uomo, sua madre era
morta di crepacuore, suo padre aveva iniziato a vedersi con un'altra
donna, l’America intera stava cambiando, con la fine del Vietnam
e lo scandalo Watergate, e lentamente, o forse troppo velocemente,
erano trascorsi quasi cinque anni. Tutti i medici erano concordi: altro
tempo sarebbe passato, e Johnny Smith si sarebbe spento come una
candela, forse a poco a poco, forse nel giro di poche settimane, ma
quello era il suo destino, niente e nessuno avrebbe potuto cambiarlo se
non un miracolo.
D’altra
parte, il suo elettroencefalogramma non è mai stato piatto, e il
suo corpo reagisce bene agli stimoli, forse anche grazie alla giovane
età. Malgrado i lunghi anni di coma, il viso e il corpo di
Johnny non sono degenerati, come talvolta accade a questo tipo di
pazienti che sembrano già in putrefazione prima di morire
– Eileen riesce a percepirne l’odore, un lezzo di carne
corrotta e disfatta e fiori appassiti. L’unica cosa che denota la
condizione di Johnny è l’eccessiva magrezza, ma il suo
volto e la sua espressione sono quelli di un giovane semplicemente
addormentato.
Finchè le
cose fossero continuate in quel modo, il dottor Weizak non avrebbe
chiamato Herb Smith per il famoso discorsetto. Johnny Smith è
ancora molto utile alla ricerca medica.
Crudele.
Ma necessario.
Da quasi tre
anni, per un’ora ogni giorno, esclusi i festivi, Eileen ha tenuto
in allenamento i muscoli di Johnny, parlandogli e facendogli ascoltare
musica, perché quello è il suo dovere nelle vesti di
fisioterapista, e quella è la sua parte nel programma speciale
della clinica. Ma se anni prima aveva deciso di diventare terapista,
per rinchiudersi in un ospedale, in corsie piene di malati e di
sofferenza, invase dall’odore di disinfettante, per incontrare
ogni giorno paraplegici e mutilati e comatosi, e avere a che fare con
regole necessarie ma per lei intollerabilmente crudeli, anziché
continuare a studiare pianoforte e diventare, magari, una famosa
musicista come la defunta Vera Connery Smith, madre di Johnny, o anche
solo una concertista, o un’insegnante di musica, il motivo era
solo uno, ed era abbastanza valido da non averle mai dato occasione di
rimpianti.
Bobby.
Eileen si trova
davanti alla porta chiusa della stanza 319 e non vuole ricordare Bobby,
ma non è quello che fa, quello che ha sempre fatto ogni giorno,
da otto anni a questa parte?
Bobby è stato il motivo di tutto.
Il motivo per
cui aveva scelto di diventare terapista, e non musicista, quando ancora
abitava nella casa dei suoi genitori, a Dublino. Aveva deciso di fare
qualcosa per mettere a tacere quel terribile senso di impotenza che
l’aveva presa vedendo il fratellino esanime su di un letto di
ospedale, circondato dagli apparecchi e dalle macchine che lo tenevano
allacciato alla vita, ma che vita era poi quella? Nutrirsi tramite una
flebo, orinare e defecare attraverso dei tubi, completamente immobile,
gli occhi chiusi, l’espressione assente… era mai possibile
definirla vita?
Bobby era caduto in coma profondo dopo essere stato investito da un pirata della strada, che poi non era mai stato trovato.
I suoi genitori,
bramosi di vendetta, erano entrambi convinti che la morte, ovviamente
dopo lunghe e atroci torture, sarebbe stata la giusta punizione per il
mostro che aveva ridotto il loro figlio più piccolo in quelle
condizioni – peccato che la pena di morte in Irlanda fosse stata
da tempo abolita, che il colpevole si fosse come dileguato nel nulla, e
che questa malsana sete di sangue fosse rimasta il loro unico punto
d’incontro, dopo l’incidente.
Anche Eileen
avrebbe voluto incontrare il colpevole, vedere che espressione potesse
avere uno che aveva investito un ragazzino di dieci anni e
l’aveva lasciato agonizzante per la strada, in un lago di sangue.
Forse era un uomo fino ad allora normale, un impiegato o un operaio,
forse aveva dei figli, forse anche lui aveva un fratello minore. Forse
era una donna, perché no? O forse un ragazzetto neopatentato,
alla guida di un’automobile troppo potente.
Nell’attimo
dell’impatto, anche la sua vita doveva avere preso una piega poco
gradevole. Si era spaventato e aveva sgommato via tanto violentemente
da lasciare il segno dei copertoni sull’asfalto. Non era la prima
volta che accadevano casi del genere, e scappare via terrorizzati
sembrava essere una delle reazioni più comuni da parte dei
guidatori. Eileen poteva capirlo, sebbene non giustificarlo. Quello che
non riusciva a capire era il silenzio che era seguito: nessuno che si
fosse presentato, nessuno che avesse confessato. Il caso di Bobby era
finito sui quotidiani e al telegiornale, la polizia stava facendo delle
ricerche, per forza il colpevole doveva essere a conoscenza delle
conseguenze del suo gesto, del fatto che avesse ridotto in fin di vita
un bambino delle elementari, il quale era stato in coma per sette mesi
prima di spegnersi. E ammesso e non concesso che non ne fosse a
conoscenza, come poteva comunque una persona normale continuare la sua
vita con un peso simile?
Se solo si fosse costituito…
Invece, niente.
Significava che quello sciagurato, chiunque fosse, non aveva rimorsi,
non aveva coscienza. Non poteva essere chiamato uomo, o donna che
fosse. Non era nemmeno possibile definirlo bestia; spesso le bestie
sono migliori degli esseri umani.
Quindi, si
chiedeva Eileen, a cosa sarebbe servito punire un mostro del genere?
Solo a placare la sete di sangue dei propri genitori – ma lei era
convinta che non sarebbe servito neanche a questo.
Soprattutto,
nessun castigo avrebbe potuto riportarle indietro il fratellino, con il
quale spesso litigava – che diamine, quando ci si metteva sapeva
essere una vera peste – ma al quale voleva un bene
dell’anima.
Dio, se gli
voleva bene. Bisticciavano in continuazione, lei si arrabbiava per i
suoi dispetti, e sua madre la rimproverava di essere paziente,
perché lui era il più piccolo, la stessa storia che tutti
i fratelli maggiori sono costretti a sentirsi ripetere dai tempi dei
tempi: così finiva con Eileen doppiamente stizzita, sia con
Bobby, sia con la madre – anzi, soprattutto con la madre. Ma era
suo fratello, sangue del suo sangue, e gli voleva bene. E maledizione,
non glie l’aveva mai detto quando era vivo e pestifero, quando
dava per scontato che da monello viziato sarebbe cresciuto, avrebbe
messo la testa a posto, avrebbe raggiunto l’adolescenza, poi la
maturità, e infine la vecchiaia. Come si dà sempre tutto
per scontato!
Gli aveva detto
varie volte che gli voleva bene, al suo capezzale, durante tutti e
sette i mesi in cui era stato in coma, ma non era la stessa cosa che
parlare a una persona cosciente. Era in grado di sentirla, Bobby?
Un’infermiera, impietosita, le aveva detto che sì,
naturalmente suo fratello poteva ascoltarla, ma d’altra parte i
neurologi continuavano a ripetere ai genitori che il ragazzino era del
tutto privo di conoscenza e non provava alcun dolore per le ferite
riportate.
Eileen aveva
l’impressione che, nei casi disperati, quando la morte era
l’unica cosa certa entro breve o medio termine, i medici e le
infermiere dicessero solo ciò che i parenti volevano sentirsi
dire.
Ma qual era la verità? Soffriva, Bobby? Poteva ascoltarla?
Nessuno era in grado di risponderle davvero.
Tuttavia, aveva
continuato a testimoniargli il proprio amore, pregandolo di tornare
indietro, di svegliarsi e venire a riportare il sorriso ai suoi
genitori e a lei stessa, nonostante il parere dei medici fosse che il
suo corpo e il suo cervello erano ormai irreparabilmente danneggiati, e
che solo la morte sarebbe stata la sua salvezza: non sarebbe mai
tornato il ragazzino pestifero di prima, non avrebbe mai ripreso
l’uso delle gambe, forse nemmeno delle braccia, e per quanto
riguardava le facoltà intellettive…
Eileen si
chiedeva se era davvero così, o se anche queste erano le solite
frasi fatte, allo scopo di indorare la pillola ai parenti e prepararli
all’ineluttabile colpo finale.
Infine, Bobby se
n’era andato. Nonna Grace, che aveva vissuto con loro, per sua
fortuna era morta due anni prima, risparmiandosi quella tragedia; ma se
fosse stata ancora viva, Eileen era certa che avrebbe messo da parte il
proprio dolore per consolare l’unica nipote rimasta. Le avrebbe
detto che Bobby era diventato il suo angelo custode, e le avrebbe
accarezzato i capelli, che a quel tempo aveva lunghi fino a metà
della schiena.
Invece, Eileen si era ritrovata ad affrontare tutto da sola.
Un luogo comune
recita che le disgrazie rafforzano i legami fra i sopravvissuti. Tutte
balle. L’incidente e la morte di Bobby avevano letteralmente
distrutto il resto della famiglia, cioè lei e i suoi genitori.
Più volte
Eileen aveva pensato che forse, nei casi in cui una famiglia o un altro
tipo di unione viene annientata da una disgrazia, significa che anche
prima c’era poco da annientare, e che quell’unione si
sarebbe dissolta comunque. Ma era doloroso vedere i propri genitori
litigare fra di loro o prendersela con lei per la minima sciocchezza,
quando invece, prima dell’incidente, erano sempre stati…
bè, normalissimi genitori. Che battibeccavano, rimproveravano, a
volte alzavano la voce, cose che naturalmente accadono in una
famiglia, ma che sembravano volersi bene, e amare allo stesso modo i
propri figli.
Nei mesi
successivi alla morte di Bobby, le cose in casa erano degenerate
ulteriormente. Suo padre, che era un poliziotto, quando non era in
servizio aveva preso a bere più del dovuto e sua madre, per non
essere da meno, abusava di tranquillanti. La cosa che più feriva
Eileen era che entrambi facevano tutto alla luce del sole, come se lei
non avesse potuto accorgersene, come se lei non fosse esistita. O
peggio, come se volessero punirla, rendendola testimone del loro
disfacimento. Avrebbero voluto torturare e uccidere quel maledetto
mostro che aveva ucciso il loro figlio più piccolo, ma siccome
non era possibile, avevano designato la figlia rimasta come capro
espiatorio.
Eileen aveva
iniziato a non sentirsi esente da colpe. Suo fratello se n’era
andato per sempre, e i suoi genitori le stavano infliggendo la giusta
pena per avere sempre bisticciato con il lui quando era vivo e non
avergli mai comunicato il proprio affetto.
In quel periodo
cercava di starsene il più possibile fuori, a scuola, al corso
di musica che frequentava tre volte alla settimana, in giro per
Dublino, o semplicemente seduta nel parco, sull’erba. Quando era
in casa, si chiudeva nella sua camera, si sedeva al suo pianoforte da
muro, economico, e suonava. Bach, Schumann, Chopin. Suonare teneva la
sua mente concentrata su qualcosa di ordinato e pulito, qualcosa di
bello e perfetto, qualcosa di diverso dalla realtà dolorosa che
stava vivendo. Anche se in seguito aveva deciso di seguire
un’altra strada, non aveva mai smesso di suonare il pianoforte:
la rilassava impegnando il suo corpo e la sua mente, un toccasana per i
momenti difficili, e un passatempo divertente per tutti gli altri.
Ma durante quei mesi di angoscia così profonda, il pianoforte non le era stato sufficiente.
Una sera, stava
suonando l’Aria delle Variazioni Goldberg, uno dei suoi pezzi
preferiti, e si era accorta che delle gocce trasparenti stavano cadendo
sui tasti. Per un istante si era chiesta se ci fosse un foro nel tetto
e la pioggia stesse infiltrandosi in casa. Poi aveva sentito
l’umidore sulle guance, il bruciore agli occhi, e aveva
realizzato: stava piangendo senza accorgersene.
Aveva chiuso la
tastiera con un tonfo ed era scoppiata in singhiozzi, non per la prima
volta, ma fino ad allora non le era mai capitato mentre era impegnata
al pianoforte. Il dolore era troppo grande, lei era sola, nessuno
l’aiutava e nessuno l’avrebbe aiutata.
Se chiudeva gli
occhi, si vedeva chiusa in una stretta cella senza finestre, con le
mura, il soffitto e il pavimento di pece nera, e l’aria che a
poco a poco cominciava a scarseggiare.
Voglio morire
anch’io, aveva pensato. Voglio morire e raggiungere Bobby, gli
dirò che gli ho voluto un sacco di bene, che gliene voglio
ancora e gliene vorrò sempre, e finalmente saprò che mi
ha ascoltata.
E allora fallo,
si era risposta. Muori e raggiungi Bobby. E’ facile, è
sufficiente che ti tagli le vene. Se lo fai di notte, nella tua stanza,
nessuno se ne accorgerà e ti ritroveranno solo al mattino, ormai
andata. Meglio ancora, perché non prendi la pistola di tuo
padre? Sei sicura del risultato e ci vorrà solo un attimo. Non
te ne accorgerai nemmeno. Una pallottola alla testa e non soffrirai
più.
Codarda, si era aggiunta un'altra voce. Codarda, vigliacca, pusillanime.
Non sono codarda. Per uccidersi ci vuole del coraggio.
Già, ma a
volte ci vuole più coraggio a restare in vita, e cercare di
viverla, invece di piangere e commiserarsi in continuazione.
Quasi senza
pensare, si era asciugata le lacrime, aveva preso un paio di forbici
dal cassetto della scrivania, e si era tagliata i capelli a neanche un
centimetro di lunghezza, quasi come rasati. Prima di allora, non
ricordava di averli mai avuti tanto corti: fin da piccolina, li aveva
lasciati crescere liberamente, spuntandoli solo di tanto in tanto per
rinnovarli.
Guardandosi allo
specchio, a lavoro ultimato, quasi irriconoscibile, con la testa
pressoché nuda, aveva però giudicato che il nuovo taglio
le donava. Con un po’ di trucco, sarebbe stata persino carina.
Indubbiamente, alternativa.
Aveva
ridacchiato fra sé. Che gesto banale, per una ragazza
alternativa: aveva bisogno di chiudere con il passato, aveva bisogno di
un cambiamento, e la prima cosa a cui aveva pensato era stato un gesto
estremamente semplice e banale come tagliarsi i capelli.
Ma non si era
mai sentita la testa così leggera, ed era una sensazione
piacevole. Possibile che i capelli, per quanto lunghi, potessero pesare
tanto?
Possibile che il passato pesasse tanto?
Sarebbe mai
riuscita a buttarsi il passato dietro le spalle, proprio come si era
liberata dei capelli e li aveva gettati nel cestino dei rifiuti?
Non sarebbe stato altrettanto facile, ma ci avrebbe provato.
Non si sarebbe più sentita codarda.
Psicanalisi da
quattro soldi, si era schernita. Ma avrebbe dato volentieri il
benvenuto anche alla psicanalisi da quattro soldi, se avesse
funzionato.
Dopo la scuola
dell’obbligo si era iscritta a un corso per fisioterapisti
professionali, e tre anni dopo, terminatolo con successo, aveva
comunicato ai suoi genitori che se ne sarebbe andata via da casa. Via
da Dublino, via dall’Irlanda, via dall’Europa. Sarebbe
andata negli Stati Uniti, come molti suoi avi avevano fatto nel secolo
precedente, per iniziare una nuova, migliore vita.
Sua madre non si
era neanche scomposta. Suo padre invece l’aveva presa da parte e
l’aveva abbracciata, dopo talmente tanto tempo che non
l’aveva fatto che Eileen aveva dimenticato il suo odore di Lucky
Strike – era un fumatore incallito, fino a due pacchetti al
giorno se non era in servizio: tanto irreprensibile sul lavoro quanto
sregolato nella vita privata.
Le aveva detto
che le augurava ogni felicità, perché se la meritava, e
che gli dispiaceva per essere stato smarrito a tal punto nel proprio
dolore da non accorgersi che aveva sì perduto un figlio, ma che
una figlia gli era rimasta: una figlia che avrebbe avuto bisogno di lui.
Sono strane, le persone. A volte, cercano di trattenere qualcuno solo quando si accorgono che stanno per perderlo.
“Lascia
stare, papà”, aveva bofonchiato lei, sciogliendosi
dall’abbraccio per rifugiarsi in camera sua. Lì si era
abbandonata alle lacrime, come non faceva da tempo, e come per molto
tempo non avrebbe più fatto.
Era andata negli
Stati Uniti. Per qualche tempo si era mantenuta facendo la cameriera in
una pizzeria gestita da una famiglia di italiani, nel Maine
occidentale. Il Maine le piaceva, le ricordava un po’ lrlanda,
che in fondo non avrebbe mai smesso di considerare la sua terra, con la
sua aria dal profumo di muschio, i suoi ampi spazi verdi e le colline
dal profilo dolce, e i Guerrini erano gente simpatica, solidale con lei
forse perché anche loro erano immigrati. Quando non c’era
troppo da fare ai tavoli, le permettevano di suonare il vecchio
pianoforte che altrimenti giaceva inutilizzato in un angolo del locale.
Ma la sua strada era un'altra, e nel frattempo non aveva mai smesso di
frequentare corsi di aggiornamento per terapisti. Poi aveva trovato
lavoro a Bangor, come assistente in uno studio fisioterapico privato.
Si trovava bene e imparava cose nuove, ma la paga era bassa e faticava
a pagarci l’affitto. Così, appena aveva saputo che la
clinica St. Francis cercava fisioterapisti con esperienza, si era
subito presentata, ed era stata assunta.
Il lavoro alla
St. Francis era molto diverso da quello a cui era abituata: nello
studio in cui aveva lavorato in precedenza, aveva a che fare più
che altro con sportivi di medio livello che necessitavano di
riabilitazione dopo traumi di vario tipo, e con anziani che dovevano
riprendere a camminare, di solito a causa di fratture al femore. Qui
invece, c’erano persone che avevano subito traumi anche mentali,
parecchi comatosi, una realtà del tutto diversa che
l’aveva intimorita, e insieme stimolata.
Era così
che aveva conosciuto John Smith, e a poco a poco gli si era
affezionata. A chi le chiedeva come facesse ad affezionarsi a dei
pazienti in coma, Eileen non sapeva rispondere, ma non riusciva ad
impedirselo: si affezionava immancabilmente a tutti i suoi pazienti,
perché ognuno, in un modo o nell’altro, le ricordava
Bobby. Aiutando i propri pazienti, aiutava sé stessa: aiutava
quella parte di sé che ancora si sentiva quella ragazza dai
capelli lunghissimi, impotente davanti al letto dove giaceva il suo
fratellino, davanti alle lacrime dei genitori. Ora che era adulta,
aveva studiato e ne aveva la capacità, poteva fare qualcosa,
anche se poco, per altre famiglie che si trovavano nella stessa
situazione in cui la sua si era trovata.
Psicanalisi da
quattro soldi, aveva talvolta pensato, proprio come quella notte di
tanti anni prima. Ma con lei, la psicanalisi da quattro soldi sembrava
funzionare in modo eccellente.
Forse con me
funziona, perché io stessa sono una ragazza da quattro soldi.
Una ragazza da poco, a cui è sufficiente tagliare i capelli per
tagliare con il passato, che ha bisogno di aiutare gli altri per
sentirsi importante, che ha bisogno di vedere i risultati positivi del
proprio lavoro per sentirsi gratificata.
Non dire sciocchezze!
Ma era così.
E allo stesso tempo, non lo era.
A parole, poteva
sembrare tutto facile, semplice, lineare. Invece, non lo era affatto. A
partire dal giorno dell’incidente di Bobby, e poi dopo avere
deciso per la vita invece che per la morte, aveva dovuto superare
svariati ostacoli, sia d’ordine pratico, sia d’ordine
psicologico, e aveva dovuto appellarsi a una forza d’animo di cui
la natura non l’aveva dotata.
Aveva dovuto
conquistarsela. Aveva dovuto imparare ad essere forte, a non mollare
anche quando sarebbe stato il comportamento più facile e comodo.
Ma ne era valsa
la pena, ne era sicura. Lavorando come fisioterapista era riuscita a
togliersi diverse soddisfazioni, e se quello era il suo modo di
sentirsi gratificata, importante, a posto con sé stessa, con il
mondo e con il proprio passato, quello sarebbe stato il modo in cui
avrebbe continuato a vivere, almeno fino a che non ne avesse trovato
uno migliore.
Non tutti i
pazienti morivano, con molti di essi era riuscita a fare un buon
lavoro, e con qualcuno, addirittura, aveva raggiunto risultati
insperati. E ora, un paziente in coma da quasi cinque anni che si
risveglia… anche grazie a lei. E grazie a lei, il suo corpo non
è ridotto in poltiglia. E grazie a lei, forse riprenderà
a camminare, forse persino a correre.
Se questa non è una soddisfazione…
Chissà
che tipo di persona è, questo Johnny Smith. Si accorge di averlo
parecchio idealizzato, forse a causa della giovane età, vicina
alla sua, forse a causa del bell’aspetto – è un
giovanotto alto, con i capelli color del grano e la carnagione
perfetta, tanto chiara da sembrare trasparente, che spesso hanno le
persone dai capelli biondi o rossi. Il suo viso è ovale, dai
lineamenti regolari, e i suoi occhi sono grandi, di un meraviglioso
color azzurro cielo. Peccato che Eileen li abbia sempre visti vuoti,
spenti, vitrei, aperti forzatamente quando i medici ne hanno bisogno
per visitarlo.
Ora, finalmente, li vedrà prendere vita.
Non l’ha un po’ troppo idealizzato?
Eileen si morde il labbro inferiore.
Un bell’addormentato. Un principe invece di una principessa.
Un principe:
dunque bello, buono, coraggioso, dolce, intelligente, fedele,
sensibile, eccetera, eccetera, eccetera. Non erano così, i
principi, nelle favole che le raccontava nonna Grace per addormentarla,
quando era piccola? E purtroppo Johnny non ha mai avuto alcuna
possibilità di smentire le convinzioni, forse false, che Eileen
si è fatta nel corso del tempo. Anzi, il vederlo sempre e solo
dormiente nel letto, fragile e indifeso, con il pigiama azzurro della
clinica, non ha fatto altro che accrescere nel suo inconscio la sua
convinzione che si tratti di una persona eccezionale.
Ma se invece fosse un grandissimo bastardo?
E’ di buona famiglia, magari è spocchioso, con la puzza sotto il naso.
Eileen ben
conosce di fama Vera Connery Smith, la madre di Johnny, un tempo famosa
pianista. Era stata uno dei suoi miti da ragazzina, il simbolo di una
che ce l’aveva fatta: di origine irlandese, figlia di immigrati,
gente squattrinata, era riuscita a farsi strada con successo nel mondo
della musica. Purtroppo aveva smesso di esibirsi in pubblico dopo la
nascita dell’unico figlio, e aveva iniziato a insegnare musica al
Conservatorio locale, dando al contempo lezioni private. Eileen non era
mai riuscita ad incontrarla: Vera era morta nel 1971, poche settimane
dopo il trasferimento di Johnny alla St. Francis, quando Eileen ancora
lavorava come cameriera e talvolta si esibiva al piano al “Da
Nino’s”.
Dai discorsi
delle infermiere, Eileen aveva appreso che Vera adorava l’unico
figlio, e che era stata stroncata da un infarto, che tutti credevano
senza ombra di dubbio causato dalla disperazione per lo stato in cui si
trovava il ragazzo. Crepacuore.
Povera Vera
Smith, bionda, esile ed elegante, della quale Johnny sembra la
fotografia in versione maschile. Doveva avere amato moltissimo il
figlio, ma Eileen era convinta che l’avesse anche viziato.
L’altra faccia della medaglia. Un figlio unico, di buona
famiglia, venerato dalla madre, naturalmente è viziato:
impossibile il contrario.
Herbert, il
padre, un uomo di altezza media, piuttosto tarchiato, con gli occhi
scuri, di solito vestito elegantemente, e con lo stesso odore di
tabacco del padre di Eileen, si è sempre fatto vedere poco: si
deve essere ormai rassegnato alla situazione del figlio. Eileen sa che,
dopo la morte della moglie, ha trovato un’altra compagna, un
medico di Derry, anche lei vedova, ma pare che non riesca a prendere la
decisione di sposarla. Forse aspetta che il figlio muoia e lo lasci
libero di ricominciare una nuova vita.
Nei tre anni in
cui ha lavorato alla St. Francis, Eileen ha visto diverse situazioni
simili a questa. Figlio in coma, madre morta di crepacuore, padre
rassegnato. Madre in coma, padre e figli rassegnati. Padre in coma,
madre e figlio minore rassegnati, figlio maggiore ancora speranzoso.
Giovane sposa incinta in coma, giovane marito disperato.
Ragazzino di dieci anni in coma, genitori distrutti, sorella diciassettenne che pensa al suicidio.
Situazioni diverse, ma in fondo simili.
E nessuno dei comatosi si era mai ripreso.
Non si sentiva
di biasimare Herb Smith per il suo comportamento. Anzi, quelle poche
volte che aveva scambiato qualche parola con lui, le era sembrato una
brava persona. Ma anche le brave persone si trovano in
difficoltà, quando devono affrontare il dolore. E talvolta, non
per egoismo, bensì solo per istinto di autoconservazione,
scelgono di continuare a vivere.
Poco prima,
Eileen ha appreso da Marie Michaud, l’infermiera presente al
momento del risveglio, che Johnny è coerente, senza alcun segno
apparente di ritardo mentale, e che Weizak l’ha voluto sedare in
quanto il giovane, dopo avere capito di essere stato in coma per quasi
cinque anni, si stava a suo giudizio agitando troppo.
Come se agitarsi dopo una notizia del genere non fosse normale, e per giunta del tutto lecito.
Chissà
però se Johnny è stato informato di ciò che
è successo al mondo, e al suo mondo in particolare, mentre lui
navigava nell’incoscienza: ce n’era a sufficienza per
riempire un romanzo di almeno trecento pagine e fare uscire di senno il
protagonista.
Non vorrebbe
essere lei a raccontargli tutto: Eileen non si sente brava in queste
cose, non si sente preparata. Lei è solo una fisioterapista, una
valida fisioterapista, tuttavia non una psicologa, né un medico
vero e proprio, come Sam Weizak, né un parente di Johnny –
accidenti, neanche lo conosce.
Non spetta a lei informarlo della situazione.
Sarebbe entrata,
lo avrebbe salutato, avrebbe osservato i suoi occhi finalmente aperti e
coscienti, avrebbe visto qualcuna delle sue espressioni diverse da
quella del sonno, forse un sorriso se fosse stata fortunata, poi lo
avrebbe lasciato tranquillo a digerire il suo Valium. Non gli avrebbe
accennato niente su quello che era capitato durante il suo sonno, e se
lui avesse fatto domande strane, avrebbe trovato un modo per svicolare
con eleganza. Si tratta comunque di una persona sotto l’effetto
di tranquillanti, e il dottor Weizak con le dosi ha la mano pesante:
Eileen dubita che Johnny sia in grado di parlare molto.
A Sam Weizak e Herb Smith l’arduo compito.
Eileen si decide, tira un sospiro, bussa alla porta.
Nessuna risposta. Johnny sta già dormendo.
Eileen allora apre la porta e sbircia dentro. “E’ permesso?”
Come previsto,
Johnny dorme profondamente, supino nel suo letto, le coperte rimboccate
sul torace, la testa reclinata da un lato, i capelli un po’
incolti, troppo lunghi sulla fronte, sparsi sul cuscino.
Eileen
l’ha sempre visto così, immobile, con gli occhi chiusi, ma
i suoi occhi esperti subito si accorgono che in lui c’è
qualcosa di diverso e gongola fra sé, rendendosi pienamente
conto che anche lei ha contribuito al risveglio di questo giovane.
Ecco la prova vivente di quello che ho imparato a fare. Hai visto, Bobby?
Da domani, dovrà contribuire a rimetterlo in piedi.
Ma ora, vuole
vederlo con gli occhi aperti, vuole vedere il suo viso prendere vita,
vuole parlargli. E’ il primo dei suoi pazienti che si riprende da
un coma così lungo, ne ha ogni diritto. Del resto, che altro ha
fatto se non lavorare e studiare, studiare e lavorare, da quando
è arrivata negli Stati Uniti? Il lavoro è stata tutta la
sua vita negli ultimi quattro anni, gli unici rapporti personali li ha
avuti con colleghi e pazienti, e l’unico modo per allargare la
lista è aggiungere i suoi quattro gatti, che uno alla volta ha
accolto nell’appartamento che ha preso in affitto a Oldtown.
Ha bisogno di qualche soddisfazione extra.
“John?” chiama Eileen, bussando con forza sullo stipite della porta. “Johnny!”
Lui continua a dormire.
Lei sospira. Si avvicina al letto, schiarendosi la voce e tossendo di proposito.
Inutile.
Eileen prende
fiato, si china su di lui e gli grida: “Insomma, vuoi aprire gli
occhi? Sono quasi cinque anni che dormi!”
“Mmmm…” brontola lui, aprendo gli occhi.
“Sì, bravo!” grida lei, entusiasta.
“Lasciami dormire…” bisbiglia Johnny, girandosi dall’altra parte e tirandosi le coperte sulla testa.
Eileen non
è abituata a sentirsi dire di no, almeno non dai suoi pazienti.
Lo afferra per una spalla e lo scuote: “Ah no,
bell’addormentato… aspetta un attimo!”
Johnny riapre gli occhi, che sono lucidi e assonnati, la guarda e bisbiglia: “Chi…?”
Eileen sorride
affettuosamente, siede sul letto di fianco a lui e gli prende una mano
fra le proprie. La sua bocca sarà anche troppo grande, il suo
sorriso un po’ storto, ma le illumina il viso più
qualsiasi tintura per capelli disponibile sul mercato:
“Buongiorno. Mi chiamo Eileen Magown, e sono stata la tua
terapista negli ultimi tre anni.”
“Buongiorno…”
lui tenta di sorriderle, e anche se intontiti dal tranquillante, i suoi
occhi sono davvero eccezionalmente grandi e luminosi, niente a che
vedere con gli occhi vitrei, vuoti, sebbene di un bel colore, che
Eileen ha sempre visto.
Principe o
grandissimo bastardo? No, niente di tutto questo, pensa lei. E’
solo una persona come tante, con pregi e difetti, qualità e
brutte abitudini, che a poco a poco avrebbe imparato a conoscere.
L’unica cosa certa è che si tratta di un suo paziente, che
ha bisogno del suo aiuto per rimettersi in piedi. Del suo aiuto e del
suo appoggio morale: nei suoi compiti rientra anche quello di
convincere il paziente, sostenerlo, incitarlo, anche quando è
stanco e sofferente e non ha più voglia di fare gli esercizi
prescritti. Eileen sa che per ritornare a camminare, Johnny
dovrà sottoporsi a una terapia lunga, faticosa e dolorosa. Quasi
cinque anni di coma sono tanti, un deterioramento fisico di una certa
entità è purtroppo inevitabile anche quando si viene
sottoposti alle migliori cure possibili e il corpo reagisce bene.
Durante le
terapie a lungo termine, spesso il paziente si abbatte, si deprime, si
scoraggia, e il sostegno del terapista è fondamentale.
Lei non si
sarebbe tirata indietro, non era abituata a farlo, e il fatto che lui
fosse un bel ragazzo, di poco più anziano di lei, le avrebbe
reso il compito più piacevole e avrebbe facilitato le cose.
O almeno, così sperava.
“Mi hai
fatto sudare sette camicie, sai?” scherza. Scherza sempre,
Eileen, quando si sente in imbarazzo. Perché poi si sente in
imbarazzo? Solo per un paio di occhioni color del cielo? Quanto sei
moscia, ragazza mia. “Ma da domani, io incrocerò le
braccia, e tu ti darai da fare con questo corpicino macilento.”
Lui arrossisce, e ribatte: “Vietato qualsiasi commento irriverente sulla mia magrezza.”**
Eileen prova uno
slancio di tenerezza nel vederlo arrossire, segno di impulsività
e timidezza. Un po’ di colore gli sta bene, sulle guance pallide
per il lungo ricovero. “Io terrò a freno la lingua, se tu
farai andare le gambe.”
“Ci sto”, il sorriso di lui si allarga, beffardo e dolce a un tempo.
“Così
mi piace”, replica Eileen. Il bell’addormentato, anzi
l’ex bell’addormentato, ha la battuta pronta: ci
sarà da divertirsi.
Si guardano per
un secondo, sorridendo, la mano di Johnny in quelle più piccole
di lei. Poi Eileen pronuncia le parole che aveva avuto in mente da
quando Marie le aveva comunicato la notizia del risveglio:
“Volevo dirti… bentornato fra noi, Johnny.”
“Grazie”,
fa lui, ma il suo sorriso inizia a vacillare, i suoi occhi si fanno
lucidi, e le lacrime gli traboccano dalle palpebre.
“Johnny…” mormora Eileen, allarmata.
Johnny sfila la
mano da quelle di lei e si gira dall’altra parte, con la faccia
fra le mani, singhiozzando silenziosamente. “S-scusami… io
non… io…”
Eileen gli
accarezza piano una spalla ossuta, tremante. “No, non ti
preoccupare, piangi quanto vuoi.” Poi, con tono malizioso:
“Da domani, fra terapia ed esami, non te ne lasceremo più
il tempo.”
Lui ridacchia fra le lacrime. “Dio, come devo sembrarti querulo…”
“Affatto. Vuoi che ti lasci solo?”
“No, resta, ti prego”, fa lui. Poi aggiunge: “Se non ti spiace.”
“Affatto”,
ripete lei, accennando un mezzo sorriso. Si sente così solo da
desiderare la mia compagnia, la compagnia di una perfetta sconosciuta.
Anche il pianto più doloroso non può che durare pochi minuti. Eileen lo sa bene.
Johnny si
riaddormenta poco dopo, rannicchiato in posizione semifetale, le mani
vicino al viso. Lei non ha mai smesso di accarezzargli dolcemente le
spalle e la schiena, come ad un bambino appena nato.
Credits:
*”Come sei veramente” è una canzone di Giovanni
Allevi, che ringrazio per accompagnare i miei voli di fantasia, con il
computer e con la matita, insieme a Ludovico Einaudi – e a molti,
moltissimi altri.
** Questa frase,
utilizzata però in un contesto diverso, è tratta dal
romanzo “La zona morta”, ed. Arnoldo Mondatori Editore,
maggio 1988, traduzione di A. Terzi (l’originale inglese suona
invece: “No derogatory comments about my skinny bod.”). Non
potevo cambiarla!
Disclaimer: I
personaggi di Eileen Magown, Johnny Smith, Samuel Weizak, Marie
Michaud, Herb e Vera Smith non sono di mia proprietà,
bensì appartengono a Stephen King che, con il romanzo “La
zona morta”, si è dimostrato capacissimo di scrivere una
storia senza alcun contenuto splatter o horror, ma che a mio avviso
rimane una delle sue migliori. Lo ringrazio infinitamente per avere
creato personaggi come Johnny Smith, Carrie White, Dolores Claiborne e
tutta la banda dei Perdenti di “It”, e di avermi fatto
trascorrere ore emozionanti in loro compagnia.
Tutti i
personaggi sopra citati si comportano come quelli Kinghiani, eccetto
Vera Smith: per questo personaggio, mi sono ispirata piuttosto al
telefilm “The dead zone”, tratto dallo stesso romanzo.
Se qualcuno
riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà,
mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si
offenda. In ogni caso, trovo che le idee siano di tutti, e che una
stessa idea possa venire a centinaia di persone differenti: tuttavia,
se tutte queste persone ne scrivessero una storia, sono convinta che ne
uscirebbero centinaia di storie diverse.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Nota
dell’autrice: Quando vent’anni fa ho letto per la prima
volta “La zona morta”, ho sempre pensato che il personaggio
di Eileen Magown, fisioterapista di Johnny Smith, fosse stato un
po’ troppo sottovalutato da Stephen King – al contrario,
King ha ritenuto di avere sottovalutato il cinico reporter Richard
Dees, che propone al protagonista un contratto con la rivista per la
quale lavora, finendo cacciato a calci nel sedere, e gli ha dedicato
una storia completa molti anni dopo. Inoltre, ho sempre trovato
insopportabile l’estrema solitudine in cui si trova Johnny nel
romanzo a causa dei propri poteri, un po’ per imposizione altrui,
un po’ per scelta personale. E’ un personaggio inventato,
d’accordo, ma King è riuscito a renderlo molto reale,
donandogli abitudini, ricordi, pensieri e difetti estremamente umani
(questo mi è piaciuto particolarmente, ed è ciò
che cerco di fare con tutti i miei personaggi, positivi e negativi, ora
che sono io a scrivere e disegnare), ed ho sempre sognato di rendergli
la vita un po’ più semplice.
Il mio primo pensiero è stato: “E se Sarah, fidanzata di Johnny prima dell’incidente, lo aspettasse?”
Ma non
funzionava. Troppo scontato, e completamente fuori personaggio: la
Sarah del romanzo non avrebbe mai aspettato Johnny per la bellezza di
cinque anni – infatti, un anno dopo l’incidente, si fidanza
con Walter Hazlett, studente di legge. Da come la descrive King, non
sarebbe riuscita ad attendere un eventuale risveglio di Johnny nemmeno
se fossero stati già sposati: leggendo il romanzo, mi sono
spesso chiesta come poteva un personaggio come Johnny Smith essere
innamorato perso di una donna così da poco.
Così il
mio pensiero è andato ad Eileen Magown, che ho sempre trovato
simpatica e, come già detto, sottovalutata. Così, nel
1997, ho avuto l’ispirazione per una storia a fumetti, che ho
sceneggiato e disegnato ringiovanendo Eileen – King non specifica
mai la sua età, parla di “un donnino”, e
l’avevo quindi immaginata sui 32-35 anni, un po’ più
anziana del protagonista, ventisettenne in quella parte del romanzo. La
mia idea però doveva essere alquanto banale (non è stato
lo stesso King a decretare: se pensi di avere avuto un’idea
brillantissima, attento: almeno centomila persone l’hanno avuta
prima di te, o qualcosa del genere?), in quanto i creatori del telefilm
“The dead zone”, diversi anni più tardi, hanno preso
lo stesso personaggio, trasformandolo però in un “Bruce
Lewis”, in modo da lasciare al bel Johnny (A.M. Hall ha due
occhi!… Ma non è un po’ troppo atletico per
interpretare un ex comatoso, specialmente nella prima serie?) la
possibilità di nuove storie d’amore, o di un ritorno di
fiamma con Sarah.
E infine…
in questa storia, Johnny non ha visioni, malgrado il contatto fisico
con Eileen, perché non mi pareva di averne bisogno ai fini di
ciò che volevo trasmettere. Volevo raccontare una storia
normale, di maturazione, senza elementi sci-fi che a mio giudizio
sarebbero suonati estranei e avrebbero guastato l’atmosfera.
Spero di esserci riuscita.
|