Era una fredda mattinata di
primavera, quando giunsi di fronte ai cancelli dell’Accademia degli Eraser di
Kronos. Tutto ciò che mi fu detto era che in quel luogo si sarebbe
concretizzato il mio scopo di vita.
L’auto nera che mi aveva
accompagnato ripartì subito dopo aver scaricato i pochi bagagli che avevo. Con
quella macchina se ne andavano nove anni di vita che non avrei più ricordato;
ancora prima che imparassi a parlare mi venne detto che “da grande” avrei fatto
l’assassino per un’organizzazione governativa…certo mai avrei pensato che alla
fine sarei stato perfino orgoglioso di quell’appellativo…all’epoca ero molto
dubbioso sulla scelta della mia famiglia.
Ma ora le persone, prime fra
tutte i miei genitori, i luoghi e le esperienze legate a quei primi nove anni
di vita non sono altro che un’ombra nella memoria.
Non conservo più alcun ricordo
precedente all’ingresso all’Accademia…e in ogni caso sono dettagli irrilevanti.
La mia vita ora è quella di
assassino professionista agli ordini di Kronos.
Gli anni trascorsi all’Accademia
furono davvero intensi; qui imparai l’arte della guerra, le strategie e lo
spirito marziale…ma soprattutto imparai a vivere da uomo e da soldato.
A quattordici anni, cinque dopo
il mio ingresso all’Accademia e quando diventai ufficialmente un eraser, io ero
già un adulto.
All’ufficio del direttore mi
vennero consegnate la divisa e le prime istruzioni, prima fra tutte la mia
nuova sistemazione: camera n.8.
Mi inoltrai così in quella
maestosa scuola neoclassica, dalle ampie finestre e i corridoi lastricati di
marmo bianco, che rifletteva la mia immagine come uno specchio…e mi persi.
Eh sì…non avevo minimamente idea
di dove fosse la mia nuova camera e mi dimenticai di chiederlo, così vagabondai
per quei grandi ambienti alla ricerca della mia stanza.
Chiesi a diverse persone la
strada ma tutte loro, per la maggioranza studenti più grandi, mi guardavano con
aria preoccupata e nessuno era apparentemente in grado di aiutarmi. Alla fine
incontrai un ragazzo del secondo anno che mi spiegò la strada; preoccupato
disse però che dovevo stare attento perché il ragazzo che già occupava la
camera n.8 non godeva di buona reputazione.
Scoperto anche il motivo per cui
nessuno là dentro volva avere a che fare con la “famigerata camera n.8”,
raggiunsi finalmente il mio nuovo alloggio.
Bussai e da dentro una voce mi
accordò l’entrata.
Entrai così in un’ampia e
luminosa stanza dal mobilio antico, ampie tende alle grandi finestre spalancate
che ondulavano al vento e cornici di stucco alle pareti.
-Salve…-
Eccolo lì, il temuto ospitante
della stanza 8…lunghi capelli ramati scomposti che ricadevano sul viso e due
schegge di cielo che brillavano dalla curiosità.
Questo fu il nostro primo
incontro…io impacchettato in un completo nero, scaricato davanti ai cancelli
con le valige e l’aspettativa di diventare un assassino, e tu con logori jeans
strappati e la camicia della divisa svogliatamente sbottonata, che mi davi il
benvenuto in quella che per cinque anni sarebbe stata la mia nuova vita.
Ti presentasti come avrebbe fatto
un qualunque altro studente di una normale scuola, dimenticando che quella era
la fucina di giustizieri e non di menti scientifiche.
-Io sono Baldorias Saber
Fangini…chiamami pure Baldor-
Fangini…rampollo della dinastia
di militari più longeva e famosa del mondo; tra i suoi avi si contano grandi
condottieri e geniali generali…cose che venivano perfino studiate!…ma dopo
tanti successi, la dinastia Fangini aveva visto minacciati il proprio nome e la
propria fama da un discendente troppo irruente per poter essere inserito in un
esercito normale. L’unica soluzione possibile era Kronos, organizzazione
planetaria che reclutava ragazzi per farne soldati sotto i propri ordini.
Ma tu eri un puledro selvaggio
che sì, era stato catturato e venduto al miglior offerente…ma non ti eri
lasciato domare…e quegli occhi da falco che mi scrutavano dall’alto in basso,
compresi, erano ben distanti dal doversi abbassare all’altrui volontà.
“Io sono Kranz Murdock” dissi, e
le nostre mani si strinsero sigillando così quel contratto che ci lega ancora
oggi, diciassette anni dopo.
Così iniziò la mia vita
all’Accademia degli Eraser e, mentre tutti gli altri cadetti si stupivano del
fatto che non mi avessi ancora picchiato e che io stoicamente resistevo nella
tana del leone, ebbe anche inizio la lunga convivenza con l’erede dei Fangini.
Fu una convivenza strana sotto
molti punti di vista…la differenza tra noi era talmente palese da essere
ridicola. Eppure quella stanza n.8 divenne il mio rifugio e il regno che
dividevamo.
-Questa camera da oggi sarà per
te come una casa…ed io sarò la tua famiglia, come tu la mia, fino alla fine
degli studi-
Ricordo ancora chiaramente queste
tue parole. Mai nulla sarebbe stato più esatto…
Tempo dopo venni a sapere il
motivo per cui, sebbene più grande di un anno, frequentavi il mio stesso corso
di addestramento; inizialmente credevo fosse per una carenza in qualche
disciplina, ma in realtà era stato solo un patetico tentativo degli istruttori
di cercare di mettere il morso e la sella da una bestia decisamente fuori dal
loro controllo.
Passavano i mesi e la vita
all’Accademia era sempre più impegnativa: lezioni teoriche ed estenuanti
allenamenti fisici erano il nostro pane quotidiano.
Alla sera ero talmente stanco che
faticavo ad arrivare alla nostra camera. In quei momenti ti invidiavo da
morire…non eri mai stanco, nessuna prova fisica era troppo impegnativa per le
tue inesauribili energie.
Allora mi dicevo che era “solo”
perché eri molto più alto e più robusto…oggi so che era l’inestinguibile fuoco
che ti brucia dentro e che esplodeva nelle esercitazioni di lotta, nella corsa
e negli esercizi di palestra.
Ma contrariamente ad ogni
aspettativa, quando rimettevi piede a “casa” ti tramutavi…non ho mai conosciuto
nessuno più disordinato, svogliato e casinista di te.
La camera n.8 non era nemmeno
contemplata nei piani delle ispezioni regolari che gli istruttori facevano
negli alloggi…ed io non ricordo quale miracolo mi abbia salvato dal disperarmi
di fronte al quotidiano spargimento di abiti, libri, scarpe e di qualunque
altra cosa ci fosse nel tuo armadio.
-Dopo rimetto a posto!-
Era la tua frase preferita…e
tanto sapevamo entrambi che, esasperato dalla confusione che regnava
imperturbata nella camera, mi sarei messo io a rimettere le tue cose a posto,
consapevole che il giorno dopo sarebbe stato tutto come prima.
E del resto, se inizialmente ero
convinto di non dover fare molti sforzi per raggiungere una posizione di
preferenza presso gli istruttori, alla tua conoscenza dovetti ricredermi…la
nostra scheda personale era piena di note negative…”Fangini e Murdock provocano
un esplosione nell’aula di scienze”, “Fangini e Murdock hanno sfasciato la
cattedra”, “Fangini e Murdock hanno bruciato con un lanciafiamme mezza
aula”…almeno il tuo nome era prima del mio.
Passammo in questo modo cinque
anni, un periodo in cui si fece strada anche la concreta possibilità di
accedere al grado di eraser ufficiali e che per me rappresentava il
raggiungimento della meta…per te solo una tappa verso la scalata finale.
Lo dicevano tutti…”Fangini
diventerà un Numbers…ha le qualità per diventarlo”, “Kronos ha bisogno di gente
come lui…”.
A te però non importava.
Entrambi eravamo entrati al
servizio di Kronos per esplicita volontà delle nostre famiglie; ma mentre io
tenevo fede alla richiesta che mi era stata fatta, in nome dello spirito
accondiscendente che ancora oggi mi caratterizza, tu seguivi le tue
inclinazioni naturali.
Io sono diventato un assassino…tu
lo sei nato.
Per questo il tuo futuro come
Numbers non è stato mai messo in discussione…la guerra è il tuo mestiere e la
tua vocazione.
Ma in quel futuro io non
esistevo…non ci stavo.
Negli anni all’Accademia, il
nostro rapporto si è evoluto da quello di dipendenza cadetto-novizio, a quello
paritario di compagni di stanza ed amici…
Ormai non concepivo più un
ritorno ad una stanza vuota (ed ordinata)…quel luogo era speciale perché c’eri
tu.
Il nostro destino però era
diverso.
Dopo cinque lunghi ed intensi
anni di addestramento ricevemmo il diploma di eraser: io per merito, tu per rassegnazione
degli istruttori.
Ricordo ancora che nelle pause
durante il discorso del direttore, l’unico rumore che si sentiva era la tua
incessante masticazione di gomme…non credo che alcuno si sia mai permesso
tanto, ma la gioia degli istruttori per la fine del “Ciclone Baldorias” era
tale, che nessuno vietò quell’irrispettoso atto di insubordinazione.
Sì…perché oltre ad essere
irruente e selvaggio, eri anche pericolosamente insofferente agli ordini e alle
autorità. Vivevi come più ti aggradava (cosa che fai tutt’ora) e mai hai
permesso ad alcuno di avere la soddisfazione di un tuo compito “sì, signore”.
Per questo eri temuto dai
compagni…per questo eri malvisto dagli istruttori…e per questo ti ammiravo.
Al termine della cerimonia di
diploma i nostri destini si divisero.
Venni trasferito in una lontana
località a sud, dove iniziare la mia attiva formazione da eraser; persi le tue
notizie un’ora dopo la cerimonia, quando salisti su un’auto nera che, si
vociferava, ti avrebbe condotto direttamente al Quartier Generale di Kronos per
l’investitura a Numbers.
I due anni da eraser furono i più
tristi che ricordi…
Uccidevo senza pensare, perché me
lo ordinavano, e dopo le missioni mi rinchiudevo in un appartamento buio e
terribilmente silenzioso. Così, molte volte, mi trovai a rimpiangere i giorni
dell’Accademia, quando la mia camera aveva costantemente l’aria di essere stata
appena svaligiata, quando venivo ripreso ingiustamente alle lezioni di teoria,
perché non riuscivo a mettere un freno al fiume di cavolate che mi veniva
riversato addosso dal mio vicino di banco dai capelli ramati, e quando perdevo
il sonno per un continuo blaterare insensato.
In quel periodo imparai a vivere
da solo e mi preparai per trascorrervi tutta la vita.
Completamente inattesa fu quindi
la convocazione ufficiale al centro di comando di Kronos.
Avevo fatto colpo, si diceva…ed
ormai tutti gli eraser della zona mi consideravano già un superiore, nonostante
i miei appena sedici anni.
Era piena estate quando fui
ricevuto dal Consiglio e mi venne annunciato che, in merito alle mie eccellenti
doti e alle fortunate missioni che avevo portato a termine, sarei diventato uno
dei dirigenti…un Numbers.
Era già tutto deciso e non potei
dire di no…
Mi tatuarono il n.4 (primo posto
disponibile nella numerazione dei Numbers) sul fianco destro e mi consegnarono
la divisa e la mia nuova arma: un pugnale a vibrazione, dalla lama argentea e
l’elsa intarsiata.
Quel coltello si chiamava “Mars”
e, ero convinto, sarebbe diventato il mio solo compagno.
Numbers o eraser, la mia
situazione era pressoché immutata; e più di un mese dopo dal mio trasferimento
nel nuovo appartamento, nei pressi del Quartier Generale, gli scatoloni con le
mie cose erano ancora tra i piedi.
Inconsciamente sapevo che non era
finita lì…
Dopo un paio di missioni
solitarie, venni chiamato dal Consiglio per un incarico più grosso e che
necessitava di due professionisti; per quel lavoro avrei così avuto un partner.
Certo non pensavo di ritrovarti
proprio in quella circostanza…
Entrai nell’ufficio del
vice-comandante Berze Rochefor senza curarmi troppo di chi (lo avevo visto
attraverso i vetri smerigliati della porta) era già in attesa all’interno della
stanza.
-Salve…-
Solita formula…solito saluto…e la
sorpresa per quel rincontro venne presto sostituita dalla muta felicità.
In quei due anni di distacco, la
differenza di altezza tra noi si era notevolmente ridotta, entrambi eravamo
avviati verso la maturità fisica…ma quei due frammenti azzurri continuavano a
riportarmi indietro negli anni perché, immutati e potenti, rappresentavano per
me la concretizzazione di tanti desideri.
-Ce l’hai fatta pure tu, eh?-
Non dicesti altro, quasi ci
fossimo separati solo per qualche ora, ed io scorsi il tuo tatuaggio dell’8
(seppi in seguito, numero che avevi personalmente richiesto), nella parte
posteriore del collo…
in quel momento capì che non
avevi mai dimenticato gli anni dell’Accademia…e con essi, avevi ricordato che
me.
Ci venne affidata la missione ed
entrambi partimmo per compiere il nostro dovere. A sera eravamo già rientrati
per missione conclusa.
Quella sera stessa decidemmo di
andare a “festeggiare” la nostra riunione; dopo una cena al ristorante, andammo
a bere qualcosa in un locale.
Non hai mai ratto l’alcool, e lo
sapevi bene, e forse per quello esagerasti e dovetti portarti a casa mia di
peso.
Era tutta un’abile mossa…non so
però se per intercessione dell’alcool o per tua precisa volontà.
Ti sdraiai sul divano, lo ricordo
come fosse stato ieri, ed immancabilmente continuavi i tuoi monologhi
insensati. Nel mezzo di essi però, quando ti dissi che per quella notte potevi
restare a dormire da me, dicesti “non voglio più essere solo”.
Poi ti addormentasti
profondamente, ignaro del fatto che quelle poche, apparentemente insensate
parole, mi avevano tenuto sveglio fino a mattina.
La mattina dopo facemmo colazione
per la prima volta insieme…ebbi il privilegio di poterti vedere senza l’aura
formale di Numbers e per la prima volta mi accorsi di quando potevi essere
umano.
Probabilmente interessati dalla
nostra efficienza in coppia, il Consiglio ci affidò molti altri incarichi da
svolgere insieme; i giorni in cui non avevamo missioni li trascorrevamo ad
allenarci alle training rooms.
La guerra era diventato il nostro
lavoro e lo svolgevamo bene.
Per ricambiare di una notte
trascorsa sul mio divano, mi invitasti una domenica mattina a casa tua.
Quell’appartamento era la
versione ampliata ed amplificata della nostra stanza dell’Accademia…vi regnava
un disordine inumano e tutto faceva pensare che venisse usata più come enorme
ripostiglio che come abitazione.
Il mio buon intuito non sbagliò
nemmeno quella volta, quando decisi di presentarmi con gli ingredienti per
preparare un pasto modesto ma decente; nel frigo deserto c’erano solo delle
bibite e nella credenza solo schifezze grondanti di zucchero.
Come avevo previsto dovetti
arrangiarmi a fare tutto…se dovessi indicare la caratteristiche di un imbranato
mi basterebbe fare il tuo nome.
Ovviamente anche le mie capacità
erano limitate e il riso risultò un po’ troppo cotto mentre le polpette di
carne erano carenti di sale; questi errori però non ti impedirono di divorare
tutto e di farmi pure i complimenti per il pasto.
Così, alla tua esclamazione
distratta “Magari avessi qui uno come te, che cucina e sistema la casa!”, fu
assolutamente naturale la mia immediata risposta “va bene…”.
Quella sera stessa, quando
rientrai al mio anonimo appartamento, rifeci quel poco di bagagli che avevo
disfatto in quei mesi.
Il giorno dopo mi trasferì nel
tuo enorme attico disordinato.
Quella casa, all’ultimo piano di
un grande condominio, divenne per noi la stessa cosa che rappresentò la camera
n.8 negli anni dell’Accademia: un regno personale, un territorio recintato dove
entrambi potevamo essere ciò che volevamo.
In questo luogo non avevamo regole
e non avevamo limiti…era il nostro eden.
E questo dorato isolamento
perdura tutt’ora e mai nessuno ha provato a spodestarci dai nostri troni.
Io ovviamente ero l’addetto alla
cucina (anche se erano più i pasti fatti fuori di quelli in casa) e al mantenimento
di un decoroso ordine.
Il mio potere decisionale era
pressoché illimitato e potevo decidere sia come disporre i mobili sia come
gestire entrambi i nostri stipendi…poi però dovevo rispettare le assurde usanze
che da sempre ti hanno contraddistinto; tutte le porte, sebbene munite di
specifica chiave, dovevano essere sempre aperte in qualsiasi situazione, per
ubbidire al quel tuo principio di non trovarti mai una porta chiusa, e i pasti
veloci che consumavamo a casa si sarebbero tenuti sul divano davanti alla
televisione, in uno spartano modus vivendi di cui sei il sommo adoratore.
Sono convinto che chiunque
sarebbe a dir poco impazzito con un convivente rumoroso ed ingombrante come
te…io però non consideravo nemmeno l’idea di lasciare quel luogo.
Se mi si chiede cos’è una casa,
io rispondo che è quell’attico.
Nessuno dei due aveva più avuto
contatti con la propria famiglia; entrambi avevamo volutamente dimenticato ed
entrambi eravamo stati dimenticati.
Ma per ciò che mi riguarda, la
mia famiglia è composta da solo due persone…e nessun’altro avrei voluto dentro.
Il nostro isolamento privato si
tradusse anche in un isolamento volutamente ricercato anche presso gli altri
Numbers.
Come all’Accademia, tu non
piacevi a loro e loro non piacevano a te; hai portato avanti con testardaggine
quel tuo spirito selvaggio e a poco servivano i rimproveri del Consiglio per
migliorare una condotta inesistente.
Ben presto dovettero rendersi
conto che un marchio non era bastato.
Ma a Kronos non serviva
controllarti…bastava scatenarti.
E così nacque la fama di
“distruttore di città” che rappresenta il tuo vanto e il tuo epiteto.
La cosa, non serve dirlo,
coinvolse anche me e così ci trovammo entrambi impiegati per le missioni più
distruttive e meno diplomatiche.
Ti diverti sempre molto, forte di
una superiorità sui nemici sempre schiacciante. La tua guerra è rumorosa,
polverosa e dinamica; non ci sono appostamenti, niente tattiche o piani…solo
l’azione pura e semplice.
La tua guerra ti ha sempre
assomigliato così tanto…
I nostri ripetuti successi ci
garantirono discreto successo anche presso gli altri Numbers; ma il tuo
carattere ti impone di crearti una maschera di boria e presunzione spesso
fastidiosa, che però non mi tocca mai, nemmeno in pubblico...la nostra vita va
ben oltre quella facciata che dispensiamo.
Credo che nessuno mi crederebbe
se dicessi quando può essere comica la tua immagine al risveglio, mentre
arranchi assonnato dalla camera alla cucina, con i capelli di rame sparati in
tutte le direzioni possibili.
Nessuno crederebbe che la tua
lingua possa formulare anche complimenti o lodi, verso chi è in grado di fare
cose per le quali riconosci senza problemi la tua incapacità.
Chi infine potrebbe credermi se
giurassi che le notti di pioggia diventi pure silenzioso e malinconico, quando
guardi piangere un cielo scuro mentre nel cielo dei tuoi occhi risplende sempre
il sole.
Quel cielo che ho sempre
rincorso, che ho sempre cercato e che so essere ancora là, solo per me, anche
se non posso più ammirarlo.
Vidi troppo tardi la scheggia di
metallo venirmi addosso…mi scansai in tempo perché non mi si conficcasse in
testa, ma non abbastanza per impedire che mi portasse via la vista.
Da quel giorno la vita è
diventata nera…e le porte di quel cielo, che per anni avevo ammirato attraverso
le finestre dei tuoi occhi, si sono chiuse.
Dall’istante in cui ripresi
coscienza all’ospedale al momento del ritorno a casa e all’inizio di una nuova
vita, tu eri là.
Non so se ti era stato dato un
periodo di pausa per assistermi o se lo avevi richiesto apposta…ma l’unica cosa
che riuscivo sempre a percepire era la tua presenza.
Mi sei rimasto accanto fino a
quando non sono riuscito a ritornare quello di un tempo; non mi hai mai
lasciato.
Per mesi ti sei incolpato della
mia disgrazia: mi chiedevi di perdonarti…ma io non avevo nulla di cui
incolparti; mi chiedevi di provarti un po’ di rancore per non essere stato in
grado di evitarlo…ma io riuscivo soltanto a volerti più bene; ed infine mi
dicevi che avresti preferito essere tu al mio posto…mentre io ringraziavo Dio
per non aver calato le tenebre sull’unico cielo che amavo.
Quando finalmente potei tornare a
casa, impiegai diverso tempo ad imparare a muovermi senza vedere, anche in quel
luogo di cui conoscevo ogni minimo particolare. I primi tempi, quando ancora
qualche volta inciampavo nei tappeti o nei mobili, accorrevi preoccupato, quasi
fossi stato un bambino che muoveva i suoi primi passi…mi chiedevi mille volte
se stavo bene, se mi ero fatto male da qualche parte; ed io ridevo di quella
tua inusuale ansia materna nei miei confronti…
Sei sempre stato una persona
meravigliosa.
In quel periodo ti sottoponesti a
ritmi folli, diviso tra le missioni che ti venivano affidate e il mio recupero
di una perfetta condizione fisica, di cui ti sei interamente fatto carico.
Volevo continuare a combattere,
volevo essere ancora un Numbers…o più semplicemente volevo rientrare in una
fetta della tua giornata che da invalido mi sarebbe stata preclusa.
Man mano che passavano i mesi,
gli altri sensi si affinarono e gradualmente riuscì a riprendere gli
allenamenti e le missioni.
Prima del mio effettivo ritorno
come Numbers, dopo una lunga convalescenza trascorsa sempre tra casa e
palestra, mi venne recapitato un casco speciale, che amplificava i suoni e mi
permetteva di coprire gli occhi ormai inutilizzabili.
In quel modo nascondevo anche la
cicatrice che mi attraversava entrambe le palpebre e il naso…
Quel casco è diventato la mia
corazza.
Pochi giorni dopo la consegna di
quell’elmo, installasti una doppia porta blindata all’ingresso di casa. Il
nostro castello ora è una fortezza inespugnabile…ancora più riservata e più
personale.
-Quella cicatrice…è solo mia-
Dopo l’incidente sei diventato
ancora più geloso…di me, della nostra casa e di tutto ciò che insieme abbiamo
condiviso.
Ho fatto una promessa, mai
togliere il casco in presenza di altri, che rispetto come un voto religioso.
Il liberarmi della mia armatura
solo in tua presenza è diventato un principio di vita più importante di quello
di eliminare i nemici di Kronos.
Grazie ad un addestramento
specifico riuscì nel girò di due anni a riprendere il ruolo di n.4; in questo
modo sono riuscito a stare al tuo passo e camminarti a fianco.
Ti persi anni fa…non avevo
intenzione di farlo nuovamente.
Entrambi abbiamo vissuto anni di
solitudine e abbiamo fatto di tutto per farvi fronte, cercando in vane
distrazioni di morte la soluzione per sfuggire dalla morsa che minacciava di
ucciderci con il suo grigiore e il suo silenzio.
La medicina l’abbiamo trovata
solo sommando le nostre individualità e creando qualcosa di completamente
nuovo, concretizzata con una convivenza strana e movimentata, fatta di
incolmabili differenze.
Come incolmabile è ormai la
differenza tra i tuoi due volti…se non ti conoscessi così bene, direi che
diventi un altro…
Baldor, il n.8 di Kronos,
distruttore di città, impassibile giustiziere e maniaco della guerra; e Baldor,
il MIO Baldor, svogliato, pigro, distratto e curioso come un cucciolo…
Il Numbers prepotente, arrogante
e presuntuoso, impietoso e crudele assassino che uccide a comando; e il ragazzo
spensierato, energico, vivace e dominato da un fuoco di vita inesauribile, che
trascorre le domeniche a ciondolare, camminando per casa e piedi nudi e
masticando gomme.
E ciò che più mi rende felice è
che sono stato scelto proprio io, unico che ti abbia dato una possibilità di
riscatto in un mondo che ti aveva fatto nascere per stroncare vite, a poter
godere di questa tua prospettiva umana; la vita per te si divide in due
categorie: gli altri, a cui dare al massimo indifferenza…ed io, destinatario
privilegiato sul cui riversare la tue manifestazioni emotive.
Tra noi non ci sono parole
precise, non ci sono chiarimenti sulla nostra comune condizione; tutto ciò che
proviamo filtra silenzioso tra le banali conversazioni a tavola, serpeggia tra
gli sguardi e danza tra i non-detti.
Cosa io sia per te, non lo hai
mai detto a parole…ma puntuale, ogni mattina, arriva silenzioso quel lieve
bacio sul collo…tuo modo tutto personale per dirmi che sei sveglio, che ora
connetti e che mi ringrazi per averti lasciato dormire mentre io mi alzavo per
preparare la colazione.
Tutto questo al sicuro, protetti
dalle quattro mura che abbiamo eretto come barriera contro le intemperie
esterne e contro il giudizio del mondo intero.
Quindi si esce e si va ad
allenarsi o si prepara una nuova missione.
È questa la nostra vita…e ne
andiamo fieri.
E alla fine, eccoli là, gli
Apostoli delle Stelle, nome pretenzioso il loro, che vorrebbero attuare una
rivoluzione ed abbattere Kronos…Kronos, che ha già schierato i suoi Numbers per
combatterli e che ha dovuto pateticamente ritirarsi lasciando sul campo uno dei
veterani, il n.11, Beluga J. Heard, del Trio Cerbero.
-Sembra che ci siano degli
Apostoli in fuga a Stalk Town-
Lo so ciò che vuoi dirmi, con
questa frase apparentemente disinteressata; so che fremi dal desiderio di
combattere…lo so, lo sento.
Non ho più bisogno di occhi per
capire le tue intenzioni; le sensazioni che provi, me le sento dentro, chiare e
vibranti.
“Va bene” dico ogni volta, come
se mi volessi dire di andare ma non ne avessi il coraggio per rispetto verso la
mia opinione, e necessitassi di una rassicurazione che va tutto bene e che sono
d’accordo con te…ma in realtà dovrei dire piuttosto “vai dove vuoi, io ti
seguirò sempre”.
Così ora siamo in viaggio verso
Stalk Town con un piccolo manipolo di eraser minori. Non siamo inviati da
ordini, ma solo dalla nostra volontà.
Sono dieci anni che le nostre
guerre sono SOLO nostre…
È il nostro, privato, strano,
modo per sentirci vivi…è la nostra regola di vita.
Questa, è la regola di vita di
uno stallone selvaggio di nome Baldorias Saber Fangini.