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JEANXJAVERT
PREMESSA:
Questa
storia è ispirata dal film "Les Miserables" uscito nel 2012,
e
non dal libro di Hugo che non ho (PER ORA) ancora letto. Quindi mi
scuso per eventuali imprecisioni.
Fra queste imprecisioni: Valjean qui vive ancora due mesi dopo il matrimonio di Cosette e Marius, mentre nel libro e nel film muore il giorno stesso della cerimonia. Licenza poetica, non me ne vogliate. Poi ho
"eliminato" l'incontro di Javert e Valjean quando questi e Marius
escono dalle fogne, perché avrebbe complicato la storia - e
poi
oh, è una fanfiction, non un rifacimento del film.
MI
SCUSO CON VICTOR HUGO PER LE COSE IGNOMINIOSE CHE FACCIO FARE AI SUOI
PERSONAGGI!
Solitudine.
La giornata è luminosa, c'è aria di festa. Il
matrimonio, nonostante tutto, è andato bene.
Nonostante tutto; alla fine di tutto.
Penso ancora al matrimonio come se si trattasse di ieri, mentre invece
ha avuto luogo due mesi fa. Sto invecchiando: lo sento in ogni
movimento, in ogni legamento, in ogni cellula, in ogni battito sempre
più fioco del mio cuore. Il mio corpo non
è più quello di una volta, le mie membra non sono
più così forti.
Mi alzo stancamente dalla poltrona. L'appartamento di Rue Plumet
è
grigio e sbiadito senza il sorriso di Cosette, e i muri raccontano di
quella paura mista a speranza che per anni ha accompagnato ogni mio
giorno - e si è insidiata nei miei sogni ogni notte.
Sono passati due mesi dal matrimonio e un anno da quella notte.
Do you hear the people sing?
Singing a song of angry men?
It is the music of a people
Who will not be slaves
again!
When the beating of your
heart
Echoes the beating of the
drums
There is a life about to
start
When tomorrow comes!
Quella canzone echeggia ancora nelle mie orecchie stanche. Anche io ero
là a cantarla, un anno fa. La paura, le barricate, i
cannoni...
la Rivoluzione. Nonostante i miei sensi stiano pian piano svanendo, la
memoria ancora non mi abbandona.
Il Sole fuori dalla finestra mi abbaglia. Un anno fa era il 6 giugno
1832; un anno fa l'ispettore Javert, mio nemico di una vita, si gettava
nella Senna.
Sorrido, pensando all'ironia della situazione: non ho mai saputo il suo
nome completo, sebbene io sia stato, in un certo senso, il suo unico
compagno di vita. Nemico, opposto, metà. Tutto e niente.
Per me tu non avevi un nome e un cognome: eri semplicemente Javert. Ma
ora, ora è troppo tardi per chiamarti in qualsiasi modo.
Troppo tardi.
"Il mio nome è Jean Valjean!".
"E io sono Javert".
Così tutto iniziò. Faceva caldo, quel giorno, nel
cantiere navale. Dopo vent'anni di lavori forzati nessuno di noi
condannati sapeva più cosa fossero la fatica e il dolore.
Non
conoscevamo più la paura, non ricordavamo cosa fosse un
sorriso.
Volevamo solo la libertà da quella galera, l'agognavamo con
ogni
particella delle nostre anime.
Se io non ti avessi rivelato il mio
nome, sarei rimasto semplicemente 24601; se tu non mi avessi rivelato
il tuo, mi sarei ricordato di te solo come quell'assistente di guardia
che mi diede la libertà di parola. Ma forse entrambi capimmo
subito solo con uno sguardo che, nomi o non nomi, la traccia che l'uno
avrebbe lasciato sull'altro sarebbe stata indelebile.
"E io sono Javert. Non dimenticarti il mio nome. Non dimenticarti di
me, 24601".
Certo che no. Come avrei potuto? Una faccia simile, come ti avrei
più volte ripetuto, non si dimentica. Non si dimenticano la
fermezza e l'autorità, non
si dimenticano gli occhi azzurri. Né quella figura in
uniforme,
che spiccava elegante e severa in mezzo a quel branco di poveri
diavoli, tra cui me. Ma questo mai e poi mai, nemmeno
sotto tortura, l'avrei ammesso.
Più tardi avrei saputo che nemmeno quell'assistente di
guardia si sarebbe dimenticato di me. Avrei compreso che tutte volte in
cui successivamente mi avresti chiamato 24601, in cuor tuo avresti
pensato 'Jean Valjean'.
E 'Jean Valjean' fu ciò che pensasti quando mi vedesti
sollevare quel carro.
Ero
fuggito dalla mia vita precedente, arrivando ad ingannare persino me
stesso. Avevo cambiato nome e aspetto, avevo dissolto nel nulla le
tracce di Jean Valjean. Ero un altro uomo, ormai,
un uomo caritatevole e amato dai propri concittadini.
Il nostro secondo incontro avvenne nel giorno in cui fui eletto
sindaco. Era una serena mattina di primavera, che pensavo avrebbe
definitivamente segnato l'inizio della mia nuova vita. Mi sentivo un
uomo completo mentre, davanti all'intero popolo che mi acclamava, ero
chiamato a stringere la mano alle principali autorità
economiche
e militari dellà città. Mi vennero presentati
aristocratici, imprenditori, capitani della guardia e capi di polizia.
Ognuno mi sorrideva e salutava come "signor sindaco".
Quando arrivai a stringere la mano all'ultimo uomo - il viso era
nascosto dall'ombra del cappello -, sentivo ormai di aver rimediato a
tutti gli errori commessi in passato. Finalmente, avrei potuto passare
il resto della mia vita in pace, compiendo atti di bene verso un popolo
bisognoso.
Ma di notte arrivano le
tigri, con le
loro voci morbide quanto tuoni, e infrangono le tue speranze; e
tramutano i tuoi sogni in vergogna.
"Molto piacere Monsieur Madeleine, signor sindaco. Io sono
l'ispettore Javert della polizia".
Tuttora non saprei descrivere il salto che fece il mio cuore. Fu come
un fulmine, in un attimo vidi il mondo rovesciarsi sotto i miei piedi e
il mio stomaco si strinse in una morsa. Osservai con gli occhi sbarrati
la tua mano tesa davanti a me, mentre tutt'intorno il vociare della
folla mi faceva girare la testa. In un breve attimo di lucidità
capii qual era la cosa giusta da fare: fingere.
Te la strinsi sorridendo, guardandoti negli occhi - quegli occhi di
ghiaccio non erano affatto cambiati dall'ultima volta. Intravidi un
sorriso.
"Mi creda, signor ispettore: il piacere è tutto mio".
Ricordo il calore di quella stretta di mano, quel primo contatto fisico
che rimase, eterno, scolpito da qualche parte in me.
Da allora, per anni, mi limitai ad osservarti da lontano, cercando di
non covare rancore. Anche se tu eri stato una guardia nella prigione
che mi aveva torturato per un ventennio - e per cosa?, per un pezzo di
pane! -, io mi ero ripromesso che avrei cambiato vita. I rapporti fra
noi due avrebbero dovuto limitarsi a cortesi formalità,
senza
pensare al passato.
Questo, almeno, finché tu non mi avessi riconosciuto.
Ma quando salvai Monsieur Fauchelevent dall'essere ucciso dal proprio
carro, la verità venne a galla. Una buona azione pagata a
caro
prezzo.
"Ho conosciuto un solo uomo nella mia vita dotato di simile forza", mi
dicesti, lo sguardo freddo fisso nel mio e la fronte increspata. Il mio
corpo fu percorso da un brivido che nascosi, rispondendoti che non si
trattava certamente di me: ancora una volta, una faccia come la tua non
si dimentica. Un viso simile è impossibile da dimenticare.
Cominciai a sognarti. Ogni notte. Scoprivi la mia identità,
mi
inseguivi come uno spettro. Nei miei sogni, le fiaccole ai muri del
carcere di Tolone illuminavano i tuoi occhi di ghiaccio nella penombra,
in una scintilla di rabbia e disprezzo.
Stavi cominciando ad ossessionarmi, Javert.
Poi, arrivò quella notte.
Il gelo dell'inverno ci avvolgeva quando, in un ultimo sacrificio verso
il prossimo, rivelai la mia identità in quell'aula di
tribunale.
Lo urlai al mondo:
"Chi sono io? 24601!".
I giudici non mi credettero, ma tu sì. Tu ormai sapevi, il
tuo fiuto di poliziotto non ti aveva ingannato.
Mi trovasti al capezzale di Fantine, la sfuggente giovane
donna
dai mille sogni infranti. Era morta, e una parte della colpa incombeva
su di me come una spada di Damocle. Ma avrei salvato sua figlia dal
mondo di lupi in cui era stata abbandonata, e avrei - forse -
completato la mia catarsi.
Se solo non fossi
arrivato tu. Se
solo tu non fossi mai arrivato. Se solo tu non fossi stato
così
stupido da essere ossessionato da me, e se solo io non fossi stato
altrettanto stupido. Se solo non ci fossimo mai incontrati. Se solo, se
solo, se solo.
Se solo tu, ora, non mi mancassi così terribilmente.
Quando ti vidi entrare nella stanza d'ospedale, nella mia testa
infuriava un temporale. Non avevo certo la minima idea di quello che
sarebbe successo dopo.
"Valjean, finalmente ci incontriamo". Eri tu, da solo, l'uniforme
coperta da un lungo cappotto blu scuro. I tuoi occhi risplendevano come
nei miei sogni, e il sorriso sghembo sul tuo volto mi faceva paura. "Signor sindaco... come
no".
"Ascoltami, Javert", risposi alzandomi. Non te l'avrei mai rivelato, ma
il mio corpo, anche se molto più forte del tuo, stava
tremando
come un fuscello. "Prima che tu dica un'altra parola; prima di
incatenarmi di nuovo come uno schiavo, sappi che ho un dovere da
compiere. Questa donna ha una bambina che vive di stenti, e solo io
posso salvarla. Per pietà, lasciami tre giorni per...".
"Per chi mi hai preso, Valjean?", mi interrompesti. La
crudeltà
del tuo tono di voce mi feriva come una spada affilata. "Ti ho
inseguito per anni e anni. Anni e anni. Gli uomini come te, gli uomini
della tua specie, non cambiano mai".
Quando ti vidi sguaniare la spada, che risplendette di luce assassina,
smisi di ragionare. Senza nemmeno accorgermene, mi ritrovai a fare lo
stesso, e le lame incontrarono con un grido affilato di metallo.
"Devi credermi, Javert!".
"Gli uomini come te non cambiano...". Le spade si incontrarono di
nuovo. "... e nemmeno quelli come me!".
I colpi e i clangori si alternarono in un girotondo sul filo di un
rasoio. Sai, nella confusione non ero certo se ad emanare quella luce
fredda e tagliente fosse la tua lama o il tuo sguardo. Ancora una volta
le nostre spade cozzarono l'una contro l'altra, e ci ritrovammo faccia
a faccia.
"Tu non sai niente di
Javert", mi dicesti in un sibilo. "Io sono nato in una prigione. Sono
nato in mezzo a quelli
come te".
Una tua abile mossa mi colse impreparato, e in un attimo mi ritrovai
letteralmente con le spalle al muro. Il tuo respiro era affannoso
quanto il mio, riuscivo a sentirlo. Ci fissammo negli occhi per qualche
secondo, con un'intensità
che mi bruciò il cuore, le guance e il cervello, e persi il
controllo di me stesso.
Lasciai cadere la spada e ti baciai con forza, prendendoti
per le spalle. Sentii il clangore della tua arma che cadeva a terra
andando ad incontrare la mia, e le tue braccia intorno a me. La tua
stretta, il tuo calore.
"Valjean...", sussurrasti, ma io ti presi il viso fra le mani e ti
impedii di parlare oltre. I tuoi baci bruciavano, il tuo corpo non si
staccava dal mio. Posso assicurarti che dentro il tuo sguardo di
ghiaccio, Ispettore Javert, ardeva un fuoco inestinguibile. Con un
gesto istintivo ti tolsi il cappotto blu.
"Valjean", ripetesti con più decisione. La mia bruciante
speranza fu in bilico sull'orlo di un burrone. Mi avresti intimato di
smetterla, mi avresti arrestato, ne ero sicuro. La testa mi
girò e smisi di respirare, e ti guardai con gli occhi
spalancati. Ti prego,
non scacciarmi. Ti prego. Ti prego. "Valjean,
cerchiamo un altro posto. Qui, chiunque potrebbe vederci".
Il sangue ricominciò a scorrermi nelle vene e il sollievo fu
impareggiabile. Trovammo una piccola stanza che sembrava ormai in
disuso - gli unici mobili erano un tavolo e uno scaffale vuoto e
polveroso -, e diventò immediatamente nostra.
Nemmeno durante le fatiche dei lavori forzati il mio cuore aveva
battuto così forte, mai aveva bruciato così
tanto. Sotto
la giacca blu dell'uniforme la tua schiena era quanto di più
liscio avessi mai toccato, e le tue mani sulla mia pelle erano di
fuoco. Posso affermare con certezza che in quel momento eri
meraviglioso.
"Io ti ho dato la caccia per anni, ma alla fine sei tu che hai preso
me, Jean Valjean", dicesti con un tono di voce invitante, il sorriso
sghembo e lievemente sarcastico sul viso. Sorrisi anche io e ti
accarezzai la schiena tremando, e avvicinai piano ma con forza il tuo
corpo al mio.
"Mi raccomando, non urlare", sussurrai.
Non saprei tuttora dire se ciò che ci dicemmo quella notte
fu un sogno o la realtà.
So solo che il mattino dopo, al mio risveglio, tu non c'eri
più,
e io capii con amarezza che avresti ricominciato a darmi la caccia come
se nulla fosse stato.
Così fu.
Gli anni passarono, Cosette cresceva e diventava ogni giorno
più
bella. Parigi era in tumulto, i giovani parlavano di rivoluzione.
L'atmosfera era tesa, e ogni tanto sentivo parlare di te. Ma non ti
rividi più, in quegli anni.
Poi, arrivò quel giorno, alla barricata. Mi ero recato
là
per combattere insieme al giovane amato da mia figlia, per salvarlo da
morte certa. Paura e polvere da sparo invadevano l'aria, e quei giovani
pronti a combattere cercavano di mascherare con i propri ideali il
terrore che li pervadeva. Quello che non mi sarei mai aspettato fu di
vederti insieme a loro dietro alla barricata, legato ad una sedia. Eri
l'allegoria dell'orgoglio ferito. Il ghiaccio nei tuoi occhi era
più gelido che mai, e anche da prigioniero mantenevi alta la
tua
dignità, la stessa tua dignità di sempre.
La tua vista fu come un macigno nel petto; tuttavia ero lì
per
combattere. Cercai di distogliere lo sguardo da te e di rispondere alle
domande che i giovani rivoluzionari mi stavano ponendo.
"Chi siete?".
"Sono un volontario".
"Avete l'uniforme dell'armata".
"Per questo mi hanno lasciato passare".
Non avrei mandato in fumo gli anni che avevo passato cercando di
dimenticarti, non per l'averti rivisto per un momento.
"Lo vedete quel prigioniero?", mi chiese improvvisamente uno dei
giovani.
"Sì", risposi con finta indifferenza, mentre il tuo sguardo
si posava su di me.
"Tu, un volontario?". E di nuovo quel tuo sorriso sghembo. Questa
volta, però, era un sorriso privo di qualsiasi emozione.
"E' l'Ispettore Javert, una spia del nemico", mi spiegò il
giovane che ti aveva indicato.
Decisi di cogliere l'occasione al volo:
"Lasciate che mi occupi io di questo Javert". Non sapevo bene che cosa
io stesso avessi in mente.
"Il prigioniero è vostro, signore".
Mentre i giovani si chinavano su una mappa per discutere i piani
strategici del nemico, io mi avvicinai a te. Eravamo lontani dal gruppo
di rivoluzionari, e nessuno badava a noi.
Mi osservavi con rabbia, quasi con disprezzo, come nei miei sogni di
tanti anni prima. Il macigno che avevo nel petto diventava sempre
più pesante, e il tuo sguardo collerico sempre
più
doloroso da sostenere. Avevi più rughe intorno agli occhi
dell'ultima volta, e i segni della stanchezza erano più
evidenti
sul tuo viso. Tuttavia, eri tu. Eri sempre tu.
"Così, ci incontriamo di nuovo". La tua voce era del tutto
priva
di emozioni. Apatica. "Avanti, ora puoi vendicarti per tutti gli anni
in cui ti ho dato la caccia. Puoi vendicarti anche perché
quella
notte me ne sono andato".
Mi lasciasti senza parole. Aprii la bocca, ma qualcosa - un
peso -
mi impedì di parlare. Presi fuori dalla cintura un coltello
e lo
strinsi con forza.
"Parli troppo, Javert". Mi avvicinai a te cercando di dominare i
battiti del mio cuore che mi scuotevano da capo a piedi, e cercando di
allontanare i ricordi dell'ultima volta in cui eravamo stati così vicini.
Tu guardavi fisso davanti a te, incurante di quello che stavo facendo:
eri certo che ti avrei ucciso da un momento all'altro.
Con un taglio veloce ti liberai dalle corde.
"Hai salva la vita, ora vattene", ti comandai a bassa voce.
"Cosa... Perché?", ecslamasti. Ti alzasti in piedi e facesti
subito qualche passo indietro, allontanandoti da me.
"Vattene!", ripetei ad alta voce, ma lo stesso facendo attenzione che
il gruppo di giovani non mi sentisse.
"Sei un ladro, e come tutti i ladri rubi sempre tutto quello che vuoi".
Lessi l'odio nei tuoi occhi mentre pronunciavi queste parole. Quel
fuoco che avevo visto ardere una volta nel ghiaccio si era spento, si
era spento per sempre.
"No, hai torto", risposi con la voce che mi tremava, "e hai sempre
avuto torto, Javert. Io sono un uomo, e non sono peggiore di nessun
altro uomo. E ora, vattene! Sei libero, senza condizioni. Non
c'è nulla di cui io ti incolpi, Javert". Mi avvicinai a te
guardandoti negli occhi, in cui mi parve di scorgere un barlume di
pentimento. "Nessun rancore, tu hai sempre e solo fatto il tuo dovere.
Va', e se ne uscirò vivo, potrai arrestarmi".
Eravamo di nuovo vicini come quella notte, e potevo chiaramente leggere
in te lo smarrimento.
"Non hai nessun rancore", mormorasti, incredulo.
"Nessun rancore, Javert. Nessun rancore". Senza che nessuno mi vedesse
ti accarezzai una guancia e ti diedi un breve bacio. "E ora, scappa".
Ti guardasti intorno, smarrito, e poi corresti via, lasciando dietro di
te la malinconia.
Sparai in alto, per ingannare i giovani ancora intenti a
discutere
di avere sparato a te, e una lacrima mi bagnò la guancia.
Infine, l'ultimo ricordo. Era notte, e pioveva da nuvole di piombo.
Correvo contro il tempo, lungo il ponte della Senna. Ti avevo visto da
lontano, dopo aver messo in salvo Marius, mentre ti dirigevi
là,
e avevo avuto un brutto presentimento. Potevo vederti chiaramente
nonostante la pioggia, e le tue intenzioni mi erano più che
chiare.
"Javert!", urlai, ma la mia voce fu coperta da un tuono. "Javert!".
Ormai mi mancava poco. Ti avvicinavi sempre di più al
parapetto, ecco che ti apprestavi a salirci sopra. No, no, no!
"Javert, no!". Mi slanciai in avanti e ti spinsi via, cadendo insieme a
te sulla dura pietra del ponte.
"Non avresti dovuto venire qui, Valjean", mi ringhiasti. "Lasciami fare
quello che ritengo opportuno".
"Ma perché, Javert, perché?!", domandai disperato.
"Il mondo non è più come pensavo, Valjean, e io
non posso farci niente. Posso solo andarmene!".
"No!", gridai. "Tu sei un uomo forte, non puoi farlo!".
"Pensavo che tu fossi un criminale, Valjean", dicesti, con un tono di
voce calmo. "Un criminale tremendamente affascinante, sì, un
criminale capace di ossessionarmi.
Ma pur sempre un criminale. Ho passato anni pensando a te
giorno e notte, sognandoti ogni volta che chiudevo gli occhi".
"Anche io", cercai di rassicurarti prendendoti la mano, che tu
ritirasti.
"Ma io non potevo continuare così, capisci? La legge, la mia
anima, il mio dovere... non era destino, Valjean, non per noi due. Ho
cercato in tutti i modi di dimenticare quella notte, ma dopo averti
rivisto il mio mondo non regge più. Io credevo che tu fossi
un
criminale, eppure mi hai salvato la vita dopo che io ti ho inseguito
per anni, e dopo che ti ho abbandonato. Il mio mondo sta crollando,
capisci Valjean? Non posso più viverci".
Ti abbracciai stretto, senza preoccuparmi di nascondere le lacrime, e
respirai un'ultima volta l'odore del tuo corpo. Questa volta non
opponesti resistenza.
"Non è giusto. Non devi farlo. Se non lo farai, potremo una
volta per tutte dimenticare quello che è successo e
ricominciare
da capo. Insieme".
"Mi piacerebbe, Valjean. Ma non si può, lo sai anche tu. Io non posso.
Voglio sapere una cosa, perché mi hai salvato la vita?".
"Ti ho salvato la vita", risposi senza esitazione, "perché
ti amo".
Improvvisamente sentii le tue braccia attorno a me e le tue labbra
sulle mie, e cercai di vivere quell'attimo il più intensamente
possibile. Poi, sciogliesti l'abbraccio e salisti sul parapetto.
"E tu, perché vuoi morire?", chiesi.
Ti voltasti verso di me e ci fissammo negli occhi un'ultima volta. I
tuoi occhi di ghiaccio.
"Voglio morire perché non è possibile che io ti
ami". Quel tuo sorriso... "Mentre invece ti amo".
E sparisti nella pioggia.
Fisso il cielo sereno
fuori dalla finestra, uscendo dal tunnel dei ricordi.
Così è stato, Javert, così siamo
stati. Un anno fa. Ma ora è tutto finito.
Mi siedo di nuovo sulla poltrona, le mie membra stanche e doloranti
hanno bisogno di riposo. Sorrido: sono vecchio, Javert.
Forse, fra poco, saremo di nuovo insieme.
FINE
NdA:
Oddio, l'ho scritta davvero.
Ecco. Cominciamo dicendo che io AMO "Les Miserables", che ho pianto per
tutto il tempo, che amo Valjean, che amo Javert, che amo tutto!
Ok. Forse questo si era capito.
Non so neanche io come mi sia venuta questa idea. Vi prego, non
picchiatemi, non bastonatemi, non vogliatemi male.
E nel caso vogliate picchiarmi/bastonarmi/volermi male, sappiate che
è stata la mia amica sushiprecotto_chan a fomentare la mia
idea
di scrivere questa storia: E' COLPA SUA!!!
Muahah. Vabbè.
Spero che abbiate apprezzato almeno un po' questa cosuccia... e anche
se non l'avete apprezzata... RECENSITE!
Un bacione a tutti e alla prossima!
Sophie
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