TU
NON RICORDI LA CASA DEI DOGANIERI
“Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a
strapiombo sulla scogliera”.
La luce artificiale del
mio studio è innaturalmente verdognola, o forse è
solo il cielo plumbeo fuori dalla finestra a farla apparire tale. La
mia mano passa il pennello sulla tela in modo quasi inconscio,
rievocando le parole di Montale. Blu, nero, bianco. La poesia risveglia
il genio, il ricordo. Un’impressione.
Una vecchia casa
desolata si delinea sulla tela, stagliandosi in controluce sulla
scogliera della sera. Un tempo doveva aver dominato il mare, ora la
brezza salmastra l’attraversa da parte a parte, soffiando
attraverso le finestre senza imposte e partecipando alla sua
solitudine. Esiste un colore per la solitudine?
“Desolata
t’attende dalla sera / in cui v’entrò lo
sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto”.
Dipingo una piccola
figura umana davanti all’entrata abbandonata della casa. I
capelli lunghi, sì. È lì, eppure i
suoi pensieri sono da tutt’altra parte. Le guance colorite,
una leggera pennellata bianca e arancione. I suoi occhi volgono
altrove. Non vede la vecchia casa grigia. Non vede, non ricorda.
Ti riconosco, sai, mia
cara amica. Sei tornata. Ti ricordi di me? Non credo. Tu non ricordi,
eppure io ho conosciuto i tuoi pensieri, e tu hai conosciuto i miei.
Sì: i tuoi pensieri erano come sciami d’api
irrequiete, e tenerle chiuse nell’alveare era per me ogni
giorno più difficile, più doloroso. Sapevo di non
essere all’altezza del compito, e che un giorno le api
sarebbero volate via.
E mi avrebbero punto, a
migliaia.
“Libeccio
sferza da anni le vecchie mura / e il suono del tuo riso non
è più lieto: / la bussola va impazzita
all’avventura / e il calcolo dei dadi più non
torna”.
Il viso è
dipinto con poche pennellate, poche ma sufficienti. Pennellate
trasparenti per il vento, i capelli volano. Gli occhi luminosi
– una piccola fiammella bianca al centro della pupilla
– e una risata improvvisa a rischiarare quel viso
già lucente.
Un viso che risplende,
che non ha bisogno di artifici per brillare.
Ricordo quella
primavera: ridevi come se nessuno avesse mai potuto privarti della tua
felicità; come se il parere degli altri fosse stato di
nessun conto. Loro storcevano il naso alla nostra vista – o
forse solo alla mia? – ma tu passavi oltre, ridendo petali di
mille fiori nuovi.
Le luce del mio studio
diventa sempre più fredda, più ostile.
La risata, impressa per
sempre sulla tela, non è rivolta a me, non più, e
io non so più da che parte sia il nord. Tutti i miei calcoli
sono sbagliati, ora che quei fiori non sbocciano più per me.
“Tu non
ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria; un filo
s’addipana. / Ne tengo ancora un capo; ma
s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola /
affumicata gira senza pietà. / Ne tengo un capo; ma tu resti
sola / né qui respiri
nell’oscurità”.
C’è
un’ombra nascosta in un angolo del quadro. Quasi non si vede,
è grigia e si fonde con l’aspra scogliera e con i
rigidi arbusti piegati dal vento. Una pennellata rossa e sofferta come
un rivolo di sangue parte dall’ombra e tende alla figura
luminosa e ridente. Un filo, una memoria, una richiesta
d’aiuto. Ti prego, ricorda, ricorda. Afferra questo filo e
ricorda. Sospiro e allontano la mano dalla tela prima si collegare
l’ombra e la luce con quel sottile filo di gomitolo.
Solo io ricordo, mia
dolce amata dai capelli neri. Tu ridi e osservi la tua nuova vita,
concentrata nel tenere in vita la fiammella nei tuoi occhi,
indifferente come la banderuola sull’alto della vecchia casa.
Una minuscola pennellata nera.
“Oh
l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce
della petroliera! / Il varco è qui? (Ripullula il frangente
/ ancora sulla balza che scoscende…)”.
Persino
l’orizzonte mi sfugge. Le mie pennellate disperate cercando
di trovare una linea, una certezza. Non c’è
certezza.
Quante volte ho creduto
di averti ritrovata, mia cara? Ti ho vista nel bel mezzo del fuoco
più rosso, un fuoco che esisteva solo dentro di te, dentro
di noi, amica mia. Amica, amata: scegli tu il nome che ritieni
più appropriato.
Quante volte ho creduto
di avere trovato la soluzione, ho creduto di poterti riportare alla
memoria il passato, di farlo tornare presente. Di ritrovare, ancora una
volta, in te la mia salvezza.
Fisso il quadro. Deve
essere lì, all’orizzonte, deve esserci. La
soluzione, il varco, l’anello che non tiene, come dice
Montale. La porta rotonda per la salvezza. La mia mano va svelta al
pennello e improvvisamente le onde si infrangono violentemente sulla
scogliera. Stringo gli occhi. Il varco non si apre, i marosi spezzano
le pietre. Tu ridi, luminosa nel tuo nuovo fuoco – pennellate
rosse, smarrimento – e non ricordi la casa dei doganieri, la
nostra vecchia casa dei doganieri.
“Tu non
ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so più chi
va e chi resta”.
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