100 Times saying I love you

di Stray
(/viewuser.php?uid=3388)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Grazie a tutti (che lo dico a fare? Ormai lo sapete che mi commuovo sepre…) per i commenti, le recensioni e gli incoraggiamenti (sigh… attacco di plumbea malinconia in arrivo…).

E’ il penultimo (ci ho messo un quarto d’ora per scrivere questa parola…). E’ il 99. Ancora non ci credo…

Come ho citato poco tempo fa, “It’s been a long way down, from where we starter from”…

A dire la verità, mi sta salendo un po’ il magone, avrei voluto andare avanti all’infinito… oddio, altri spunti e altre raccolte di titoli ci sono eccome, nulla sembra impedire che possa essere così. ^^

Allora, lasciatemi fare questa penultima introduzione come si deve…

Rullo di tamburi…

C’è stato Pain and Wounds, quello che sembrava un happy endig.

C’è stato Parting, la separazione.

C’è stato Letter, la mancanza.

C’è stato Cold Hands, il ritrovarsi temporaneo.

Non pensate che manchi qualcosa? ^^

Direttamente dall’after movie, ecco a voi…

099. “Welcome home” (Bentornato)

“But I’m sure you’re on your way home

Yes, I know you’re on the road.

And I’m sure you’re faster than before

Yes, I know you’re somewhere on the road.”

Kate Havnevik “Nowhere warm”

Aveva ancora la guancia rossa e bruciante per il suo schiaffo.

Non ricordava che lei fosse capace di usare le sue mani sottili, per azioni che non richiedessero un grilletto da premere. Soffocando un sospiro contro l’incavo del suo collo, realizzò che anche le carezze le riuscivano bene, molto più dei ceffoni.

I rumori del campo di battaglia appena sgomberato sembravano esistere solo per coprire i suoi flebili lamenti, quelli che proprio non riusciva a trattenere.

Non c’era stato il tempo di preparare nulla, di pianificare nulla. Ma i sacchi di sabbia nei quali stavano affondando, gli stessi che poco prima erano stati le loro barricate, non erano poi così scomodi come poteva sembrare. E poco importava se quel magazzino non era una camera da letto, se nella confusione la giacca della sua divisa era finita chissà dove, se il pericolo di venire scoperti era reale.

Due anni erano stati tanti.

Gli era mancato il sapore salato della sua pelle, il modo in cui passava una mano tra i suoi capelli, credendolo addormentato, il suo arrossire con estrema facilità…

Gli era mancata lei.

“Dimmelo ancora…” sussurrò nell’incavo tra i suoi seni. Il suono cavalcò un brivido, rimbombando nel suo corpo come in una cattedrale.

Tra i respiri affannati, lei non rispose. Lo graffiò, lo morse, senza una parola.

Voleva fargli male, almeno quanto ne aveva fatto lui a lei, anche se sapeva benissimo che quei furiosi segni rossi sulla sua schiena non arrivavano a rispecchiare neanche lontanamente la sensazione straziante della sua mancanza, quel buco vuoto dentro, che la divorava ogni giorno di più, la spegneva ogni giorno di più.

Due anni erano stati troppi.

“Dimmelo ancora, Riza…” ripeté lui, quando l’urgenza fu alleviata, quando il bisogno di stringerla ancora non era più così grande da togliere il respiro, quando lei ebbe sentito la rabbia trasformarsi in qualcosa di liquido e caldo e appagato. Qualcosa di familiare, che sentiva scendere in caduta libera sulla pelle accaldata delle guance.

Un bacio sulla sua fronte madida, un altro sulla benda scura, e un altro piccolo morso – delicato ma deciso, per non fargli dimenticare di ciò che aveva fatto - in quel punto esatto dietro l’orecchio, che aveva imparato a trovare ad occhi chiusi.

E un sussurro, così impalpabile e lieve da annegare tra le lacrime, sfaldarsi nell’aria, sciogliersi nel calore che avevano creato.

“Bentornato…”

“And I reckon there is nothing more to say…”





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=169258