«Sai Bekah, non credevo ci fosse qualcosa
d’interessante
nell’America»
Il piede di Rebekah dondola piano, la scarpetta
graziosamente infiocchettata cade con un sordo tock
sul pavimento.
«Ma i grattacieli... di notte si possono toccare le
stelle»
Un sorriso sornione gli colora la bocca. Ride.
«Dovremmo tornare a New Orleans, un giorno o
l’altro. Ne
conservo un bel ricordo».
Kol raccoglie la scarpa della sorella e la soppesa per
qualche secondo tra le mani, poi gliela porge quasi con gentilezza.
Rebekah la prende anche se non le importa: quelle scarpe non
le piacciono più, ne comprerà presto di nuove.
D’altronde le avrebbe tolte comunque entrambe per uscire da
quel locale; i tacchi sono piuttosto rumorosi e scomodi, soprattutto
quando
s’intende camminare in punta di piedi.
S’infila di nuovo le scarpe con indifferenza, sistema meglio
la stola sulle spalle e scavalca il barista riverso sul pavimento.
Il rumore dei tacchi sul pavimento di legno non avrebbe certo
svegliato i morti.
**
Respira con la pancia, lentamente, come un bambino
addormentato.
Sente le carezze di sua madre sui capelli e sulla fronte,
tocchi leggeri come fantasmi, ricorda senza imprecisioni la ninnananna
che era
solita intonare quando uno di loro aveva la febbre o semplicemente non
riusciva
a dormire.
A volte Kol la ripete sottovoce, vergognosamente, come si
confessa un peccato.
Ha mille anni e a volte non riesce a dormire, ma da tempo
non c’è più nessuno che canta per lui.
**
Nella sua casa a Denver, Kol tiene appeso in salotto il
quadro che Klaus ha dipinto per lui.
Non lo ammetterebbe mai, ma ne è particolarmente orgoglioso.
Il rosso trionfa, sembra traspirare dalla tela e quasi colare
sulla cornice: si chiede spesso se sia sangue o soltanto una
distrazione dal bianco
della tela - la sua solitudine.
Suo fratello non gliel’ha mai detto e Kol non
gliel’ha mai chiesto.
Forse gli piace perché il rosso di quel quadro e il fuoco
acceso nel caminetto lo fanno semplicemente sentire meno solo.
**
Era un’ansia che non
aveva mai pensato di provare: un terrore dilaniante, la sensazione di
avere il
cuore che batte furiosamente in gola, una paura meravigliosa.
«Kol! Kol! Vieni a
vedere, è nata!» la voce di sua sorella Rebekah lo
distolse dai suoi sentimenti
- così umani, sì, ma stavolta lo pensava senza
alcun disprezzo - e lo
accompagnò fino alla stanza in fondo al corridoio; Kol
pensò distrattamente che
le sue ginocchia avrebbero ceduto per l’emozione, se non
fosse stato per gli
incoraggiamenti di Rebekah.
Arrivò nella piccola
stanza quasi galleggiando, senza rendersi davvero conto di aver
camminato fin
laggiù.
Una donna riposava sul
letto, stanchissima ma felice, tuttavia Kol la ignorò; in
qualche modo sapeva
che era importante, ma si sentiva attirato dal fagottino tra le braccia
della
sorella come da una calamita.
Sua figlia era appena
venuta al mondo e già possedeva una gravità tutta
sua.
La prese in braccio
con delicatezza, sfiorandole la fronte con le dita e le labbra.
«Ciao, tesoro»
Il nome della bambina –
che nonostante tutto sarebbe stato Esther, in qualche modo lo sapeva -
rimase
come sospeso, a metà tra il sonno e la veglia.
Il pugnale intarsiato ha lasciato il suo cuore da qualche
minuto: sente il petto a poco a poco più leggero, ma sulle
sue spalle crolla improvvisamente
tutto il peso del mondo.
Elijah sta di fronte a lui, Kol realizza d’essere straiato
nella sua bara.
Ha ancora i suoi vent’anni cristallizzati in un millennio
intero, e non percepisce più nello sterno il pompare
regolare di un cuore vivo.
In qualche modo questa consapevolezza lo ferisce.
Trattiene le lacrime, scacciando con enorme sforzo la
delusione e lo smarrimento, e riacquista un sorriso vendicativo,
crudele.
Era solo un sogno.
**
Kol accoglie l’oscurità della notte come una
vecchia amica,
si nasconde nel suo abbraccio confortante e pensa a come portare avanti
un
nuovo gioco - qualcosa di divertente, che non lo annoi troppo in
fretta,
qualcosa di rumoroso.
Odia il silenzio che cresce nel suo cuore come un cancro.
Sdraiato su un prato poco lontano da casa, guarda il cielo
pensando con meraviglia e timida riverenza che le stelle non sono poi
cambiate
così tanto in mille anni; sono le stesse che contava
attentamente quando aveva
ancora sei anni, la testa sulle ginocchia delle madre e nessuna
uccisione sulla
coscienza.
Da secoli cerca di farsi accettare dai suoi fratelli, ma si
sente così escluso, così fuori posto.
Non prova più dolore… non quando il sangue di
qualche
malcapitato gorgoglia nel suo stomaco, almeno. Uccidere è
uno svago necessario.
Ma ancora una volta Elijah ha tolto il pugnale dal suo petto
e Kol è stato tagliato fuori inconsapevolmente dai due
fratelli maggiori e da
Rebekah - che, pur apprezzando di tanto in tanto la sua compagnia,
sembrava
legata indissolubilmente a Niklaus ed Elijah in un modo che, forse, lui
non
avrebbe mai potuto capire.
È solo un’altra volta, si sente ancora troppo
piccolo per poter
a scappare da questa solitudine, e non gli resta che cantare: canta
sempre
quando si sente solo, triste o indesiderato.
Canta sottovoce per dimenticare d’aver soggiogato la maggior
parte dei suoi amici e aver ucciso i rimanenti, canta per non pensare
che, alla
fine, non ha mai avuto davvero degli amici.
La musica lo accompagna sempre e lui la adora come si ama
un’amante: non ha bisogno d’altro.
**
Il culto di Silas è pericoloso, in certi sensi una droga,
tuttavia Kol è millenario ed indistruttibile: non teme i
suoi ciechi seguaci.
Ma teme l’inferno in Terra, Dio solo sa quanto lo tema, e
questa paura lo consuma, lo corrompe - è spaventato al punto
di minacciare la
sua stessa sorella di una morte orribile e definitiva.
Nel panico, non prova esitazione né rimorso
nell’infilzare
quello sciocco, sconsiderato e ingenuo omiciattolo. Quei folli dei suoi
fratelli forse non capiranno mai che lo sta facendo per proteggere
anche loro.
**
Non è certo la prima volta che vedono la neve, ma i fratelli
si sono riuniti dopo secoli e secoli e non possono fare a meno di
festeggiare
quel momento magico con una giocosa battaglia: nonostante
l’alleanza Niklaus e
Rebekah raddoppi la loro potenza, Kol se la sta cavando piuttosto bene,
Elijah
deve ammetterlo.
I fratelli minori l’hanno trascinato in quella pazzia
notevolmente
infantile e il suo libro è rimasto aperto sul tavolo della
cucina, la lettura
bloccata tra una riga e l’altra, in attesa che ritorni il
sole.
Inzuppati dalla testa ai piedi, Kol e Rebekah ridono insieme
e si prendono in giro a vicenda per le guance arrossate e i capelli
scombinati;
a dispetto del millennio di vita che grava sulle loro spalle e delle
atrocità
commesse, nella loro mente è rimasta parte
dell’innocenza dei bambini.
Klaus pone solennemente un cappello a decorare il pupazzo di
neve che lui e Bekah hanno costruito insieme, e nel suo sorriso
traspare
un’ingenuità che ricorda ad Elijah i loro anni di
vita umana, la loro infanzia.
Scatta distrattamente una foto.
È così che vuole ricordare i suoi fratelli:
circondati da
angeli di neve, con foglie e ramoscelli nei capelli, straiati sul
terreno
gelido, esausti per il troppo ridere.
**
Kol adora il rosso: una volta si è innamorato di una ragazza
che sapeva portarlo come una seconda pelle.
L’ha uccisa solo per vedere il cremisi del sangue ricoprirla
del tutto - ma per farsi perdonare le ha poi baciato gli zigomi freddi
e la
punta delle dita violacee.
**
Per Klaus l’avere Kol in casa era principalmente motivo di
divertimento ed esasperazione in ugual misura, ma soprattutto di rumore.
Il fratello minore apparentemente non riusciva a star zitto
un secondo e anche quando - incredibilmente - si tratteneva dal dire
qualche
sciocchezza sfrontata, la sua sola presenza pareva fonte di un allegro
chiasso,
un caos brioso che riempiva la stanza e le giornate di Klaus.
Ora Kol è morto, Klaus è straziato dal fuoco,
impresso per
l’eternità nelle sue retine, e dalle urla orribili
del fratello; si rende conto
che non sono né le urla né il fuoco a creare
quella sensazione terrificante -
quella di morire dentro.
È quel maledetto frastuono - il
suono del silenzio.
Intrappolato a così pochi metri dai resti di suo fratello,
lascia che le lacrime scavino a fondo nella sua rabbia, nella sua
paura,
nell’impotenza, nella vendetta.
È una cacofonia di emozioni che per un momento lo stordisce
e lo riempie di orrore.
Tutto il rumore che Kol riusciva in qualche modo a infondere
in Klaus - quell’impercettibile vibrazione brulicante di vita
e
imprevedibilità, l’idea di movimento di una
pennellata imprecisa sulla tela - all’improvviso
svanisce.
Il tempo si ferma, viene risucchiato dall’atrocità
quel
momento; l’odore di carne bruciata, la morte di un fratello.
E Klaus grida, cerca di coprire di rabbia quello spaventoso silenzio, ma sa che nulla - neanche la
vendetta, neanche tutto il frastuono del mondo - colmerà mai
il vuoto che sente
nel petto.
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