Iqc
Disclaimer: Pyro
e gli X Men appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e
alla Twentieth Century Fox. Tutto il resto, invece, appartiene a me.
Ehilà, gente!
Sì, lo so che avevo
promesso il seguito di "Winning a Battle, Losing the War", ma qualche
giorno fa mi è balzata nel cervello questa piccola one shot.
Dopo qualche attimo di esitazione (dovuta soprattutto ad alcune scene
che vi sono presenti) ho pensato che in fondo era abbastanza
interessante, perciò eccomi qua di nuovo.
Come ho scritto nel riassunto,
questo breve racconto è una specie di "spin off" dal capitolo 12
di "Into the Fire". Anche se non doveste averlo letto, credo che
riuscirete comunque a comprendere ciò che accade in questo
racconto. Vi basti sapere che Meredith è il mio personaggio
originale, e lei e John stanno insieme da qualche mese, dopo essersi
conosciuti alla scuola.
Ultima cosa: in questa one shot
sono presenti alcune scene di violenza domestica nei confronti di una
donna e di un bambino. Anche se non mi sembra di essere scesa troppo
nei dettagli, nè di aver utilizzato questa tematica per fare
melodramma scadente, ma solo per tentare di spiegare perchè Pyro
reagisce in quel modo quando lui e i suoi compagni si ritrovano
circondati dalla polizia a Boston, non vorrei mai che qualcuno
rimanesse scioccato per questo racconto. Se ho scelto il rating rosso
un motivo c'è. Se volete leggere, prima assicuratevi di volerlo davvero fare.
Va bene, spero di non avervi spaventato troppo. Ci si vede alla fine per i saluti!
................................................................................................................
Boston, Massachusetts, USA.
Oggi.
John non vedeva l’ora di lasciare la casa dei Drake. Non sapeva
spiegarsi il perché, ma si era sentito a disagio per tutto il
tempo, anche prima che i genitori di Bobby rivelassero la loro vera
natura e gettassero via la maschera di famigliola felice non appena
loro figlio, il ragazzo che abbracciavano orgogliosi e raggianti in
tutte quelle foto disposte ordinatamente sulla mensola del camino,
aveva confessato loro di essere un mutante.
Gli occhi di John indugiarono per un po’ sul suo amico. Bobby
stringeva la mano di Marie nella sua e guardava in basso, verso il
pavimento. John lo vide deglutire per cacciare indietro le lacrime e
sentì un’ondata di dolore e rabbia rimestarsi nel suo
stomaco. Bobby non piangeva mai, non era mai triste.
Perché avrebbe dovuto? La sua vita era perfetta. Lui era
perfetto. Il Signor Bravo Ragazzo, lo chiamava John quando voleva
sfotterlo. Il massimo dei voti a scuola, abile nello sport, impeccabile
nella camera speciale. Bobby alzò improvvisamente lo sguardo e
John si affrettò e guardare altrove, vergognandosi un po’
per la fitta di odio che aveva provato poco prima verso i suoi
genitori. Senza che lui se ne rendesse pienamente conto, i suoi occhi
si fissarono sulla serie di cornici che stavano in bella mostra sul
camino del soggiorno. In piedi nell’ingresso, John era troppo
lontano per distinguere le immagini nelle fotografie, ma le aveva
scrutate abbastanza prima che Meredith arrivasse e lo distraesse per
imprimersele nella memoria. La sua mano destra smise di giocare con
l’accendino e si serrò con forza attorno allo Zippo quando
John si domandò come aveva dovuto sentirsi Bobby mentre posava
per quelle foto insieme ai suoi genitori e suo fratello. Deve essere una bella sensazione, disse
il suo cervello prima che John potesse impedirglielo. Se lui aveva mai
provato qualcosa del genere, proprio non riusciva a ricordarselo.
Bobby si schiarì la voce e John tornò a guardarlo.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, ma proprio non riusciva
a pensare a niente di utile, quindi decise di rimanere in silenzio.
Alzò lo sguardo verso il soffitto, sperando ardentemente che
Meredith scendesse in fretta, così avrebbero potuto andare via
da quel posto. Bobby si schiarì di nuovo la voce e Marie
sussurrò piano il suo nome, come in una preghiera.
Improvvisamente John pensò qualcosa a cui aveva cercato di non
pensare per tutto il giorno. Se uno potesse odiare i propri genitori sarebbe più facile. Se uno potesse smettere di volergli bene, allora forse...
In quel momento sentì un rumore provenire dalle scale e John si
voltò di scatto per trovare Meredith che praticamente stava
scendendo i gradini a due a due, terrorizzata. Il suo volto era cinereo
e i suoi occhi grigi erano ingigantiti dalla paura e dall’ansia.
“Dobbiamo andare.” disse appena il suo piede toccò
il pavimento dell’ingresso. La sua voce era tremante e carica di
angoscia e John sentì una strana sensazione di calore montargli
nel petto. Era qualcosa che assomigliava molto alla voglia di
stringerla forte tra le sue braccia e tenerla lì con lui
finché non si fosse calmata. “Tom ha chiamato la
polizia.”
Bobby la guardò come se fosse impazzita. Provò a
controbattere, ma Meredith lo bloccò. “E’
così, stanno arrivando! Dobbiamo andarcene subito!”
urlò mentre la sua mano afferrava quella di John e la stringeva
come se fosse l’unica cosa che potesse proteggerla. Il calore nel
petto del ragazzo si fece più intenso. Si accorse che la mano di
Meredith era gelata e lei stava tremando dalla testa ai piedi, e allora
John aumentò la stretta sulle sue dita, un po’ per
scaldarla, un po’ per calmare i brividi che la scuotevano e un
po’ per farle capire che era lì con lei e non aveva
nessuna intenzione di lasciarla sola.
“Fuori. Ora.” disse la voce di Logan, e John fu sorpreso di
sentire una nota di preoccupazione e sì, forse anche di paura
nella sua voce. In tutta onestà, nemmeno pensava che Logan
potesse davvero avere paura.
Ma adesso non c’era tempo per questi pensieri; Wolverine aveva
già spalancato la porta e, sempre tenendo la mano di Meredith
nella sua, John lo seguì sul portico.
Non appena tutti e cinque furono fuori dalla porta alcune auto della
polizia arrivarono a sirene spiegate e frenarono bruscamente davanti
alla casa, scavando ampi solchi neri nel prato verde e ben curato. La mamma di Bobby non sarà contenta, pensò
John, e il pensiero lo divertì a tal punto che quasi si mise a
ridere. I poliziotti scesero in fretta dalle loro volanti e avanzarono
verso il portico, puntando le pistole contro di loro. John sentì
una scarica di adrenalina attraversargli il corpo e fargli contorcere
lo stomaco. Adesso sì che siamo fottuti, si disse.
“Alzate le mani e sdraiatevi faccia a terra!” urlò uno dei poliziotti.
Le cinque persone sul portico rimasero immobili. John sentì le
dita di Meredith stringere convulsamente le sue mentre si guardava in
giro. Il suo sguardo scivolò prima sulle auto ferme sul prato,
poi sugli uomini e le donne con le uniformi blu e le pistole spianate.
Ripensò ai soldati che avevano assaltato la scuola la sera
precedente, e si disse che il colore dell’uniforme non faceva
alcuna differenza. Che fosse blu o verde militare, si trattava comunque
delle stesse persone. Volevano comunque la stessa cosa.
La voce del poliziotto lo riportò alla realtà. “Mani in alto e faccia a terra, ora!”
Questa volta Logan si mosse. Allargò le braccia ad indicare i
quattro ragazzi insieme a lui, come se volesse proteggerli e al tempo
stesso mostrare a quei poliziotti quanto assurdo fosse ciò che
stavano chiedendo. “Questi sono ragazzini.” disse con un
tono di calma forzata. “Non c’è bisogno di tutte
quelle armi.”
Il poliziotto lo ignorò. “Questo è l’ultimo
avvertimento!” gridò, il suo volto contratto in
un’espressione di rabbia e di disprezzo.
John sentì Meredith tremare incontrollabilmente, e mentre le
strofinava il dorso della mano col pollice sentì di nuovo quella
sensazione di calore nel petto. Stavolta, però, c’era
qualcos’altro che gli si era insinuato dentro insieme al calore,
qualcosa che John non faticò a riconoscere. Rabbia. Totale,
cocente, pericolosa rabbia. Guardò Logan fare un passo verso i
poliziotti.
“Non vogliamo...” cominciò, ma fu tutto quello che
riuscì a dire. Un proiettile lo raggiunse alla tempia e Logan
barcollò indietro, portandosi una mano alla ferita. John
sentì Meredith urlare e la sua mano contrarsi violentemente in
quella di lui.
John si voltò a guardarla.
Mount Isa, Queensland, Australia.
Nove anni prima.
John era seduto a gambe incrociate sul pavimento della cameretta,
intento a sfogliare il suo libro degli animali. Arrivò
finalmente alla pagina del canguro, il suo preferito, e sorrise mentre
faceva correre lentamente l’indice sul dorso dell’animale
nella fotografa, immaginando di sentire il suo pelo ruvido e ispido
sotto le dita. John non aveva mai accarezzato un canguro, però
una volta l’aveva visto dalla finestra, quando era piccolo e suo
padre lavorava nella miniera di Argyle, che era molto, molto lontano da
dove abitavano ora. La mamma gli aveva spiegato che si trova
dall’altra parte dell’Australia.
Si concentrò e si sforzò di leggere la didascalia della foto.
Il maschio... del... canguro rosso... arriva ad un altezza di... di.. due metri.
John sorrise soddisfatto. Faceva la seconda elementare ed ormai sapeva
leggere abbastanza bene, ma quello ora un libro difficile, scritto per
bambini più grandi di lui. La signorina Davis, la sua maestra,
aveva detto alla mamma che lui era un bambino molto precoce. John non
sapeva esattamente cosa volesse dire quella parola, ma doveva essere
una cosa buona, perché quando erano tornati a casa la mamma
aveva preparato per lui la torta di mele che gli piaceva tanto.
Dopo un ultimo sguardo al canguro (quello che aveva visto John era
proprio uguale a questo, con il pelo rossiccio e gli occhi luminosi e
il naso nero, solo che a lui era sembrato mooolto
più grande), ricominciò a sfogliare le pagine del libro
in cerca del suo secondo animale preferito, lo squalo. Passando
trovò la pagina del dingo, che è come il cane, solo che
di solito non vive nelle case insieme agli uomini ma sta per conto suo
nel bush. John sapeva che è però possibile
addomesticarli, perché circa un anno prima, quando vivevano a
Broken Hill, il padre del suo amico Keith Wilkins aveva trovato un
cucciolo che guaiva in una tana abbandonata e l’aveva portato a
casa. (Il papà di Keith aveva detto che probabilmente la madre
era stata uccisa dai bracconieri, e da allora tutte le volte che
sentiva quella parola John aggrottava la fronte e serrava i pugni,
pensando che se mai ne avesse trovato uno, di quei bracconieri che
ammazzavano le mamme dei cuccioli, gliela avrebbe fatta vedere lui...)
A John sarebbe tanto piaciuto avere un dingo, ma sapeva che sua madre
non avrebbe voluto un animale selvatico in casa, così aveva
ripiegato su un cane. La mamma aveva risposto che lui faceva già
abbastanza disordine per un intero branco di cani e questo bastava e
avanzava. John allora l’aveva chiesto a Babbo Natale, ma nemmeno
lui glielo aveva portato. Forse la sua lettera si era persa prima di
arrivare al Polo Nord. Poco male; l’avrebbe chiesto di nuovo il
prossimo anno. Per il momento doveva accontentarsi di guardare la foto
del dingo.
John adorava quel libro. Gliel’aveva portato a casa suo padre
quando aveva ottenuto il lavoro qui alla miniera di Mount Isa. John era
seduto sul divano a guardare i cartoni animati, nel loro minuscolo
appartamento ad Adelaide (lui odiava, proprio odiava
vivere in città, dove non c’erano né canguri
né dingo da vedere, solo qualche stupido cagnetto al
guinzaglio), quando suo padre gli si era avvicinato con le mani dietro
la schiena. John aveva alzato di scatto gli occhi dallo schermo e li
aveva fissati su suo padre, preoccupato. Si era chiesto se dovesse
scappare, ma poi si era accorto che suo padre stava sorridendo e non
sembrava affatto ubriaco; allora era rimasto fermo dov’era e si
era limitato ad osservarlo con un certo sconcerto. Suo padre sorrideva
di rado, e, da quando aveva perso il lavoro, capitava ancora più
raramente che fosse sobrio.
Quando era arrivato accanto al divano aveva tirato fuori da dietro la
schiena un grosso libro con la copertina rossa e l’aveva porto a
suo figlio. “Animali d’Australia”, aveva letto John
con un po’ di difficoltà.
“Tieni.” aveva detto suo padre. “Così potrai
vedere un po’ di animali finché non ci trasferiamo nel
Queensland.”
John aveva spostato gli occhi dal libro al volto di suo padre, senza sapere cosa fare. Era vero? O era solo una trappola?
Suo padre gli aveva sorriso di nuovo. “Su, prendilo.”
John aveva allungato cautamente una mano e aveva afferrato il libro. Si
era seduto a gambe incrociate sul divano e se l’era deposto sulle
ginocchia, scrutandone con attenzione la copertina. Avrebbe quasi
desiderato sfogliarlo, ma ancora non riusciva a credere che quel libro
fosse proprio suo, che suo padre l’avesse portato a lui per
fargli un regalo. Aveva sfregato il palmo della mano sinistra contro il
dorso del libro e poi era rimasto immobile, gli occhi fissi sulle
lettere dorate che componevano il titolo.
“Non vuoi vedere se trovi il canguro, John?”
Il bambino aveva alzato lo sguardo e aveva visto che sua madre era
arrivata dalla cucina e si era messa di fianco a suo padre. Gli
sorrideva dolcemente, e allora John aveva deciso che poteva fidarsi
della sua mamma e aveva aperto il libro.
Era rimasto a bocca aperta. Ogni animale aveva un piccolo capitolo per
conto suo, con spiegazioni, disegni e un sacco di fotografie, alcune
così grandi che occupavano l’intera pagina. John aveva
alzato gli occhi su suo padre, ammutolito dall’entusiasmo e dalla
felicità.
“Ti piace?” aveva chiesto lui, sorridendo all’espressione estasiata del figlio.
John aveva annuito, sentendo il proprio cuore martellargli impazzito nel petto per la gioia.
“Come si dice?” l’aveva ammonito la mamma.
John dovette deglutire prima di poter parlare. “Grazie, papà.” aveva detto, la sua voce quasi un sussurro.
Il sorriso sul volto di suo padre si era allargato. “Sono contento che ti piaccia.”
Da quella sera John sfogliava il libro degli animali almeno un paio di
volte al giorno. Non poteva farne a meno: gli piacevano troppo tutte
quelle fotografie, talmente vivide che gli animali sembravano pronti a
balzare via dalle pagine da un momento all’altro. Anche adesso,
per esempio, John avrebbe dovuto fare i compiti invece di cercare la
foto dello squalo, ma voleva proprio dare ancora uno sguardo a...
Improvvisamente una serie di rumori provenienti dalla cucina gli fece
alzare di scatto la testa dal libro. Con una fitta di ansia, John
riconobbe le voci dei suoi genitori farsi sempre più alte e
concitate finché non distinse la voce di suo padre, contorta
dalla rabbia.
“Non ti permettere di parlarmi così, brutta stronza!”
Seguì la voce di sua madre. “Mi dispiace, Paul! Mi
dispiace!” urlò, e John sentì l’angoscia e il
terrore che permeavano le sue parole infilarglisi sotto la pelle come
una lama ghiacciata. “Non volevo! Ti chiedo...”
John sentì chiaramente il rumore del pugno che la colpì
in faccia, e l’urlo di sua madre (un urlo senza parole, solo un
grido acuto di paura e di dolore), e il suono di qualcosa di vetro o
porcellana che si infrangeva sul pavimento. Balzò in piedi, ma
prima che potesse fare anche un solo altro movimento udì i passi
di suo padre venire verso la sua camera.
Terrorizzato, fissò per una frazione di secondo la porta,
aspettandosi di vederla spalancarsi da un momento all’altro, poi
il suo istinto di conservazione ebbe la meglio e John si lanciò
sotto il letto, ignorando la voce nel suo cervello che gli ripeteva che
non sarebbe servito a niente, perché quello sarebbe stato
sicuramente il primo posto in cui suo padre avrebbe guardato. Si
raggomitolò su sé stesso e serrò gli occhi. Ormai
era vicino. Tra qualche secondo avrebbe sentito la porta sbattere
contro la parete e le pesanti scarpe da lavoro di suo padre calpestare
il pavimento della sua camera. John si strinse più forte le
ginocchia contro il petto, il cuore ormai impazzito per il terrore, e
trattenne il fiato mentre i passi di suo padre riecheggiavano nel
corridoio, proprio davanti alla sua stanza. Adesso sarebbe entrato, lo
avrebbe trascinato fuori da sotto il letto e lo avrebbe...
Gli occhi di John si spalancarono improvvisamente quando udì suo
padre oltrepassare la porta della camera e la chiave del bagno scattare
nella sua serratura. Perplesso e ancora spaventato, il bambino
scivolò cautamente da sotto il letto e si mise attentamente in
ascolto, cercando di captare un qualunque rumore che gli confermasse
che suo padre era davvero in bagno. Udì l’acqua cominciare
a scorrere nella doccia, e allora John avanzò verso la porta
della sua stanza e l’aprì con cautela. Mise la testa nel
corridoio. Vide l’ombra di suo padre muoversi avanti e indietro
da sotto la porta del bagno, e in punta di piedi scivolò nel
corridoio buio, dirigendosi verso la cucina.
I piatti e i bicchieri che avevano utilizzato per il pranzo giacevano a
terra, frantumati in mille schegge taglienti. Sua madre era seduta al
tavolo della cucina, la fronte appoggiata sulla mano destra, mentre la
mano sinistra teneva premuta una tavoletta di ghiaccio contro lo
zigomo. Quando sentì John entrare nella stanza si alzò e
si affrettò ad abbassare il ghiaccio, sforzandosi di
sorridergli. John la guardò. La sua guancia era rossa e gonfia,
e sapeva che sorridere doveva farle male.
Sua madre appoggiò il ghiaccio sul lavandino e si
avvicinò al bambino che la stava fissando spaventato. Gli
accarezzò con delicatezza i capelli. “Non è niente,
cucciolo, non avere paura.” disse. Le parole le uscivano strane,
dato che il gonfiore alla guancia le impediva di aprire bene la bocca.
“E’ solo... Sono solo inciampata.”
Gli occhi di John rimasero incollati al viso della sua mamma e la sua
mano destra si alzò e si aggrappò forte alla sua
camicetta mentre lei gli accarezzava la testa e la nuca.
Improvvisamente sua madre abbassò lo sguardo e tirò su
col naso, poi gli rivolse di nuovo un sorriso affaticato.
“Perché non vai un po’ fuori a giocare con i tuoi
amici, John?” disse poggiandogli lievemente una mano sulla spalla
e spingendolo delicatamente verso la porta di casa.
John si lasciò guidare fino all’ingresso, la sua mano che
stringeva ancora forte la camicetta, e quando la mamma aprì la
porta lui la guardò dritto negli occhi. “Papà
è...” iniziò a voce bassa.
Sua madre abbassò lo sguardo. “Tuo padre è un
po’ nervoso, John.” La sua voce era stanca e tesa.
“Le cose al lavoro non vanno molto bene.” La serratura del
bagno scattò e la mamma si voltò spaventata verso il
corridoio. “Vai, adesso.” disse mentre spingeva John fuori
di casa, sui gradini di legno dell’ingresso. Anche se si sforzava
di mantenere la voce calma, il bambino sentì chiaramente la sua
paura. “E rimani fuori per un po’, d’accordo? Non
tornare tanto presto.” sussurrò mentre chiudeva la porta
di casa, lanciando un’ultima occhiata a suo figlio.
John rimase qualche istante a fissare la porta chiusa, aspettando di
sentire le grida e il rumore delle botte, ma non successe niente del
genere. Controvoglia, si voltò e si diresse verso
l’entrata del piccolo villaggio dei minatori. Era il primo
pomeriggio e non c’era nessuno in giro: gli operai della miniera
erano tutti nelle loro case a godersi le poche ore di riposo che
avevano a disposizione per stare con le loro famiglie, e nessuno aveva
voglia di occuparsi del bambino che camminava da solo per la strada
polverosa che portava al campo abbandonato, vicino alla vecchia entrata
della miniera. John vide un paio di tende scostarsi e poi richiudersi
velocemente. Guarda, caro, il figlio degli Allerdyce è di nuovo
in giro da solo; suo padre deve essere ubriaco. E’ già la
quarta volta questa settimana.
Stringendo forte i pugni, John si addentrò nell’erba alta
e folta ai margini della strada principale, appena dopo l’ultima
casa. Non aveva paura dei serpenti, lui: non era un fifone come gli
stupidi bambini che c’erano lì a Mount Isa. Il suo amico
Keith era tutta un'altra cosa. A Broken Hill, lui e John dicevano alle
loro mamme che andavano al campo giochi e invece si addentravano nel
bush a cercare gli animali. John sapeva che i serpenti, anche quelli
velenosi, scappano sempre quando sentono del rumore; ti mordono solo se
non hanno altra via d’uscita. Ma i bambini di Mount Isa non ne
capivano niente di queste cose. A lui non piacevano affatto.
Dopo aver camminato per qualche minuto, scostò con le mani un
ciuffo di erba alta e secca e finalmente arrivò allo spiazzo
davanti alla vecchia entrata della miniera. John guardò le
vecchie assi di legno che sbarravano il grosso foro nel fianco della
montagna, piene di crepe e di buchi praticati dalle termiti, e
rabbrividì ricordando la storia del minatore fantasma, che si
era perso nei cunicoli e ora vagava in eterno nel sottosuolo, la pelle
e i capelli bianchi come la neve e i vestiti tutti stracciati, pronto
ad afferrare i bambini disobbedienti che entrano nella miniera e a
trascinarli con sé sottoterra. Era stato il papà di Keith
a raccontarglielo, una sera che John si era fermato a dormire a casa
loro. (A dire la verità, John era rimasto tre giorni e tre notti
dai Wilkins, ma tutte le volte che provava a domandare alla mamma di
Keith perché non poteva tornare a casa sua lei cambiava
discorso. Solo la terza notte John aveva sentito la signora Wilkins
dire a suo marito che Katherine Allerdyce era in ospedale, e che loro
dovevano assolutamente fare qualcosa prima che quell’uomo finisse per ammazzarli tutti e due, Katherine e il bambino.)
Scrutando attentamente l’entrata sbarrata della miniera, per
assicurarsi che il fantasma non uscisse improvvisamente e lo prendesse,
John si sedette sui resti arrugginiti di un vecchio bidone e dalla
tasca dei jeans estrasse una bustina di fiammiferi. La tenne per un
po’ sul palmo della mano aperta, osservando il disegno a fiori
gialli e blu che ornavano il cartone, poi la rigirò e la
aprì. I fiammiferi stavano tutti sull’attenti come
soldati, rigidi e impettiti, con il corpo di legno chiaro e una grossa
capocchia color porpora. John ne staccò uno, sentendosi un
po’ in colpa. La mamma gli aveva detto che non doveva giocare col
fuoco.
Tenendo il fiammifero saldo tra pollice e indice, sfregò la
capocchia di zolfo contro la striscia abrasiva sulla bustina e la
fiamma si accese immediatamente, sfrigolando ed emettendo scintille.
John raddrizzò il fiammifero e guardò il fuoco consumare
velocemente il legno sottile. Rapida come si era accesa, la fiamma
comincio ad indebolirsi sempre più, finché non rimase
solo la brace, pronta ad estinguersi da un momento all’altro.
John la scrutò attentamente
Soprattutto, la mamma gli aveva detto che non doveva fare quella cosa.
Il bambino corrugò la fronte, e il legno contorto e annerito del
fiammifero fu nuovamente avvolto dal fuoco sprigionatosi dalla brace
ormai quasi spenta. John lo guardò bruciare finché la
fiamma non arrivò a lambirgli le dita, poi la fece spegnere con
un’occhiata e gettò il fiammifero consumato a terra. Ne
accese un altro.
Sapeva che era sbagliato, perché tutte le volte che la mamma lo vedeva fare quella cosa impallidiva e correva a chiudere le tende. Gli aveva fatto promettere che non avrebbe mai e poi mai fatto quella cosa davanti a nessuno, mai, in nessuna circostanza. Doveva essere il loro segreto.
John lasciò che il fuoco del fiammifero che aveva tra le dita si
esaurisse senza usare il suo potere. Diede una veloce occhiata alle
assi consunte che bloccavano l’entrata della cava: non gli era
ben chiaro se il minatore fantasma rapisse tutti i bambini
disobbedienti o solo quelli che entravano di nascosto nei cunicoli,
perciò sapeva di dover stare attento. Accese un terzo fiammifero.
A dire la verità, c’erano alcune persone che sapevano di quella cosa. Keith Wilkins, per esempio.
La fiamma bruciava velocemente il legno sottile del fiammifero, e John
alzò la mano sinistra e la aprì, il palmo rivolto verso
l’altro, e ad un tratto il fuoco volò via dal fiammifero e
atterrò sulla sua mano, dove continuò a bruciare. John
fissò la fiamma, poi il suo sguardo scivolò più in
basso, sui lividi scuri che gli coprivano il polso e il braccio.
Distolse gli occhi e chiuse in fretta la mano, estinguendo il fuoco.
Diede un calcio al terreno polveroso ai suoi piedi.
All’inizio le cose andavano bene. Suo padre era molto contento
del nuovo lavoro. John non andava d’accordo con gli altri
bambini, ma non aveva detto nulla, perché anche se non gli
piaceva giocare sempre da solo c’erano altre cose che gli
piacevano di Mount Isa. Accese un altro fiammifero.
Gli piaceva vedere suo padre sedersi in cucina a leggere il giornale,
con il viso sbarbato e i vestiti puliti. Gli piaceva sentire sua madre
canticchiare mentre preparava la cena. Gli piaceva che non ci fossero
vetri rotti sul pavimento e asciugamani sporchi di sangue in giro per
casa. Gli piaceva non dover rimanere sveglio di notte per la paura che
suo padre entrasse barcollando nella sua stanza, brandendo la cinghia
dei pantaloni in una mano e con il fiato che puzzava di birra. Gli
piacevano tutte queste cose e non voleva rinunciarci, anche se i
bambini di Mount Isa lo evitavano e lo prendevano in giro. John
corrugò la fronte, arrabbiato, e dal fiammifero si levò
una potente fiammata. Aveva fatto l’errore di mostrare loro che
sapeva fare quella cosa, e
decisamente quegli stupidi bambini non erano come Keith. A Keith
piaceva un sacco quando John faceva fare al fuoco quello che voleva.
Ma John avrebbe sopportato qualunque cosa, qualunque cosa purché
suo padre fosse felice. Ed era stato così all’inizio. Ma
poi era ricominciato tutto da capo, come negli altri posti in cui erano
stati. Senza rendersene conto, si passò la lingua sulle labbra e
sentì il gusto del sangue quando toccò il punto in cui il
suo labbro superiore era spaccato. Accese un altro fiammifero per non
ricordare quella sera.
Il mattino dopo, a scuola, la signorina Davis l’aveva fissato
spaventata quando l’aveva visto entrare in classe. Alla fine
delle lezioni gli aveva chiesto di rimanere per qualche minuto e gli si
era avvicinata da dietro la cattedra.
“John, come hai fatto a ridurti così?” gli aveva domandato.
Lui non aveva abbassato lo sguardo. “Sono caduto.” aveva risposto.
La signorina Davis si era fermata davanti a lui e lo aveva fissato negli occhi. “Sei caduto.” aveva ripetuto.
“Sì.”
La giovane maestra si era inginocchiata davanti a lui, in modo che i
loro visi fossero alla stessa altezza. “John, va tutto bene a
casa tua?” aveva chiesto.
“Sì.” aveva ripetuto John senza esitare un secondo.
La signorina Davis era rimasta qualche istante in silenzio e si era
scostata i lunghi capelli castano scuro dal viso. Aveva messo una mano
sulla spalla di John, ma l’aveva ritratta subito quando il
bambino aveva sobbalzato con una smorfia di dolore. “John, la
vita in miniera può essere molto dura.” aveva detto con un
tono dolce e comprensivo. “Ma non è giusto che tuo
padre...”
Si era interrotta immediatamente quando aveva visto l’espressione
rabbiosa sul viso del bambino. “Il mio papà è
buono, capito?” aveva ringhiato a denti stretti, la sua voce
piena di collera.
La signorina Davis si era alzata in fretta, spaventata. “Certo, certo.” aveva balbettato.
John vide la fiamma che consumava il fiammifero farsi sempre più
vicino alle sue dita, fino a toccarle. Il fuoco ballò sulla sua
pelle e John aprì lentamente i polpastrelli, facendo cadere il
fiammifero bruciato a terra mentre la fiamma rimaneva in bilico sul suo
indice. Alzò la mano di fronte al viso e fissò assorto il
fuoco che riluceva sulla punta del suo dito senza bruciarlo. Si chiese
cosa stesse accadendo a casa sua. Non sapeva quanto a lungo era rimasto
seduto nel campo, ma immaginò che non dovesse essere passato
molto tempo e la mamma gli aveva detto di stare lontano per un
po’. La fiamma sul suo indice era gialla e tiepida, e John
pensò alla sua mamma seduta al tavolo della cucina che si
premeva il ghiaccio sulla guancia. Chiuse gli occhi e il fuoco si
estinse di colpo.
Riaprì lentamente gli occhi e si alzò in piedi, ma mentre
si infilava la bustina dei fiammiferi in tasca sentì un rumore
che gli fece alzare di scatto la testa. Terrorizzato, John
guardò l’entrata della miniera aspettandosi di vedere il
fantasma, lacero e anemico, allungare le sue dita adunche verso di lui,
ma poi si accorse che il rumore veniva dall’erba alta e non dalla
cava. Si girò e vide un volto nero che lo osservava in mezzo
alle sterpaglie, incurante del vento tiepido che si era alzato e che
gli spingeva gli steli rinsecchiti contro il viso. John lo aveva visto
qualche volta giù al villaggio. Era uno dei colleghi di suo
padre alla miniera, un aborigeno di nome Jukambe. Aveva uno splendido
cacatoa bianco che dormiva su un trespolo davanti alla sua baracca. A
John sarebbe tanto piaciuto toccarlo, ma suo padre gli aveva detto di
non avvicinarsi. Quando gli aveva chiesto il perché si era
arrabbiato e gli aveva dato un ceffone.
“Non ti devo delle spiegazioni!” gli aveva gridato. John si
era accorto che strascicava le parole. “Se ti dico di stare
lontano da quel negro e dalla sua maledetta casa tu fai come ti dico io
e zitto, hai capito?”
Jukambe rimase immobile a fissarlo, e improvvisamente un’ondata
di paura si riversò sul bambino. Lo aveva visto! Lo aveva visto
mentre faceva quella cosa!
John strinse i pugni spaventato, aspettandosi che Jukambe corresse
verso di lui e lo prendesse a spintoni, sputandogli addosso come
avevano fatto i bambini, ma il vecchio aborigeno non fece niente di
tutto questo. Con un’espressione indecifrabile, si voltò e
sparì nell’erba alta.
John rimase per qualche secondo fermo a guardare il punto in cui
l’aborigeno era scomparso, poi l’immagine della sua mamma
gli balzò di nuovo davanti agli occhi e allora si mise a correre
tra le sterpaglie. Avrebbe fatto molto prima se passava dai campi
invece che dalla strada, e poi non voleva incontrare anima viva,
soprattutto non voleva incontrare le mamme di quegli stupidi bambini.
Non gli piaceva come lo guardavano quando passava e poi si giravano a
bisbigliare sottovoce tra di loro. John si domandò se era
perché sapevano di quella
cosa, o semplicemente perché lui era il figlio degli Allerdyce,
e aveva i vestiti di seconda mano e le braccia e le gambe sempre
coperte di lividi.
Il bambino si sforzò di mandare via quei pensieri: ormai era
arrivato a casa. Si fermò di colpo sotto la porta sul retro e
rimase in ascolto, cercando di udire ogni possibile rumore che
provenisse da dietro i muri, ma non riuscì a distinguere nulla,
né il frantumarsi di oggetti né la voce rabbiosa di suo
padre, e nemmeno il pianto sommesso di sua madre. Nella casa
c’era solo silenzio, e John ebbe paura. Lentamente, si
arrampicò sugli scalini di legno e aprì la porta.
Il corridoio era buio e deserto, e John si richiuse la porta alle
spalle, sconcertato e in ansia. “Mamma?” chiamò
piano, ma la sua voce riverberò sulle pareti e si spense senza
ottenere risposta. Sentì la paura aumentare e mordergli
crudelmente lo stomaco, e una voce nel suo cervello gli urlò di
scappare via prima che fosse troppo tardi, ma John la ignorò.
Cominciò ad avanzare nel corridoio, deciso a trovare la mamma.
Era proprio davanti alla stanza dei suoi genitori quando sentì una voce chiamarlo da dentro la camera.
“John.”
Il bambino si gelò, spaventato a morte. Riconosceva quella voce.
Troppo terrorizzato per muoversi, rimase fermo a fissare con gli occhi
sbarrati e pieni di lacrime il corridoio buio di fronte a lui, mentre
un rivolo di sudore gelido gli correva lungo la spina dorsale.
“John.” chiamò di nuovo suo padre.
John si voltò. La porta era aperta e il bambino potè
vedere suo padre seduto nella sedia che stava accanto
all’armadio, a circa sei metri da dove stava lui ora. Il suo
cervello calcolò rapidamente se quella distanza gli avrebbe
consentito di scappare via senza essere preso. Troppo poco, concluse
infine. Anche se si fosse messo a correre, suo padre gli sarebbe
piombato addosso in un baleno. Cominciò a tremare.
Suo padre gli tese le braccia. “Vieni qui.” sussurrò.
John trattenne il respiro. Conosceva fin troppo bene quelle due parole,
ma c’era qualcosa di sbagliato nel tono di voce che suo padre
aveva utilizzato. Di solito suo padre non sussurrava quel comando: lo
gridava, oppure lo ringhiava. E non stava seduto, ma in piedi, pronto
ad afferrarlo per un braccio o per i capelli e sbatterlo a terra o
contro un muro. E poi avrebbe preso la cinghia.
Ma questa volta suo padre non sembrava aver intenzione di fare nessuna
di queste cose. Rimase seduto sulla sedia con le braccia tese verso suo
figlio, un vago sorriso sul volto stanco. John notò che aveva
dei cerchi neri sotto gli occhi e non si faceva la barba da almeno un
paio di giorni. Prima di rendersene conto, cominciò ad avanzare
verso di lui.
Arrivò a due passi dalla sedia e poi si fermò, troppo
terrorizzato per avvicinarsi oltre. Suo padre sorrise di nuovo e si
sporse in avanti, afferrandolo per la vita e attirandolo a sé, e
istintivamente John serrò gli occhi e alzò le braccia per
proteggersi il volto, mentre la paura e l’ansia facevano
accapponare ogni centimetro della sua pelle. Ecco, adesso mi picchia... Mi picchia... continuava
a ripetersi il suo cervello come un disco rotto. Le lacrime ritornarono
a riempirgli gli occhi, pronte a riversarsi sul suo volto non appena il
primo colpo gli fosse piombato addosso.
Ma poi sentì le mani di suo padre prenderlo sotto le ascelle e
sollevarlo da terra, per poi metterselo seduto sulle ginocchia. John
aprì gli occhi, sorpreso, e alzò lo sguardo sul viso di
suo padre, incapace di comprendere quello che stava accadendo. Lui si
serrò il bambino contro il petto e gli restituì lo
sguardo. Due paia di occhi blu scuro si fissarono gli uni negli altri.
“Sei cresciuto.” disse suo padre. La sua voce era bassa e
dolce, e a John sembrò che gli si infilasse sotto la pelle e gli
perforasse il cuore come la lama di un pugnale. Suo padre sorrise e gli
scompigliò affettuosamente i capelli castani. “Sei
diventato proprio un ometto. Un bravo ometto.”
John rimase in silenzio ad ascoltare la sua voce, a guardare il suo
sorriso e a sentire la sua mano che gli accarezzava dolcemente la
testa, ed ebbe voglia di piangere. Si impose però di non farlo:
il suo papà gli aveva appena detto che era diventato un ometto,
e non voleva fargli cambiare idea.
Suo padre sorrise ancora e gli diede un buffetto sulla guancia.
“Dai un bacio al tuo vecchio, John.” sussurrò.
Lentamente, John alzò il viso e si sporse in avanti
finché le sue labbra non toccarono la guancia ruvida di suo
padre, e premette un bacio appena a sinistra dell’articolazione
della mandibola, incurante della barba ispida che gli pungeva la bocca.
Prima che avesse il tempo di tirarsi indietro, le braccia di suo padre
lo avvolsero stretto in un abbraccio e la sua guancia si
appoggiò a quella del bambino, serrandogli la testa tra la sua
spalla e il suo collo, mentre le sue mani gli accarezzavano senza sosta
i capelli e la schiena.
John chiuse gli occhi e rilassò la testa sulla spalla del suo
papà. Il petto di suo padre era caldo e rassicurante, e mentre
seppelliva il viso contro il suo collo John sentì l’odore
di alcol che la doccia di poco prima non era riuscita a lavare via del
tutto. Di nuovo quella sensazione dolorosa si fece strada nel suo
cuore. Non riusciva a spiegarsi perché provasse quel dolore;
sapeva solo che faceva male, e gli metteva voglia di piangere. Faceva
più male di qualunque cosa avesse mai provato prima in vita sua.
Proprio qualunque cosa.
Improvvisamente, suo padre interruppe il suo abbraccio e depose
delicatamente il bambino a terra. John lo guardò stupito, la
pugnalata nel suo cuore più dolorosa e sanguinante che mai.
“Va’, adesso.” disse suo padre.
John avrebbe voluto parlare, ma non ci riuscì. Allora si
voltò e si incamminò in silenzio verso il corridoio, e si
girò indietro solo per un istante mentre attraversava la soglia
della stanza. Suo padre sedeva immobile sulla sedia accanto
all’armadio, il suo sguardo fisso sul bambino. Per la prima volta
da quando era nato, John si rese conto che gli occhi di suo padre erano
assolutamente identici ai suoi.
Beckley, West Virginia, USA.
Tre anni più tardi.
“Mamma! Mamma! Ti prego, rispondimi! Mamma!”
Katherine Allerdyce giaceva immobile sul pavimento della cucina, il suo
volto tumefatto e insanguinato rivolto verso il soffitto. Una pozza
scura di sangue si allargava da sotto la sua testa, sporcandole i
capelli castani, e i suoi occhi verdi erano spalancati come se stesse
scrutando attentamente qualcosa sopra di loro. Suo figlio John era
inginocchiato accanto a lei e la scuoteva, chiamandola a gran voce, le
mani che gli tremavano convulsamente e le lacrime che gli bruciavano il
volto, scorrendo roventi sulle guance.
“Mamma!” urlò di nuovo John, incapace di smettere di piangere. “Mamma, sono io! Guardami!”
Scrutò ansiosamente il viso di sua madre, cercando il più
piccolo movimento che gli indicasse che si stava riprendendo.
Dopotutto, aveva gli occhi aperti, no? Se le fosse successo qualcosa di
brutto, le sue palpebre sarebbero state chiuse, era sempre così
nei film. Invece lei no, aveva gli occhi aperti e quindi stava bene, si
ripeteva John mentre le sue mani continuavano a scuoterla, doveva
solo...
“Katherine.”
John si voltò. Suo padre era in piedi nel centro della stanza,
nel punto esatto in cui era quando le aveva dato l’ultimo pugno,
e fissava il corpo di sua moglie steso sul pavimento freddo, il viso
distorto in un espressione di totale stupore.
“Katherine.”
sussurrò di nuovo, e lo sguardo di John scivolò dal volto
di suo padre alla sua mano destra, ancora serrata. Poi il pugno si
aprì, e il bambino guardò il braccio alzarsi lentamente
fino a che la mano non arrivò a coprire la bocca. Si accorse che
gli occhi blu di suo padre si erano alzati da terra e ora fissavano
pieni di orrore qualcosa appena sopra la sua testa, e John si
voltò. Sul muro, a circa un metro e mezzo da terra, c’era
una macchia di sangue, e al sangue era mischiato qualcosa di grumoso e
molle. Il bambino trattene il fiato mentre un pensiero orrendo, una
possibilità che lui proprio non voleva vedere, si affacciava
alla sua mente, deforme e spaventoso come i mostri delle fiabe che la
sua mamma gli raccontava quando lo metteva a letto.
No, no, non è vero! Non è vero! gridò il suo cervello mentre John tornava a scrutare il viso di sua madre. Ha gli occhi aperti!
Si chinò su di lei, fiducioso e disperato allo stesso tempo. Ma
non c’era traccia della luce che di solito brillava nelle sue
pupille color smeraldo. I suoi occhi erano opachi e spenti, come biglie
di vetro che hanno rotolato troppo a lungo sull’asfalto, ed erano
completamente fuori fuoco. Vuoti.
E fu allora che John capì.
Il dolore lo colpì forte e senza alcuna misericordia,
stritolandogli lo stomaco ed espellendo violentemente tutta
l’aria dai suoi polmoni. Il bambino continuò a guardare
gli occhi senza vita della sua mamma, paralizzato dalla sofferenza e
dalla disperazione, mentre il dolore si arrampicava lungo il suo corpo
e cominciava a divorargli il cuore con denti affilati, fibra dopo
fibra. Incapace di resistere oltre a quel tormento atroce, John si
voltò singhiozzando verso suo padre, e tutto ciò che
riusciva a pensare, tutto ciò che riusciva a desiderare era
correre dal suo papà e buttarsi fra le sue braccia,
perché lui lo stringesse a sé e lo consolasse, e mandasse
via tutta quella sofferenza.
Ma prima che John potesse muoversi, suo padre staccò lo sguardo
e gli voltò le spalle. Da dov’era inginocchiato il bambino
lo
vide camminare velocemente fuori dalla cucina fino a sparire nel
corridoio buio, poi udì la porta d’ingresso aprirsi e
richiudersi e i passi di suo padre riecheggiare sulle scale del
palazzo, mentre dalla strada giungevano fino al piccolo appartamento al
quarto piano le sirene della polizia. John pensò confusamente
che la signora Lerey, la loro vicina, doveva essere stata svegliata
dalla lite e anche stavolta aveva chiamato il 911. Domani se la prenderà con la mamma, si disse.
Tornò a guardare il suo volto, e lentamente, evitando di premere
sui tagli e sui lividi per non farle male, John scostò una
ciocca di capelli che le ricadeva sulla fronte. La punta delle sue dita
sfiorò la pelle fredda, e allora il bambino si sdraiò
accanto al corpo della sua mamma e l’abbracciò stretta per
scaldarla, incurante dei poliziotti che chiamavano dal pianerottolo.
Quando li sentì sfondare la porta John chiuse gli occhi e si
raggomitolò più vicino a lei, respirando il suo profumo e
appoggiando la fronte contro la pelle morbida del suo braccio.
Alla fine dovettero strapparlo via a forza dal cadavere di sua madre,
mentre il bambino strillava, graffiava e mordeva. Dopo estenuanti
minuti di lotte e grida, un poliziotto di mezza età, robusto e
basso, approfittò della sua stanchezza per prenderlo in braccio
e sistemarlo sul sedile del passeggero nell’auto di servizio, poi
si inginocchiò di fronte a lui. John lo guardò senza
parlare, sfiancato dalla lotta e dal dolore.
“Ciao, ometto.” disse il poliziotto. “Ho sentito dire che ti chiami John.”
Il bambino annuì debolmente. Avrebbe voluto gridare ancora,
combattere ancora per la sua mamma, ma davvero non ce la faceva
più. Le mani gli facevano male e aveva strillato talmente tanto
che la gola gli bruciava.
Il poliziotto gli sorrise. “Anch’io mi chiamo John,
sai?” disse mentre si toglieva il giubbotto e lo appoggiava sulle
spalle del bambino seduto di fronte a lui. “E a casa ho un ometto
che ha più o meno la tua età, pensa un po’.”
John rimase in silenzio e il poliziotto gli accarezzò dolcemente
i capelli.
“Sei stato molto bravo ad occuparti della tua mamma, John.”
sussurrò guardando il bambino dritto negli occhi. “Ma
adesso è tardi e tu sei molto stanco. Vuoi darci il permesso di
occuparci noi di lei?” John non rispose. Si limitò a
restituirgli lo sguardo.
“Ti prometto che la tratteremo bene, John.” continuò
il poliziotto con il tono dolce di poco prima. Tese la mano destra
verso il bambino. “Te lo giuro sui miei figli.”
Dopo qualche secondo, John alzò lentamente la mano e strinse
quella del poliziotto. “Va bene.” mormorò
debolmente, poi reclinò la testa contro lo schienale del sedile
e chiuse gli occhi per qualche secondo, ormai privo di energie. Il
poliziotto gli accarezzò di nuovo i capelli e gli avvolse
più stretta la giacca attorno al corpo.
“Abbi pazienza ancora un minuto, ometto” gli disse mentre
si alzava in piedi. “Adesso andiamo in centrale e ci prendiamo
cura di te.” Sorrise. “Puoi stare sul sedile anteriore.
Sono sicuro che al mio collega non dispiacerà cedere il posto a
un bambino bravo e coraggioso come te.”
Per tutto il viaggio John rimase seduto senza dire una parola, a
malapena cosciente dei due agenti che gli parlavano senza sosta,
cercando di farlo distrarre. Il poliziotto robusto gli chiese se voleva
accendere le sirene, e John pensò che normalmente gli sarebbe
piaciuto moltissimo. Rimase zitto e immobile mentre la strada si
snodava buia e sconosciuta sotto i suoi occhi e lentamente
sprofondò in un vago stato di semicoscienza, in cui non esisteva
nulla se non quella sofferenza che gli martellava incessantemente nel
petto.
Non avrebbe saputo dire quanto a lungo viaggiarono, né dove si
fermarono; l’unica cosa che sapeva era che ora stava seduto da
solo in un piccolo ufficio con le pareti di vetro. Si guardò
lentamente intorno, e vide che nei corridoi uomini e donne con
l’uniforme blu correvano avanti e indietro in preda
all’agitazione, di tanto in tanto lanciando occhiate piene di
affetto e di pietà al bambino seduto sulla sedia di fronte alla
scrivania, nel centro della stanza.
John staccò gli occhi dai poliziotti e fece correre senza alcun
interesse lo sguardo sui mobili nell’ufficio. Alla sua destra
c’era una lunga panca di legno chiaro, che aveva l’aria di
essere molto vecchia e malmessa. Appoggiati alla parete di fondo e a
quella di sinistra c’erano degli schedari bassi, anch’essi
di legno, pieni di grosse cartelle nere, alcune molto impolverate.
Proprio davanti a John c’era una scrivania di legno scuro che
faceva a pugni con il resto dell’arredamento. Sul ripiano,
nell’angolo di destra, c’erano alcuni portafoto di metallo
(John non poteva vedere le immagini, dato che le cornici erano rivolte
verso la parete dietro la scrivania), mentre nell’angolo di
sinistra c’era una piccola abat-jour di bachelite nera. La
lampadina era accesa, e improvvisamente il bambino si rese conto che
c’era qualcosa di lucido e scintillante appoggiato sul ripiano
della scrivania, in mezzo a tutti i fogli che vi giacevano alla
rinfusa. Si sporse in avanti e vide che la fonte di quel bagliore era
un grosso accendino di metallo, uno di quei bei accendini che John
aveva visto di tanto in tanto nella vetrina di qualche negozio. Questo
accendino, però, era diverso da qualunque altro avesse mai visto
prima. Il disegno di una testa di squalo ornava la parte superiore, uno
squalo con le fauci spalancate e i denti bianchi ed acuminati che
risaltavano minacciosi nello sfondo rosso acceso della bocca.
John ripensò al libro degli animali che era rimasto sul comodino
accanto al letto, nella sua cameretta, e abbassò lentamente lo
sguardo. Si accorse che sui pantaloni si allargavano alcune macchie di
sangue rappreso e si sentì in colpa. La mamma si arrabbierà quando vedrà questo disastro,
pensò, ma poi si ricordò di tutto quanto e si
affrettò a distogliere lo sguardo dal sangue, mentre il dolore
ricominciava a strappare via pezzi del suo cuore. Guardò di
nuovo fuori dalle vetrate che componevano le pareti dell’ufficio,
e vide che tutti i poliziotti avevano smesso di correre avanti e
indietro e stavano fissando la porta della centrale.
Suo padre entrò scortato da due agenti, le braccia ammanettate
dietro la schiena e la stessa espressione di ammutolito stupore sul
volto. I poliziotti che lo tenevano in custodia sembravano avere fretta
mentre lo spingevano lungo il corridoio, mentre i loro colleghi
osservavano pieni di repulsione il loro prigioniero. John li vide
mormorare qualcosa a suo padre quando passava loro a fianco, i visi
contorti in un’espressione di rabbia e di disprezzo. Un giovane
poliziotto biondo lo prese per il bavero della giacca quando gli
passò vicino, ringhiandogli in faccia qualcosa, ma suo padre non
alzò gli occhi. Continuò a guardare per terra come se non
riuscisse proprio a capacitarsi di quello che gli stava succedendo, e
rimase inerte anche quando il poliziotto biondo lo scosse,
probabilmente irritato per la sua totale mancanza di reazione.
John continuò a guardare mentre i due agenti di scorta
riprendevano a spingerlo lungo il corridoio, e tenne gli occhi fissi
sulla schiena di suo padre finché non lo vide scomparire oltre
una porta. Allora distolse in fretta lo sguardo e i suoi occhi
incrociarono il bagliore argenteo dell’accendino sulla scrivania.
Le pupille nere dello squalo sembravano reggere lo sguardo del bambino,
ammiccandogli da sotto i fogli con fare arrogante e crudele, e allora
John allungò la mano e si infilò velocemente
l’accendino in tasca.
La porta dell’ufficio si aprì e il bambino si girò,
guardando senza alcun interesse la donna che varcò la soglia.
Era una giovane donna di colore sui trent’anni, alta e magra, con
i capelli castani tagliati cortissimi. Si avvicinò a John e gli
sorrise amichevolmente. Lui si limitò a guardarla con lo stesso
sguardo indifferente di prima.
“Ciao John.” gli disse la donna. Il suo tono era affabile e
confidenziale, come se loro due fossero grandi amici, e John
abbassò gli occhi. “Io mi chiamo Lisa. Ti va di venire
insieme a me?”
Il bambino non disse nulla e continuò a guardare altrove. Lisa
non sembrò perdersi d’animo. “Sei mai stato a
Charleston, John?” gli domandò con lo stesso tono gentile.
Aspettò qualche secondo, senza successo, che lui le rispondesse.
“No? Beh, è una grande città.”
proseguì. “La più grande del nostro stato. Adesso
io e te prendiamo la macchina e ci andiamo, d’accordo?”
John si voltò di scatto e la guardò. “No.”
rispose. La sua voce era bassa ma decisa. “Non voglio. Voglio
andare a casa mia.”
Lisa smise di sorridere. “Mi dispiace, John, ma non
è possibile.” gli disse con dolcezza. “Non puoi
tornare a casa tua. Devi venire con me. Vedrai che...”
“No.” ripeté piano il bambino. “Voglio andare a casa.”
Lisa lo guardò. “John, non puoi.” disse di nuovo.
Per un istante, un’espressione preoccupata le attraversò
il viso, ma poi si sforzò di sorridere ancora al bambino che la
guardava serio e deciso. “Sai, il posto in cui stiamo andando
è una grande casa.” gli spiegò pazientemente.
“E ci sono un sacco di altri bambini che abiteranno lì
insieme a te, così non ti sentirai mai solo. Poi
c’è anche un cortile con le altalene e lo scivolo e tu
potrai giocarci tutte le volte che vorrai.” Lisa sembrò
ricordarsi di qualcosa, e il suo sorriso si allargò. “Sai,
c’è anche una gatta bianca e nera che si chiama Swoop
lì nella casa, e appena quattro settimane fa ha avuto i gattini!
Devi proprio vedere come sono belli, John, sono piccoli così
e...”
“Non mi interessa!” urlò John balzando in piedi,
arrabbiato. Aveva i pugni serrati e gli occhi offuscati dalle lacrime.
“Voglio andare a casa dalla mia mamma!”
Lisa fissò gli occhi in quelli del bambino. Lentamente si
inginocchiò davanti a lui, come aveva fatto il poliziotto, in
modo che i loro visi fossero alla stessa altezza. “John.”
sussurrò. “Tu capisci quello che è successo
stasera?”
John le restituì lo sguardo per un po’, poi abbassò
gli occhi. Le macchie di sangue secco gli macchiavano ancora i
pantaloni, e allora il bambino fece scivolare la mano destra in tasca e
strinse con forza l’accendino. Tracciò lentamente il
profilo del coperchio con l’indice, pensando allo squalo che vi
era disegnato sopra, e improvvisamente ebbe la certezza che non avrebbe
mai più sfogliato il suo libro degli animali.
Alzò gli occhi e guardò Lisa. “Sì.” le rispose con un sussurro.
Boston, Massachusetts, USA.
Oggi.
John guardò Meredith, in piedi a fianco a lui sul portico dei
Drake, e sentì la mano di lei tremare nella sua. La
guardò fissare i poliziotti che li circondavano con il volto
bianco per il terrore e le labbra leggermente dischiuse, come se fosse
sul punto di scoppiare a piangere. Vide le lacrime riempire i suoi
occhi grigi, ingigantiti per la paura, e qualcosa nella sua mente
scattò, come un ingranaggio che torna finalmente al suo posto.
No, questa volta no, si disse,
e la sua mano cominciò a scivolare lentamente via da quella di
Meredith. Lei aveva talmente tanta paura che sembrò non
rendersene conto.
John si voltò a guardare gli agenti che stavano in piedi sul
prato, le pistole puntate contro di loro e gli sguardi cattivi.
Sentì la rabbia agitarsi nel suo stomaco e crescere, crescere
fino a traboccare e invadere ogni singola cellula del suo corpo,
lasciando un sentiero di fuoco lungo il suo cammino. Non avrebbe mai
più permesso a nessuno di farle del male, mai, cazzo, mai! Quel
capitolo della sua vita era chiuso per sempre.
Fece scattare l’accendino e il suo sguardo scivolò
velocemente sugli agenti in piedi a qualche metro da lui e sulle loro
stupide auto ferme sul prato. Questa volta le cose sarebbero andate in
modo diverso. Non conosceva quelle persone; loro non significavano
niente per lui. Questa volta non ci sarebbe stato nessun amore a
bloccarlo, nessun affetto che lo avrebbe tenuto incatenato a sé.
Questa volta era libero, e aveva intenzione di fargliela pagare.
“Avete presente quei pericolosi mutanti di cui parlano i
telegiornali?” disse mentre il fuoco ruggiva nelle sue vene.
“Io sono il più cattivo.”
Il suo braccio sinistro scattò all’indietro, spingendo
Meredith da parte, dove le fiamme non avrebbero potuto farle del male,
e contemporaneamente la sua mano destra raccolse il fuoco
dall’accendino.
Poi John si girò verso i poliziotti.
................................................................................................................
Prima di salutarci, vorrei
fare alcune precisazioni. Nella versione originale, quella del fumetto,
Pyro è australiano. Mi sembrava carino riprendere questa sua
caratteristica. Il minatore Jukambe (e il suo cacatoa bianco) avranno
un ruolo molto importante nella conclusione della "trilogia" (se posso
permettermi di abusare di questo termine da scrittrice seria...) di
John e Meredith, che si intitola "Dark Road" e sarà in parte
ambientata in Australia, nella miniera di Mount Isa, che insieme a
tutti gli altri luoghi citati nel testo (Argyle, Broken Hill, Beckley)
esistono veramente e sono veramente sedi di miniere (e a questo punto
proporrei una standing ovation per Wikipedia!)
Bene, mi auguro che questa
piccola one shot vi sia piaciuta. Spero di poter cominciare presto a
pubblicare "Dark Road", ma per il momento non posso fare previsioni. Un
bacio a tutti!!!!
|