Ricordi ancora il giorno in cui le cicale
hanno cantato?
Hunter, ricordi ancora il giorno in cui le cicale hanno cantato?
Era un pomeriggio di fine estate, gli ultimi giorni di pace prima della
Guerra.
Avevamo combattuto a lungo, da decenni il peso di un conflitto troppo
lungo si trascinava su due popoli troppo diversi tra loro. Eppure,
stupidi come eravamo, nell'età in cui l'incoscienza è ancora tollerata,
perché troppo spesso il confine con il coraggio è troppo labile per
essere notato, pensavamo di conoscere già tutto, della guerra. Non ne
conoscevamo che la facciata.
Il sangue, gli scontri, a quello ormai eravamo abituati: noi
combattevamo fin dall'età in cui eravamo stati in grado di riconoscere
il nostro Spider, e tu ti eri abituato fin troppo facilmente a quella
vita. Solo molto più tardi mi hai raccontato che nel tuo mondo è
normale combattere, che mai nella storia è esistito un momento in cui
qualcuno non abbia ucciso. Uno stato di guerra continua, che con il
tempo è andata sempre più raffinandosi: se una volta si parlava di
guerra, adesso si parla di assassinii, omicidi, rapine, corruzione,
soldi e sempre soldi, e tutto per il controllo di un pugno sempre più
esiguo di risorse.
A pensarci a mente fredda, in quello non eravamo poi molto diversi da
voi: anche noi lottavamo per il controllo di qualcosa.
Il Sole.
Mi hai raccontato, quell'estate, delle guerre del petrolio, in paesi
che io non vedrò mai, ma che con le tue parole tu sapevi rendere quasi
reali. Tangibili. Ho sentito uscire dalla tua bocca i dettagli più
atroci di guerre che hanno coinvolto il mondo intero, pensiero per noi
quasi inconcepibile: come possono esistere così tante persone disposte
a morire, in uno spazio così esiguo come può esserlo un pugno di terra,
al punto che la morte di milioni di loro ha a malapena intaccato il
numero di coloro che abitano il mondo? Noi Turandots non siamo poi
molti, e gli Invectied a causa della costante carestia sono anche meno.
Siamo sparsi per il Mondo Interno, qualcuno forse è giunto fino agli
estremi lembi della nostra terra, e questo ci ha indebolito durante la
guerra.
Come sarebbe stato meglio se avessimo potuto viaggiare ancora, scoprire
il mondo, e sapere che ciò che avevamo lasciato era sicuro ed in pace!
Sognata utopia! Abbiamo richiamato navi e uomini, vecchi in ritiro e
giovani pieni di speranze, e li abbiamo costretti a combattere e morire.
No, nessuno è stato costretto…
Ma lo hanno fatto lo stesso, hanno rinunciato a se stessi ed ai loro
sogni, ed è stato un po'come morire. Noi e la nostra terra, che di
sogni e speranze si nutre e si rafforza. Per i padri, le figlie, le
sorelle, tutti sono tornati ed hanno combattuto, e sono morti. Per il
regno che amavano, a cui sognavano di tornare ricchi di nuove
conoscenze, e che li ha rinchiusi in soffocanti armature e costretti ad
imbracciare armi che non erano in grado di usare.
Eppure lo facevano e lo accettavano, perché sapevano che in prima fila
c'eravamo noi…
Gli SPIDER RIDERS…
Abbiamo combattuto più di chiunque altro, ma d'altronde lo sapevamo sin
dal momento in cui abbiamo allacciato per la prima volta i bracciali al
polso: la pace non era per noi. Noi ne eravamo i fautori, non i
fruitori …
Ci siamo sporcati di sangue, nostro ed altrui, a tal punto da non
distinguere più dove finiva il nostro ed iniziava il loro, al punto che
le nostre armature avevano assunto un uniforme colore rosso, che ci
faceva spiccare ancora di più tra la massa degli Invectied che dovevamo
combattere. Ci siamo sfiniti, a suon di allenamenti, per diventare
sempre più abili e più forti, mentre Igneo ci incitava ed elaborava
strategie sempre più complesse, al punto che alla sera non eravamo
quasi più in grado di camminare, e crollavamo sui nostri letti senza
avere a malapena il tempo di svestirci. Eravamo sciocchi, e
soddisfatti, perché quasi non ci rendevamo conto di quello che
facevamo. Che quella vita ci stava trasformando sempre più in macchine
da guerra.
Ma questo apparteneva al passato, ed al futuro.
Quel pomeriggio di fine estate, eravamo all'ombra di un salice, ed era
tregua. Non c'era stato nessun accordo diplomatico, nessun incontro o
scambio di messaggi, eppure sembrava che di comune accordo sia noi che
gli Invectied avessimo deciso che quel giorno doveva essere dedicato al
riposo.
Avrei dovuto capirlo che qualcosa stava cambiando quando tu quella
mattina, incredibilmente presto per te, che non eri mai mattiniero, mi
proponesti di scappare dal castello e saltare gli allenamenti ed andare
a zonzo da qualche parte, solo noi due, senza i nostri Spider. La cosa
che mi stupì, fu l'incredibile prontezza con cui ti risposi di sì, come
se non avessi nemmeno avuto bisogno di pensarci. Effettivamente col
senno di poi, mi resi conto che io non ci avevo nemmeno pensato, di
rifiutare, come se già sapessi dentro di me che quel giorno non doveva
andare sprecato. Non che io abbia mai considerato gli allenamenti una
perdita di tempo anzi, mi ci sono sempre impegnata: sentivo che quella
era l'unica strada che mi avrebbe permesso di difendere il mio
villaggio, i miei compaesani, e le mie sorelle.
Eppure quel giorno accettai di seguirlo.
Ancora oggi guardo con rimpianto quel giorno. Il giorno in cui tutto è
cambiato.
Non siamo riusciti a seminare i nostri Spider. A rigor di logica, non
ci abbiamo nemmeno provato: è impossibile far perdere le proprie tracce
a qualcuno che può sentire i tuoi pensieri.
Non ci hanno rimproverati, e questo avrebbe dovuto farci capire che
qualcosa stava per succedere: non penso che loro lo sapessero, nessuno
poteva farlo, ma forse lo avvertivano, come noi avvertivamo un senso di
fretta in ogni cosa che facevamo, in ogni gesto che compivamo. Era come
se l'Oracolo ci ripetesse nell'orecchio"Sbrigatevi, sbrigatevi, non
indugiate, non c'è più tempo".
Per questo non abbiamo trovato strano salire ancora una volta sulla
schiena di quelli che erano i nostri compagni di battaglia, e lasciarci
guidare da loro. Abbiamo percorso con loro, in poche ore, molta più
strada di quella che noi saremmo mai riusciti a fare a piedi in
un'intera giornata, ma non abbiamo mai, neppure una volta, rivolto la
domanda: "dove stiamo andando?". Era come se sentissimo che quelle
parole avrebbero rotto l'incanto, e ci avrebbero spinti a tornare
indietro, per sfinirci ancora una volta nel cortile del palazzo fino a
che il sole non si fosse affievolito. Siamo rimasti in silenzio, ed
abbiamo permesso ai nostri Spider di guidarci. Il destino in quel
momento giocava a dadi con la nostra indecisione: se un solo dubbio ci
avesse fatto esitare, se per un solo attimo avessimo considerato l'idea
di tornare indietro, ciò che avvenne dopo non avrebbe mai avuto la
possibilità di compiersi.
Siamo andati lontano, in una valle estranea a uomini e insetti, e lì
abbiamo trovato il paradiso.
Se mi chiedessero se esiste un luogo in cui la guerra non è mai
arrivata, penserei immediatamente a quella valle.
Siamo scesi da Shadow e Venus, e siamo rimasti incantati: in quel
luogo, il Sole dell'Oracolo aveva mostrato tutta la forza del suo
potere, compiendo il miracolo. L'erba dei prati, verdissima, si
estendeva a vista d'occhio, contornata da interi campi di fiori, tali
che quelli del villaggio dei fiori odorosi quasi stonavano al
confronto. La valle era attraversata per l'intera lunghezza da un
torrente limpidissimo, che proprio davanti a noi si buttava dalla
montagna in un laghetto trasformandosi in cascata, creando nell'aria
meravigliosi arcobaleni di luce. L'aria era profumata, e calda.
Non so per quanto rimanemmo persi a contemplare quel paradiso, ma
quando ci voltammo, i nostri Spider se n'erano andati. Neppure per un
attimo fummo colti dalla paura che non sarebbero tornati: il dovere di
combattere apparteneva ancora a noi, ed era radicato troppo in
profondità, perché potessimo semplicemente metterlo da parte per
sempre.
Sapevamo troppo bene di avere solo quel giorno.
Perlomeno, dapprima nulla parve mostrare che fra noi fosse cambiato
qualcosa: Hunter continuò a scherzare come suo solito, e per un po'
fummo troppo occupati a ridere, per pensare ad alcunché.
Solo più tardi, quando il tempo degli scherzi era ormai giunto al
termine, ci sedemmo sotto un salice, che svettava imperioso su una
collinetta punteggiata qua e là di fiori arancioni.
Ancora oggi quel momento riaffiora nella mia mente con estrema
nitidezza, come se il tempo non fosse mai passato e ci trovassimo
ancora sotto quell'albero, in un giorno di sole di fine estate, a
parlare e vivere. Ricordo la luce che filtrava attraverso le fronde
cadenti del salice, riflettendosi su ogni foglia e colorando il mondo
intorno a noi di un verde tenue. Ricordo il profumo dei fiori, che ci
inebriava, e la brezza tiepida, che ci cullava.
C'era, in quel luogo, un senso di intimità.
Hunter era seduto fra le radici sporgenti dell'albero, con la schiena
appoggiata al tronco, e parlava del suo mondo: era diventato da qualche
tempo il suo argomento di conversazione preferito, ed era sempre
esaltato quando lo faceva, così che finiva spesso per lasciarsi
trasportare, dimenticandosi di spiegare il significato di molte parole
a noi sconosciute. Era come se volesse passare tutti i suoi ricordi a
qualcuno, come se avvertisse che presto non avrebbe più potuto essere
lui, a portare la testimonianza di quel mondo lontano. In quel momento,
era impegnato a parlare di qualcosa che aveva chiamato cinema, e di
film. Per un po'mi ero sforzata di seguirlo, sembrava un argomento
parecchio interessante, ma avevo invece finito per lasciarmi scivolare
con la schiena lungo il tronco, chiudendo gli occhi e lasciando che le
sue parole mi cullassero verso il sonno. Mi ci volle un po', per
rendermi conto di non sentire più la sua voce. Nonostante ciò,
avvertivo ancora la sua presenza al mio fianco, e questo era per me
fonte di sicurezza. Sentivo che finché lui fosse stato al mio fianco,
tutto sarebbe andato bene. Il silenzio che si era creato fra noi era
leggero, come se anche le nostre voci avesse deciso di riposarsi, per
quel giorno. Non aveva nulla di aspettative o sottointesi, non c'erano
domande che aleggiavano nell'aria in attesa di risposta, o imbarazzi
che ci impedissero di rivolgerci la parola. Rimanemmo lì per molto
tempo, lasciandoci cullare dallo scrosciare della cascata e dai rumori
che solo la natura incontaminata può produrre. Per questo fui colta
impreparata, quando lui tornò a parlare. Non mi rivolse nessuno strano
discorso, non disse nessuna parola che potesse turbarmi. Semplicemente
disse il mio nome.
"Corona"
Se fossimo stati a palazzo, o in qualunque altro luogo, mi sarei
limitata a rispondergli "Sì?", senza muovermi e neppure aprire gli
occhi: non avevamo bisogno del contatto visivo per capirci, noi che
comunicavamo a gesti, a pensieri, durante le battaglie. Noi che eravamo
in grado di capire l'altro senza che questo parlasse, senza vederlo,
quasi, perché ci conoscevamo l'un l'altro quasi quanto conoscevamo noi
stessi.
In quel momento però, le sue parole ruppero il silenzio, e con lui il
tempo andò in frantumi. Era come se il tempo, fino a quel momento,
fosse rimasto cristallizzato, e quella semplice parola, detta da lui,
avesse fatto cambiare la rotazione del mondo: l'atmosfera si caricò di
attesa, e ancora più forte avvertii la sensazione che qualcosa stesse
per cambiare. Per questo mi girai, verso di lui, più stupita dall'aver
udito la sua voce che dal fatto che avesse appena pronunciato il mio
nome così, quasi senza motivo.
E come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, Hunter appoggiò
le sue labbra sulle mie.
Non mi soffermai a ragionare sulle sue motivazioni, semplicemente
risposi al bacio allo stesso modo, lasciando scivolare le labbra sulle
sue ed afferrando con una mano la sua maglietta, all'altezza del petto,
mentre usavo l'altra per mantenermi in equilibrio. Fu quando lo sentii
premere con più forza contro la mia bocca che mi resi finalmente conto
di quello che stavamo facendo, e sgranando gli occhi realizzai con
sgomento che io lo stavo baciando. Probabilmente anche Hunter si rese
conto del mio cambiamento di umore, perché lentamente si allontanò, e
per la prima volta in vita mia vidi i suoi occhi a pochi centimetri dai
miei, infinitamente verdi ed infinitamente più scuri di quanto fossero
mai stati. Prima che me ne rendessi conto, avevo di nuovo annullato la
distanza tra noi, e lo stavo baciando di nuovo. Quel che successe dopo,
fu un turbinio di vento in una notte d'estate: ricordo la bellezza dei
fiori, che ci fecero da cuscino, la morbidezza dell'erba, che fu il
nostro letto, e la cortina di foglie del salice, che ci nascose, per
poche ore, al mondo, regalandoci la dolce sicurezza di un'intimità
inviolabile. Facemmo l'amore lì, su quel prato, e fu bellissimo. Fu la
prima volta, la nostra prima volta. Eravamo giovani, e ingenui, e
nessuno dei due sapeva cosa provasse l'altro perché, sciocchi ed ebbri
di felicità, avevamo dimenticato di chiedercelo. Eravamo in un
paradiso, ma in quel momento il paradiso era dentro di noi.
Di quei momenti, ho solo ricordi confusi e bellissimi: le mani di
Hunter che stringevano le mie, il fresco dell'erba sotto la schiena
nuda, i suoi baci e le sue carezze. I suoi occhi verdi che mi
guardavano ardenti di desiderio, i nostri corpi allacciati, i gemiti
soffocati sulla pelle con baci roventi, ed il mio nome… Il mio nome
ripetuto come una cantilena, così tante volte da convincermi che lui vi
vedesse un significato diverso, oltre a quello che può esservi in un
semplice nome. E poi, nell'attimo finale, in cui i nostri corpi
divennero uno solo, una frase…
"Ti…amo"
Fu come se una freccia mi avesse colpita dritta al cuore. Per qualche
secondo, rimasi spaesata, senza sapere cosa rispondere. Non avevo
mai, mai neppure sospettato che Hunter provasse qualcosa per me, oltre
alla semplice amicizia: ero così abituata ad averlo al mio fianco, ad
avvertire la sua presenza, da non essermi mai posta domande del tipo
"Cos'è lui per me?" e "Cosa rappresento io per lui?". Ma ora non potevo
più ignorare quella situazione, non ora che lui mi aveva così
sinceramente sbattuto in faccia la realtà dei suoi sentimenti.
Volevo essere sincera con lui, lo volevo disperatamente.
Dopo aver fatto l'amore con lui, volevo dirglielo.
Volevo dirgli che quello che avevo chiuso da qualche parte in fondo
alla mia anima, e che mi ero sforzata di dimenticare per tutto quel
tempo, lo riguardava. Volevo che sapesse che da mesi la mia vita era
legata in maniera indissolubile alla sua, al punto che non avrei mai
accettato di sopravvivergli.
Lo amavo in una maniera totalizzante e disperata, acerba di speranze:
non mi ero mai sforzata di sperare che per noi ci fosse un futuro, non
solo perché le speranze di sopravvivere ad un'ipotetica fine della
guerra erano pressoché nulle, ma perché non avevo mai preso in
considerazione neppure per un attimo l'idea che lui potesse
ricambiarmi. Avevo cercato in ogni modo di convincermi che la sua
amicizia mi sarebbe bastata, e che in fondo non avrei potuto chiedere
di più: era il mio partner, combattevamo insieme, ci allenavamo
insieme, passavamo ogni singolo momento libero insieme, ci capivamo
senza parlare e comunicavamo con un semplice sguardo. Ma la verità era
che quella non era altro che una bugia.
Io non volevo accontentarmi.
Io volevo amarlo, e volevo farlo liberamente, senza che nulla e nessuno
potesse impedirmelo. Non Mantide, non gli Invectied, e non di certo la
stupida volontà degli Spider Rider…
Avrei calpestato senza rimorso decenni di regole ferree, divieti ed
imposizioni, e lo avrei fatto senza pensarci, se solo fossi stata
convinta che la nostra storia potesse avere un futuro. Ma lui mi aveva
sempre e solo dimostrato la sua amicizia, con gesti e parole che a
volte mi avevano fatto arrabbiare, ma altre volte avevano fatto battere
forsennatamente il mio cuore: lui non se ne rendeva conto, ma il suo
sorriso aveva per me più importanza di un'intera giornata di sole. Era
la mia forza ed il mio coraggio, ciò che mi spingeva sempre a rialzarmi
e a tornare a combattere, anche quando la situazione era disperata.
Credo che prima della fine, anche lui avesse intuito l'importanza che
aveva assunto per me quel suo piccolo gesto, perché cominciò a farlo
più spesso, sia a palazzo sia in battaglia, ogni volta che ci
incontravamo. E ogni volta, il mio cuore sussultava. Era bello, di una
bellezza pura e cristallina, ed i suoi occhi erano lo specchio della
sua anima: tutto ciò che lui pensava, e provava, poteva essere letto in
quelle iridi smeraldine. Sembrava che in lui non vi fosse nulla di
segreto, come se non avvertisse il bisogno di nascondere qualcosa di sé
agli altri.
Eppure c'era riuscito, e aveva nascosto il più importante dei suoi
segreti non solo agli altri, ma persino a me, che ero la persona che lo
conosceva più di chiunque altro: forse proprio perché ero io il
soggetto di quel suo pensiero, e poiché io stessa ne ero emotivamente
coinvolta, anche se a mia insaputa, non fui in grado di leggervi la
verità.
In seguito venni a sapere che tutti ne erano a conoscenza: chi per
averlo intuito, chi perché informato dagli altri. Eravamo noi gli unici
inconsapevoli del tipo di legame che ci univa, e neppure ci eravamo mai
resi conto che i nostri amici sapessero la verità.
Se non fossimo stati così stupidi, ed ingenui, forse avremmo avuto più
tempo.
Ma il tempo non torna indietro.
Eravamo all'ombra di un salice, e lui mi aveva appena confessato di
amarmi.
Il mio cuore batteva come un tamburo impazzito, ma nonostante quello
che era appena successo, che avevamo appena fatto, non mi sentivo in
grado di emettere neanche il più flebile suono: le mie labbra erano
sigillate, la mia gola arida come il deserto, e le mie guance a fuoco.
Non riuscivo a fare altro che guardarlo, senza trovare la forza di
rispondergli quell' "anch'io", che avrebbe messo fine alle nostre
sofferenze e dato inizio alla nostra storia.
La verità era che non mi sentivo sicura: non avevo dubbi su quello che
provavo, ma più ci ragionavo, e più mi sembrava impossibile che Hunter
mi avesse appena rivolto quelle parole. E più ci pensavo, più mi
convincevo di aver sentito male, di essermi illusa, perché quelle
parole non erano altro che ciò che avrei desiderato sentire come
conclusione perfetta di una notte d'amore. Ma non era notte, il sole
splendeva sopra ed intorno a noi, e nessuno dei due sembrava annebbiato
dal sonno e dalla stanchezza che seguono sempre gli atti d'amore:
eravamo entrambi svegli e vigili, e ansiosi.
Il nostro futuro si giocava sulla lama del coltello che era la mia
risposta, ma il mio cervello era un turbine di emozioni talmente
divergenti da darmi l'idea che non sarei mai stata in grado di
formularne una. Né positiva, né negativa.
Ero confusa, e il fatto di saperlo al mio fianco, mentre probabilmente
mi guardava, non faceva che acuire la mia agitazione: non pensavo mi
sarei mai più sentita in grado di sostenere il suo sguardo. Ma il caso,
o forse il destino, volle che proprio in quel momento io alzassi gli
occhi, e così per la prima volta, da quando quella bellissima follia
aveva avuto inizio, mi trovai ad incrociare gli occhi con quelli di
Hunter.
Rimasi spiazzata.
I suoi occhi, i suoi bellissimi occhi verdi, che scintillavano di
determinazione anche in mezzo alla battaglia più disperata, erano pieni
di paura. Hunter sembrava… no, era terrorizzato.
Sentii il respiro mozzarsi, quando mi colpì la consapevolezza che la
causa di tutto quello era solo ed esclusivamente mia. Perché lui era
sempre stato sincero.
Lui mi amava.
Qualcosa da qualche parte dentro di me si gonfiò, per poi scoppiare con
la stessa delicatezza di una bolla di sapone: una dolcezza ed un calore
senza fine avvolsero ogni fibra del mio corpo.
Io lo amavo, e non avrei mai più avuto dubbi.
Pertanto, raccogliendo tutto il coraggio di cui disponevo, glielo
dissi.
Mi guardò sconvolto, come se non riuscisse a capacitarsi di quello che
gli avevo appena confessato, incapace non solo di proferire alcuna
parola, ma anche di fare altro che non fosse fissarmi con un'intensità
tale da togliermi il fiato. Era un sguardo troppo… intimo…
Ma tutto ciò fu questione di un solo attimo. Quello dopo mi
abbracciò di slancio, quasi con disperazione, e iniziò a ridere, mentre
talmente ebbri di felicità non ci rendevamo conto di stare rotolando
giù dalla collina. Quando riuscimmo a riprendere fiato, e a rallentare
la corsa, eravamo quasi sulla riva del lago, con fili d'erba
intrecciati nei capelli ed il cuore traboccante di felicità.
Di certo a quel punto abbassai la guardia, perché sono sicura non
sarebbe mai stato in grado di farlo in circostanze normali, con i miei
sensi all'erta, ma sta di fatto che di colpo si alzò in piedi, mi
sollevò tra le braccia, e saltò in acqua. Ebbi a malapena il tempo di
chiudere gli occhi e trattenere il fiato, prima che la superficie del
lago si richiudesse sopra di noi.
Mi divincolai dalla sua presa, e con un colpo di talloni mi slanciai
verso l'alto, così da essere la prima a riemergere: nel momento in cui
fu il suo turno di riprendere fiato, lo aspettai al varco. Con un urlo
di gioia quasi infantile, inizia a schizzarlo a piene mani,
costringendolo a darmi la schiena almeno il tempo necessario ad
aspirare una grossa boccata d'aria. Dopodiché, cosa che fece
cogliendomi del tutto impreparata, si girò di scatto e mi afferrò per i
fianchi, usando la spinta delle braccia per lanciarmi verso l'alto.
Andai ben più in altro di quanto avessi mai osato pensare, ma fu
comunque troppo presto il momento in cui infransi ancora una volta la
superficie dell'acqua e atterrai, producendo una nuova ondata di
schizzi, proprio di fronte a lui. Non appena riemersi, cosa che mi
lasciò senza fiato, mi colse di sorpresa stringendomi fra le
braccia in modo tale che mi trovai letteralmente schiacciata contro suo
petto. E, non senza una punta di soddisfazione, ragionando pensai tra
me e me che gli allenamenti con la lancia avevano avuto su di lui
effetti più che soddisfacenti. Del ragazzino piccolo e gracilino di un
tempo, ormai c'era solo un ricordo. La persona che mi stringeva fra le
braccia in modo quasi possessivo aveva il corpo di un adulto: di un
giovane adulto, appena più che ragazzo, ma sempre un adulto. E se anche
il suo corpo non fosse bastato a farmelo notare, c'era sempre il
ricordo di quello che avevamo fatto poco prima all'ombra del salice.
Avvampai al pensiero che, se qualcuno lo fosse mai venuto a sapere, non
solo la mia carriera di guerriera seria e diligente sarebbe andata a
rotoli, ma avrei dovuto sopportare il peso delle ramanzine (e dei
fischi di ammirazione) di metà degli abitanti del regno, compresi i
miei onniscienti compaesani. Era incredibile come si fossero resi conto
della verità ancora prima che noi iniziassimo anche solo a porci il
problema.
Ma Hunter mi amava, me lo aveva detto, e io avevo fatto lo stesso con
lui: se anche nel passato non fossimo stati in grado di capirlo, ora
quella verità era scolpita a fuoco dentro di noi.
Rimanemmo in quel luogo ancora per alcune ore, aspettando che i nostri
Spider tornassero a prenderci per riportarci al castello e alle nostre
vite. Facemmo l'amore ancora due volte e ogni volta il senso di
urgenza, che solo per poche ore si era acuito, tornava a mostrarsi con
rinnovato vigore: era come se sentissimo che non avremmo avuto un'altra
possibilità. Parlammo anche molto, nei momenti di pausa, e per la prima
volta lo facemmo senza segreti: ci aprimmo l'uno all'altro senza
vergogna, e senza maschere.
L'Hunter sempre sorridente per una volta fu messo da parte, e il vero
Hunter mi confessò le sue paure più profonde, la sua ansia per le
battaglie imminenti, il senso di inevitabilità che sentiva avvolgere la
fine della propria vita, ed il terrore di andarsene senza rivedere
neppure per una volta i suoi genitori. Io d'altro canto gli raccontai
tutto quello che ricordavo del mio passato, compresi gli sporadici
lampi di memoria che avevano cominciato a perseguitarmi giorno e notte
dopo gli avvenimenti di Nuuma. Gli parlai del disgusto che provavo
ormai per combattere, inevitabile conseguenza della malinconia che
aveva iniziato ad avvolgere le mie giornate da qualche anno, prima che
lui giungesse nel nostro mondo: la ripetitività degli scontri, le
ferite, la morte che si porta via senza ritegno amici e nemici, il
desiderio di farla finita, pur di non vedere mai più un campo di
battaglia. Ma parlai anche della luce: lui per me era stato un raggio
di sole in una notte senza fine, aveva saputo insegnarmi a risollevare
la testa e a non permettere che le cose mi scivolassero addosso, come
se di loro non mi dovesse importare. Mi aveva spronato ad andare a
Nuuma, nonostante sentissi che quel luogo avrebbe risvegliato in me
ricordi di dolore, e grazie a lui avevo ricordato mia sorella ed il mio
ruolo di discepola dell'Oracolo. Le sue parole non furono meno
profonde: ero stata la prima persona che aveva incontrato in un mondo
dove era finito quasi per sbaglio, nonché la prima a non aver tentato
di ucciderlo: ridendo, mi confessò che ci aveva impiegato ben più di
qualche minuto a comprendere che forse io ero una persona "normale". Se
poi di normalità si può parlare, quando si ha a che fare con gli Spider
Rider… Ero diventata la sua "ancora", gli avevo fornito un appiglio
grazie al quale era stato in grado di ambientarsi un una società, ed in
un universo, a lui totalmente sconosciuti, e il successo di ciò lui lo
riconosceva solo ed esclusivamente a me. Mi ringraziò in un modo
talmente sincero da imbarazzarmi persino di più di quanto avessero
fatto i suoi baci poche ore prima e, in un desiderio infantile di
ripagarlo con la stessa moneta, mi premunii di sussurrargli ad un
soffio dalle labbra un "ti amo" dolcissimo, che colorò il suo viso
della stessa tonalità dei suoi capelli. Non si lasciò comunque sfuggire
l'occasione, e prima che potessi tirami indietro, facendogli la
linguaccia in uno sberleffo nel lasciarlo a bocca asciutta, mi ritrovai
le sue labbra ancora una volta premute contro le mie.
Shadow e Venus tornarono quando mancava ormai poco al tramonto, e ci
trovarono stanchi e soddisfatti, che crollavamo dal sonno. Non ci
fecero domande, e sospetto che sapessero ben più di quanto non dessero
a vedere, ma probabilmente lo avevano già presupposto nel momento in
cui ci avevano guidato in quel paradiso: fu logico pensare che quella
giornata fosse stata un loro "regalo" per noi. Un unico giorno, un'
ultima possibilità di stare insieme.
Arrivammo al castello che era quasi notte, e riuscimmo fortunosamente
ad evitare chiunque avrebbe potuto farci un qualunque tipo di
interrogatorio, Igneo compreso, nonostante riuscissimo a malapena a
reggerci in piedi: ringraziammo l'Oracolo di quel colpo di fortuna,
perché non saremmo mai stati in grado di entrare in camera da qualche
"ingresso secondario", finestre comprese, neppure se avessimo dormito
dieci ore in più.
Ci salutammo di fronte alla porta della mia camera in modo così formale
da dare l'idea che tra di noi non fosse cambiato nulla. Avevo già
aperto la porta e mi stavo girando per entrare, quando Hunter mi
afferrò un braccio e con uno strattone mi costrinse a voltarmi
bruscamente, mentre la sua bocca si ritrovava per l'ennesima volta, di
quella giornata, sopra la mia. Mi lasciò andare alcuni secondi dopo
respirando affannosamente, e per un attimo fui sicura di scorgere nei
suoi occhi un lampo di desiderio, prima che allungasse una mano per
sfiorarmi la guancia in una lievissima carezza ed augurarmi, con un
soffio di voce, un debolissimo "buonanotte". Un attimo dopo, mentre il
mio cuore batteva ancora all'impazzata come se volesse schizzarmi fuori
dal petto, lui era già scomparso in fondo al corridoio, diretto verso
la sua camera.
Il giorno dopo, abbandonammo il castello: fummo inviati in una missione
quasi suicida nella fortezza di Lankheart per raccogliere in
informazioni e, se possibile, distruggere, i super soldati creati da
Mantide usando il potere delle due Chiavi in suo possesso, quella del
regno Invectied e quella che avevamo perso nella battaglia di Nuuma.
Fu quel giorno che, per la prima volta, sentii dentro di me il
dolore dell'Oracolo.
Ed il sole si spense.
Da quel momento, e da quella missione quasi impossibile risolta
brillantemente, non ci fu dato più un solo attimo di respiro. La
battaglia finale incombeva, e ne avemmo la certezza assoluta quando
Lumen ci raggiunse a Lankheart insieme al resto della legione ed a un
corpo scelto di guardie guidate da Slate, che avrebbero dovuto
garantirci una sicura via di fuga, in caso di disfatta.
Poi furono sangue, e dolore.
Non riesco a ricordare ciò che avvenne in seguito.
Vincemmo?
Perdemmo?
Non lo seppi mai…
Ricordo il sapore del sangue, ed il bruciore di una ferita troppo
grande per non essere grave. Le armature macchiate di rosso, e per una
volta il sangue era solo nostro, che non erano più in grado di
difendere i nostri corpi martoriati. Ricordo la terra arida di quel
regno dimenticato dall'Oracolo farsi fango, e rallentare i nostri
movimenti, mentre ancora una volta tentavamo vanamente di avvicinarci
ai nostri nemici. Ricordo la risata di Lord Mantide, carica di crudele
gioia, mentre ci vedeva cadere l'uno dopo l'altro e non rialzarci più,
e la sua vittoria si faceva sempre più certa. Ricordo mia sorella
Aqune, schiava della maschera, trafitta dal suo stesso signore, per
dimostrarci che nessuna vita aveva valore per lui, neppure quella dei
suoi più fedeli subordinati, e l'urlo disperato di Buguese, mentre la
ragazza che aveva sempre amato cadeva a terra, per non rialzarsi più.
Ricordo Magma, sdraiato contro la schiena del suo Brutus, impallidire
sempre di più, mentre con una mano tentava di fermare il sangue che
inesorabile continuava ad uscire da una ferita all'addome. Ricordo
Lumen, sdraiato a terra con le braccia aperte, come se dormisse, ma con
il viso di un pallore troppo innaturale perché ciò fosse possibile,
mentre una chiazza rossa e liquida andava sempre più allargandosi sotto
la sua testa. Ricordo Igneo, sdraiato fra due rocce con la schiena
appoggiata ad una terza, il capo reclinato come quello di una
marionetta senza fili. Ricordo Sparkle, abbracciata ad Hotarla fino
alla fine, che aveva cercato di proteggerla facendole scudo con il suo
corpo.
Ricordo un sorriso.
Ricordo Hunter.
Era ancora in piedi quando caddi, ma di certo non grazie alle sue
gambe: era ormai solo la forza di volontà a permettergli di farlo. A
rigor di logica, non avrebbe nemmeno dovuto essere vivo: era stato
colpito più spesso e più forte di tutti noi, e l'armatura sul suo petto
era talmente inzuppata di sangue da non permettere più di distinguere
il colore originale. Non so dove trovai la forza, quando ormai trovavo
faticoso persino respirare, ma dalle mie labbra sfuggì per un attimo il
suo nome: lo sentì chiaramente, nel silenzio di morte che ci
circondava, perché si irrigidì e si girò, trattenendo una smorfia di
dolore quando una nuova macchia di sangue sbocciò sulla sua armatura. E
poi, lui mi sorrise, e per un attimo rividi di nuovo il vero Hunter:
non quello che si atteggiava da eroe davanti agli altri, fanciullesco e
burlone. Ma il ragazzo… no, l'uomo, che si era mostrato a me quel
pomeriggio sulla riva di un lago, sotto un salice dove avevamo fatto
l'amore. Quello che mi aveva guardato negli occhi con timore, e mi
aveva sussurrato quel "ti amo" che aveva cambiato per sempre le cose
fra noi. Che mi aveva mostrato la sua fragilità ed il suo coraggio,
dimostrandomi con i suoi gesti e le sue parole il perché avessi scelto
lui. Il suo sorriso era la prova che non avrebbe potuto esserci nessun
altro.
Lo amavo.
E quella fu l'ultima cosa che vidi.
*Salice: In oriente ha un simbolismo positivo, rappresentando
l’immortalità, l’eternità e la spiritualità. In occidente, invece, ha
un significato negativo ispirato dai suoi rami che cadono al suolo,
perciò è chiamato il salice piangente; i viali degli inferi nella
mitologia greca, sono costeggiati da salici e pioppi, alberi che
rivestono un significato analogo essendo entrambi collegati al lutto.
NOTE DELL'AUTRICE:
Questa storia è stata una mazzata a livello emotivo, e ancora adesso
ogni volta che la rileggo mi chiedo cosa mi sia preso, per arrivare a
scrivere qualcosa con un finale così drammatico! E il fatto che io ami
Corona più di ogni altro personaggio al mondo, dovrebbe spingermi solo
verso il lieto fine, no? Invece la faccio soffrire così tanto... Non
capirò mai questo lato di me.
Naturalmente il presupposto iniziale di questa storia è che la guerra
si sia protratta molto più a lungo che nell'anime, almeno per qualche
anno (e non qualche mese): in questa fic, Hunter ha circa diciassette
anni, e Corona diciotto (più o meno, non sappiamo quanto anni ci siano
di differenza tra loro due, ma io parto dal presupposto che sia uno
solo). Ho voluto focalizzarmi soprattutto su quanto siano cambiati
rispetto a come ci vengono presentati all'inizio della serie, come
persone ormai assuefatte dalla guerra ma comunque capaci di mantenere
ancora un'umanità che permette loro di amare. Ho cercato di mantenermi
il più aderente possibile all'anime e ad i loro caratteri, ma
naturalmente parto dal presuposto che siano cresciuti, e che abbiano
vissuto gli ultimi anni cercando di nascondere dentro di sè i
sentimenti che provavano l'uno per l'altro, oltre all'orrore di una
guerra che sembra non volerne sapere di finire.
A circa metà fic ho letteralmente perso il controllo, hanno iniziato a
giostrarsi loro la storia (come noterete leggendola), ma l'angst e la
vena malinconica sono comunque rimaste...
Credo comunque che, se l'anime fosse finito così, probabilmente avrei
ammazzato gli autori...
Inoltre, nel caso non lo sapeste:
[1] Il Villaggio dei Fiori Odorosi compare nell'episodio 4 dell'anime.
E' il luogo in cui ha evento la prima missione di Hunter, nonché il
primo episodio in cui questi mostra interesse per Corona.
[2] L'arancio è il colore abbinato a Corona, alla sua aura come
discepola e alla pietra del suo bracciale; il verde dell'erba fa
riferimento invece al colore di Hunter.
[3] Il fatto che gli Spider possano sentire i pensieri dei Rider è
ripreso dal romanzo, non è una mia invenzione.
|