lapartita
Parentesi linguisitca prima di cominciare... Youkai
e hanyou sono termini giapponesi che indicano le creature
sovrannaturali protagoniste di Inuyasha. Sono stati più o meno
impropriamente tradotti in italiano come "demone" e "mezzodemone",
rispettivamente. Chichi-ue è il termine rispettoso che
Sesshoumaru usa per riferirsi a suo padre.
La Partita
Bianco, bianco, nero, nero, nero, poi ancora bianco.
Un passo, un altro ancora, una finta, un consolidamento della posizione, un attacco.
Sesshoumaru e Naraku si studiavano dalle loro linee contrapposte.
Erano su un campo di battaglia.
***
La ragione per cui Sesshoumaru finì a scontrarsi in un modo
così insolito con Naraku risale al momento stesso in cui lo
youkai lo incontrò nel suo cammino. Aveva incrociato la sua
strada con altri esseri, il più delle volte nemici, raramente
suoi pari, ma in quel giorno lontano era successo qualcosa di diverso
dal solito: qualcuno lo aveva sfidato.
A Sesshoumaru non passò per la testa che la sfida fosse stata
volontaria o meno. Semplicemente c’era: e in futuro lui avrebbe
chiarito chi fosse il vincitore. Solo una questione di tempo, un
concetto umano che a lui non riguardava. Sesshoumaru era paziente, a
modo suo.
Per cui non si stupì se sotto il plumbeo cielo grigio che
minacciava tempesta, con l’odore del gruppo di suo fratello
lontano dalle sue narici e le voci di Jaken e Rin che si affievolivano
alle sue spalle mentre lui andava in una scoperta solitaria del bosco,
incontrò Naraku. Sapeva che i loro passi si sarebbero incrociati
di tanto in tanto.
Ci fu solo un lievissimo momento di esitazione da parte di Sesshoumaru
solo perché non si aspettava un incontro da parte
dell’altro né tanto meno di persona.
Ma un momento per lui era molto breve. Nel punto dove aveva percepito
la presenza di Naraku attaccò con un gesto rapido e svogliato
degli artigli. Un albero cadde, foglie volarono tutt’intorno e
una risata echeggiò lontana.
“Sempre pronto a scappare,” commentò Sesshoumaru, subito pronto ad un nuovo attacco.
“Volevo evitare il tuo benvenuto,” dalla selva si
aprì un varco dove il viso pallido di Naraku guardava beffardo.
“Sempre pronto a combattere.”
La risposta venne in un schioccar d’artigli.
“Non sono qui per questo, Sesshoumaru.”
“Risparmia le tue parole perché non mi interessano.”
Naraku venne avanti come se la minaccia dell’altro, ben visibile
negli affilati artigli completamente esposti e nella posa pronta a
scattare dello youkai, non lo impensierisse affatto. Era di certo
così. Nulla lo turbava, soprattutto quando aveva un’idea
in mente.
Tuttavia la situazione lo divertiva tanto che si lasciò
scappare: “Così mi vuoi affrontare, Sesshoumaru. Sei molto
ansioso di combattere.”
C’era un luccichio nel suo sguardo, malizia e una punta di
curiosità. Di sicuro niente di buono all’orizzonte.
Neppure il suo interlocutore fu da meno. Una seconda artigliata
raggiunse Naraku proprio mentre questo scartava con agilità di
lato, senza neppure accigliarsi.
“Questa è una buona risposta,” ammise
l’hanyou, gli occhi ridotti ad una fessura tagliente come una
lama d’onice che studiavano il candido e letale essere davanti a
lui.
“Non fai sul serio,” se fosse stata una frase pronunciata
da un’altra persona, si poteva pensare ad un rammarico, ma
Sesshoumaru non ne aveva. Sotto il suo vigile controllo era tuttavia e
suo malgrado perplesso: Naraku non appariva mai casualmente, quindi
perché lì e adesso?
“Cosa vuoi?” chiese, non cedendo di un attimo
l’attenzione sulla sua preda anche se lasciò ritrarsi gli
artigli.
“Cosa vuoi tu, Sesshoumaru? Combattere?” Naraku sorrise. “Ti accontenterò.”
Un bastone fu tra le sue mani. L’hanyou prese a tracciare delle
linee del terreno. Sesshoumaru ne contò diciannove, tutte
perfettamente dritte, e altrettante ne furono tracciate orizzontalmente
a queste.
“Cosa stai facendo?”
Naraku non si lasciò distrarre da ciò che stava facendo;
senza alzare il viso rispose: “Preparo il campo di
battaglia.”
“Non prendermi in giro, dannato.”
L’aria attorno a Sesshoumaru crepitava di potere a
quell’ultima minaccia, un’ombra scura si posò sul
volto impassibile rendendolo una maschera appena trattenuta di
disprezzo e furia. Naraku sorrise. Così semplice da stuzzicare.
L’orgoglio di Sesshoumaru era il suo migliore difetto.
“E se ti dicessi che in quanto a velocità non posso
batterti? Che in un duello saresti tu a vincere?” Naraku aveva
finito e guardava dritto negli occhi il suo avversario. “Cosa
diresti, Sesshoumaru-sama, in tal caso?”
Per una delle poche volte nella sua vita, Sesshoumaru non sapeva
né cosa dire né soprattutto cosa fare. Era infuriato per
il modo beffardo con cui l’aveva chiamato, ma era anche sorpreso,
quasi imbarazzato. Si ricompose in fretta, non abbastanza perché
Naraku non cogliesse i suoi pensieri e ne sorridesse come se li avesse
presagiti.
Finì di tracciare le linee e gettò il bastone lontano. “Sono pronto.”
Era una sfida inequivocabile, Sesshoumaru lo sentiva. Abbassò lo
sguardo allo spazio che gli separava; ci fu un breve sussulto nelle sue
spalle e un ringhio appena trattenuto quando sbottò: “Non
sei tu a dettare le condizioni.”
Per tutta risposta Naraku si sedette con un fluido movimento e in un
gesto altrettanto rapido tirò fuori dalla tasca del suo kimono
un paio di sacchetti. Sesshoumaru udì tintinnare le pietre.
“Questo è il mio campo di battaglia.”
Non c’era traccia di scherno, questa volta, nella voce ferma dell’hanyou.
“Perché dovrei perdere tempo con questa sciocchezza degli umani?”
“Ti tiri indietro?”
Sesshoumaru fremette. Mai aveva abbandonato la sua posizione. Conosceva
la sfida, sapeva cosa doveva fare e tuttavia per un attimo fu tentato
di abbandonare il tutto. Poteva.
E mentre rifletteva così, il suo avversario aspettava senza dar
a intendere che gli importasse molto a quale decisione sarebbe giunto
lo youkai: se avesse accettato o se avesse deciso di porre fine a
quella sciocchezza con un colpo dei suoi artigli fatali. Sesshoumaru
presagiva un trucco. Quale?
Gli ripugnavano quei mezzi, lui che era una creatura fatta di sangue
freddo e di passioni immutabili, troppo enormi e repentine
perché un umano potesse sopportarle, nelle cui vene scorreva
l’istinto del cacciatore e la fermezza di un dio. In poche
parole, lui che era uno degli antichi poteri della natura: non era
pronto per un passatempo da umani.
Sesshoumaru ricordò allora come suo padre stesso conoscesse quel
gioco, come il grande demone cane sostava spesso a studiare il tavolo
da gioco, a osservare le profonde scanalature nel legno dove si
rincorrevano i passi bianchi e neri di una battaglia. Sì, la
chiamava così il suo chicchi-ue: una battaglia. Forse
l’hanyou conosceva anche questo.
“Naraku, preparati.”
Sesshoumaru si sedette.
***
Naraku scelse le pietre nere, a Sesshoumaru andarono le bianche. Ma
forse non fu neppure una scelta, fu un istinto più forte di loro
perché entrambi erano
quelle pietre: Sesshoumaru una luce troppo intensa per generare ombre,
Naraku un’oscurità troppo profonda per essere dissipata.
La partita era andata avanti da un tempo che nessuno calcolava
perché nelle battaglia non esisteva altro se non lo spazio
circoscritto dello scontro: lui e il suo nemico.
Sesshoumaru lo sapeva. Ciò che non sapeva, e che non capiva, era
perché. Aveva duellato come sempre, con mosse di sfondamento
nelle linee nemiche. Aveva ricevuto colpi e sconfitte. Il suo
avversario era subdolo, come sempre lo era. Si nascondeva, si ritirava
e poi compariva all’improvviso, una pietra nera che cancellava
l’avanzata di Sesshoumaru.
Non era questo a corrugare la fronte solitamente immobile dello youkai,
ma Naraku stesso: stava fissando la rudimentale tavola da gioco di
fronte a lui, concentrato sulla prossima mossa come se da essa
dipendesse la sua stessa incolumità. Una tale attenzione era
semplicemente ridicola, pensava Sesshoumaru. Secondo lui
l’indugio era il peggior difetto dell’hanyou.
Una volta ricordò chichi-ue stesso osservare con concentrazione
una partita di go, le mosse, la disposizione delle pietre, gli spazi
liberi, cercando qualcosa che allora Sesshoumaru non sapeva spiegare.
Ne aveva riso. Aveva chiesto a suo padre cosa ci trovasse di
così interessante in un gioco che gli umani usavano per
distrarsi nei loro comodi castelli. “Il go è stato
inventato per coloro che non andranno mai in battaglia, non si dice
così?”
”Ho sentito alcuni raccontarlo,” ammise il padre. “Ma
mi chiedo, Sesshoumaru: noi youkai che non temiamo il tempo abbiamo
sempre così fretta mentre un umano può passare ore ed ore
a guardare questa tavola da gioco. Come mai?”
Naraku posò la sua prossima mossa, Sesshoumaru
contrattaccò. Fu rapido, veloce ed efficace. Catturò le
pietre dell’avversario senza che quest’ultimo battesse
ciglio. Uno stupido gioco di cui lo youkai aveva abbastanza.
“Perché continuare così, Naraku?” chiese con
flemma. “Hai un ragione per farmi giocare, o sei solo
annoiato?”
“Un saggio disse che la vita è l’ombra di una partita di go.”
“Da quando pensi come un umano?”
Sesshoumaru capì di aver centrato un punto debole quando vide
gli occhi di Naraku ridursi ad una fessura stretta. Si era aspettato
qualche altre reazione che non venne; al posto dell’hanyou
avrebbe potuto anche artigliare chi avesse osato dire qualcosa di
simile, ma l’hanyou era naturalmente un vigliacco.
“La tua mossa, Sesshoumaru.”
Posò lo sguardo sulla rozza scacchiera. Sorrise. La pietra nera
era in una posizione così azzardata che si capiva a colpo
d’occhio fosse uno sbaglio calcolato. Aggirò facilmente
l’ostacolo.
Continuarono in silenzio a posare le loro mosse successive, fino a
quando Naraku accerchiò facilmente la sua posizione. Sesshoumaru
ebbe un fremito tra le labbra mentre l’hanyou sorrideva
compiaciuto.
“Una trappola.”
“Certe voglie bisogna abbandonare per ottenere qualcosa di
maggiore,” citò Naraku dando il tempo a Sesshoumaru di
escogitare la prossima mossa.
“La tua filosofia di vita,” gettò con impassibilità mettendo la pietra bianca in attacco.
Naraku non sorrise, mentre guardava per la prima volta il suo
avversario. “Giusto per equilibrare le parti, ti farò una
domanda, Sesshoumaru. Perché hai accettato questa partita se non
ti importa niente?”
“Perché mi hai lanciato una sfida.”
Non ci fu divertimento o compiacimento nel volto di Naraku anche se le sue labbra si distesero in un lento sorriso.
“Così ti ho sfidato e tu hai accettato?”
L’altro annuì, indifferente e impenetrabile.
“Anche se questa non è una battaglia vera… per
te…” Naraku disse le ultime parole come se parlasse per
sé. Dall’attenzione che Sesshoumaru gli riservava era
probabilmente così.
“Quante volte ti avrei sfidato?”
Sesshoumaru fu colpito da quella domanda. “Tre volte.” Una risposta così semplice.
Naraku rise senza nessuno allegria, con un accento che avrebbe fatto
rabbrividire il guerriero più coraggioso, ma non Sesshoumaru.
Lui si riservò solo un sorriso di scherno, perché aveva
capito che lui non capiva. Fu il suo sbaglio.
“E’ così,” Naraku tornò a fissare la
partita davanti a lui. “C’è chi mi vuole uccidere
per vendetta, chi per salvarsi a sua volta la vita, chi forse per
rimpiazzarmi. C’è chi pronuncia il mio nome con odio e
rabbia. C’è chi mi dà la caccia per dovere. E tu,
Sesshoumaru, sei stato soltanto offeso da me.”
“Offeso, hanyou?” e purissimo disprezzo filtrò in quella parola. “Tu non capisci.”
“Basta così.”
Sesshoumaru seguì lo sguardo di Naraku. Davanti a loro il
terreno dello scontro era disseminato da ciottoli neri che avevano
lentamente dilagato per tutta la scacchiera, fino a realizzare un
disegno complesso. La partita era finita. Allora ricordò cosa
aveva dimenticato delle parole di suo padre: nel go non si uccide, si
conquista.
“Hai vinto, Naraku.”
“Lo so.”
Naraku aveva parlato come di una questione che non lo riguardasse
molto; la concentrazione intensa di prima si era dissipata lasciando un
calma cristallina che assomigliava, ammetteva a denti stretti
Sesshoumaru, alla stessa imperturbabilità che talvolta gli altri
potevano vedere sul suo stesso viso.
“Hai ottenuto ciò che volevi?”
Naraku annuì. “Ora so. Non mi aspettavo nulla di diverso, infondo.”
Neppure il tempo di finire questa frase e una saetta dal cielo
squarciò il campo da gioco, seminando confusione nel perfetto
allineamento dei territori formati dalle pietre. Sesshoumaru
scrollò le spalle.
”La prossima volta,” disse ritirando gli artigli.
“mostrerò che la realtà è l’ombra del
go.”
“Forse,” rispose Naraku mentre fissava con un sorriso enigmatico il veleno sciogliere le pedine del gioco.
Es más antiguo que la más antigua escritura
y el tablero es un mapa del universo.
Sus variaciones negras y blancas
agotarán el tiempo.
El Go, Jorge Luis Borges
Nota dell’autrice.
Questa gift!fic è per il compleanno della mia meravigliosa Lara,
la compagna di tante chiacchierate. Lei aveva da tempo questa fantasia
di una partitella a scacchi tra Sesshoumaru e Naraku, e siccome
l’idea non mi sembrava affatto malvagia, ho deciso di
accontentarla. Solo che ho scelto un altro gioco da tavolo…
perché è decisamente più adatto ai soggetti.
Quando Naraku dice che “la vita è l’ombra di una
partita a go” fa una citazione cool da un libro, Il ritorno delle
gru, che io non ho mai letto ma di cui ho trovato tracce durante la mia
documentazione sul gioco: “Stiamo sempre parlando di go,
maestro?” “Sì. E della sua ombra: la vita.”
Come si fa a non amare il go?
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