Anywhere is...
Le
fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già
che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono
sconfiggere.
[G.K. Chesterton]
Nel medioevo, come in ogni periodo storico da cui giungono discordanti
notizie, si credeva l’esistenza di fate e gnomi, draghi e sirene,
creature che ora si ritengono inesistenti: eppure, tali creature non
potevano essere solo segno di fantasia umana, perché tale processo
mentale doveva essere stato innescato da qualche cosa, o da qualcuno.
Le fiabe, poi, sono il diretto collegamento che hanno i bambini con
tali miti: abituati fin da piccoli a conoscere la storia della
principessa salvata dal drago cattivo, crescono con l’idea che, in
qualche remoto angolo del mondo, tali mostri devono pur esistere. È
forse una brutale fuga dalla realtà fin troppo noiosa e fastidiosa, che
troppo spesso incastra gli umani, che vivono un’esistenza senza minimo significato?
Oh, a volte mi dilungo fin troppo con i miei pensieri inutili e,
ammetto, incoerenti. Se, da una parte, sono affascinata dagli umani,
dall’altra li trovo così dolcemente stupidi ed ingenui, nel credersi al
centro dell’universo: è divertente vederli guardare il cielo, in cerca
di qualcosa che li porti via da una realtà noiosa e fin troppo semplice.
Eppure, quando gli si pone una novità d’innanzi agli occhi, scappano
come conigli davanti ad una volpe: dovete vedere come corrono, con
quelle loro deliziose zampette, lontano da te, che gli stai donando
finalmente quel brivido di novità, di emozione, che hanno sempre
ricercato. È per questo che non riesco a capire se sono intelligenti
oppure semplici creature pensanti: oh, vi è una bella differenza tra le
due definizioni, io l’ho imparato bene. Di esseri pensanti ve ne sono
fin troppi, in realtà: coloro che hanno un cervello sono pensanti, come
i gatti che, per stimolo, mangiano. Essi però non hanno il pensiero di
mangiare, ma è solo e puro stimolo, niente di ragionato o voluto.
E poi vi sono gli esseri intelligenti, coloro che sfruttano il cervello
per ragionamenti complicati, che possono, da una situazione
illogicamente strana, estrapolarne risposte convincenti. E ve ne sono
ben pochi, perché anche tra gli umani tali esseri ormai scarseggiano.
Proprio tempo fa ho avuto il piacere di vedere realizzata tale teoria:
ho incontrato una donna, anni fa, che si divertiva a studiare la
biologia e ogni piccola forma animale e vegetale. Ragionava su di essi,
mi spiegava ogni minimo movimento, e perché tale era fatto in un modo:
era un ragionamento incredibilmente interessante e pure io, che
solitamente sono una persona più incline all’azione che al pensare, ne
fui emozionata.
Ecco che, come al solito, mi contraddico io stessa: sono io il primo
essere che spesso rientra nella prima categoria, ma forse è la mia
natura a portarmi a tale pensiero. Sono un essere molto solitario ma,
nel momento della mischia, sono la prima che si butta e, solitamente,
vince: già, ho un’estrema consapevolezza di me stessa.
Eppure, quando conobbi lui, ebbi qualche confusione nella mia mente: ed
è strano, perché io non tendo mai a cambiare pensiero. È come se una
forza esterna si fosse impossessata di me, qualcosa di strano ed
estremamente eccitante.
Ma partiamo dal principio così che voi, miei cari lettori, possiate capire ciò di cui sto parlando.
Compivo i miei vent’anni in quel funesto anno, in cui le stagioni non
si riconoscevano più e l’estate sembrava tardare ad arrivare: io che
odiavo l’inverno. Il cielo era sempre coperto da folte nubi, ad
esclusione di rari giorni in cui il sole si faceva forte e inondava
piacevolmente la terra e ogni cosa ad essa connessa: erano quei rari
giorni in cui mi sdraiavo nel mio piccolo giardino a godermi del calore
solare, mentre i miei vicini si divertivano a fissarmi tutto il santo
tempo. Era alquanto fastidioso, ma alla fine mi ero abituata, sebbene
Logan, mio fratello, fosse certamente meno felice di ciò: più e più
volte glielo ha fatto notare e, alla fine, abbiamo cambiato vicini.
Già. Si sono trasferiti.
Poi decisi di fare un viaggio, per godermi un po’ di meritato riposo:
io e mio fratello avevamo un’antica biblioteca, e Logan mi permise di
assentarmi per un po’ di tempo liberamente. Così, durante il mese di
Luglio, preparai le mie scarne valigie e salii sul treno, diretta a Los
Angeles, la città che mi aveva tanto fatto sognare: soggiornai a
Beverly Hills, in un bellissimo hotel dove non vi mancava nulla. Avevo
prenotato una suite, con un grande letto e il panorama sulla città
degli angeli dove, dal ventesimo piano a cui mi trovavo, si poteva
scorgere la baia di Santa Monica: se non fosse che il viaggio mi aveva
stremato, mi sarei fiondata immediatamente, ma decisi di prendermi la
nottata per riposarmi e scatenarmi dal giorno dopo.
Erano le nove inoltrate quando uscì dalla porta della stanza,
chiudendola con il pass, che misi nel portafoglio: indossavo solo un
paio di pantaloni corti di jeans ed una canotta gialla con sandali
bianchi, che facevano sembrare la mia pelle ambrata ancora più scura di
quel che non era. Con una grossa borsa in tela piena di varie cose,
grandi occhiali da sole bianchi sul viso e i lunghi capelli rossi
stretti in una treccia, mi avviai alla spiaggia: presi l’autobus per
essere più veloce, ma già il secondo giorno decisi di utilizzare i
rollerblade, per il semplice fatto che io odiavo la calca dentro ai
mezzi pubblici.
Il traffico di Los Angeles era terribile, e arrivai in spiaggia quando
oramai erano le dieci: mi fermai nel lettino che avevo prenotato,
preparai ogni cosa che poteva servirmi e poi sfilai gli abiti,
rimanendo col mio costume nero a due pezzi. Mi sdraiai sul lettino e
rimasi lì per molte ore: per la maggior parte del tempo lessi
attentamente un libro consigliato da Logan, per il restante tempo
dormii ancora per la stanchezza del viaggio. Oh, io sono una persona
molto pigra quando si annoia, non ho vergogna ad ammetterlo.
Erano le quattro quando una chiamata di Logan mi svegliò: risposi
svogliatamente e gli raccontai che mi trovavo bene e che mi accingevo
ora a mangiare qualcosa. Indossai i miei pantaloncini e mi avviai
lentamente al bar che poco distava da me, dove mi sedetti per prendere
un gelato: iniziai a mangiarlo tranquillamente, osservando la spiaggia.
Alcuni bambini giocavano a pallone poco distanti da me, altri correvano
con gli amici, mentre i genitori tendevano a rimanere seduti sotto
l’ombrellone, chiacchierando, spesso troppo animatamente, tra di loro:
non conoscevano il pericolo che potevano correre quelle creature
innocenti, così appetitose e morbide. Avevo una passione per i bambini,
sebbene erano molto magri, e il loro grasso non mi avrebbe aiutato più
di tanto: erano però deliziosi, lì che saltellavano ignari che io,
facente parte di una delle razze più temibile di Wesen, li stavo già
pregustando nelle mie fauci. La fame, effettivamente, mi attanagliava
lo stomaco in una maniera incredibile, in quei giorni di dieta forzata.
Poi qualcosa attirò la mia attenzione: un Genio Innocuo camminava lì,
sulla spiaggia, a testa bassa e spalle cadenti, con lo sguardo che
passava ai dolci bambini. Il suo sguardo era di dolcezza, il mio di
famelico aspetto. Erano creature estremamente intelligenti, e lo
sapevo, soprattutto perché quando mi guardò casualmente, spalancò gli
occhi quasi spaventata: doveva aver intuito cosa io fossi, e, come
doveva essere, ne fu assai spaventata. Indietreggiò velocemente, la
vidi parlare con quelle creature e farle allontanare, mentre con vispo
sguardo mi controllava: sentii la rabbia salire nel mio cuore. Che una
creatura così insignificante disturbasse me e i miei piani, mi dava
terribilmente noia: ero convinta a farglielo capire, tanto che mi alzai
e seguii quella donna che ora si allontanava. Doveva aver capito
l’errore che aveva fatto.
Aumentai leggermente il passo, quando entrammo in una seconda spiaggia,
stavolta libera: la gente era sdraiata a terra, incurante di ciò che
ora camminava tra di loro: una Dämonfeuer e un Genio Innocuo, due
creature estremamente rare e, nel mio caso, potenti.
Poi vidi quel ragazzo. Un giovane moro, alto, con occhi verdi e una
mandibola squadrata: aveva la pelle bianca, una barba non tagliata da
due giorni e una ragazza, probabilmente tra le più brutte che io avessi
mai visto, al suo fianco. Capelli lunghi castani che parevano stoppa,
labbra disegnate male, pelle diafana e un volto povero, scialbo, che
sembrava il più comune della terra: era davvero insignificante, e già
la odiavo. E lui, invece, mi aveva colpito: lo vedevo guardarsi in
giro, con quegli occhi che parevano di vetro, mentre scrutava la gente,
alla ricerca di chissà quale terribile ed interessante segreto.
Lo capii quasi subito quando mi guardò e, nei suoi occhi, lessi il
terrore: ne fui talmente colpita che lasciai quel Genio Innocuo sparire
dalla mia vista, mentre scrutavo negli occhi di quello strano essere
umano.
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