«Il ponte senza fine»
Il sole batte impietoso sulla fila di lapidi
che di pietà hanno tanto bisogno. Il vento trasporta aria di cose perdute e
cose finite. Il cimitero è vuoto, solo qualche fiore testimonia il ricordo di
ciò che è stato e ciò che nel cuore resterà per sempre.
Un ragazzo sui vent’anni, dagli occhi e i
capelli scuri, con un grande mazzo di gigli bianchi tra le braccia, si guarda
intorno in quel luogo che gli è sconosciuto, alla ricerca dell’unico elemento
che glielo accomuni, l’unica cosa che in vita abbia mai sentito sua. La trova
seminascosta dall’ombra di un alto cipresso.
La tomba è riccamente adorna di fiori,
profumati e passeggeri segni del ricordo di quel segno indelebile che invece è
stata la ragazza cui sono destinati.
Jess Aarons si avvicina alla fotografia di
quel volto che ha visto per l’ultima volta dieci anni fa, cade in ginocchio e
sente tutto il peso di quel doloroso passato e del tempo che ci ha messo prima
di trovare il coraggio di varcare il cancello di quel cimitero. Guarda la
scritta sulla lapide di Leslie Burke e lotta con le lacrime.
E inizia la sua espiazione.
Ciao, Leslie.
Sarei
voluto venire prima. Avrei voluto esserci. Anche in quel giorno in cui te ne
sei andata.
Non
riesco a smettere di pensare che è stata tutta colpa mia.
Se
io fossi stato lì, forse tu ora ci saresti. Saresti qui con me. Al mio fianco.
Mi
manchi tremendamente.
Sei
stata il primo raggio di luce che abbia colpito la mia piccola vita, laggiù nel
mio piccolo mondo, la prima cosa bella che abbia conosciuto nella mia infanzia.
Sei stata la mia prima amica. L’unica.
Sei
arrivata il primo giorno di scuola. Allora non avevo idea di quanto mi sarei
legato a te. Non eri che una ragazzina un po’ strana, un po’ diversa, con gli
occhi limpidi e i capelli come il sole d’estate. Non potevo immaginare nulla.
Non potevo immaginare che mi avresti regalato tutto un mondo.
Perché
è così che ci siamo uniti. Siamo diventati amici immaginando un mondo
fantastico, un mondo nostro, dove le ingiustizie della realtà non esistessero.
Quel gioco diventò la mia ragione di vita, e fu il dono più bello che avessi
mai ricevuto. Fu il tuo dono a un ragazzo che ancora praticamente non conoscevi
affatto. Così nacque Terabithia.
Non
so bene cosa mi attirasse di te, cosa mi indusse ad accettare la tua amicizia,
quel giorno in cui scoprimmo insieme di poter creare un mondo intero. Forse era
quella tua vitalità, quella tua capacità di immaginare cose che neanche
conoscevi, quel tuo saper entrare nella vita degli altri. È questo che hai fatto,
Leslie. Sei entrata nella mia vita, e mi hai stravolto, e mi hai insegnato un
nuovo modo di guardare il mondo, e mi hai colpito come un fulmine, e mi hai
fatto capire che la vita non è solo dolore, se sai immaginare un modo per
affrontarla.
Non
so come hai fatto. Ma mi hai cambiato.
Per
questo perderti è stata la cosa più dolorosa di tutta questa dolorosa realtà.
E
mi ha fatto ancora più male il rendermi conto che ti avevo lasciata andare,
quando avrei potuto impedirlo.
È
stata colpa mia, Leslie, se quel giorno sei andata laggiù da sola, se quella
corda si è spezzata, se sei caduta in quel fiume in piena, se hai abbandonato
questo mondo che aveva bisogno di te. Come ne avevo bisogno io.
Avrei
dovuto avvisarti, quella mattina, dirti che per quel giorno sarei stato con la
nostra insegnante al museo, e magari invitarti. Avrei dovuto, ma non l’ho
fatto. Non so neanch’io perché. Fatto sta che in questo modo ho lasciato che tu
te ne andassi. E tu te ne sei andata senza che io ci fossi. E mi sono odiato e
mi odio ancora e mi odierò sempre per quel giorno.
Da
allora vivo con la mia vergogna, con la mia disperazione, con i miei rimpianti.
Tutto
questo mi ha impedito di venire prima qui, Leslie, ma ora ho deciso di
affrontare me stesso. Per questo sono qui, a chiederti scusa per quello che ti
ho fatto, e a dirti quello che non ti ho mai detto.
Il
mio più grande rimorso, Leslie, è stato di non averti mai potuto ringraziare.
Non
ti ho mai ringraziato per le tue parole, per la tua amicizia, per ciò che mi
hai fatto conoscere, per avermi tirato fuori dalla ristrettezza del mio piccolo
paese, verso un nuovo mondo in cui poter essere me stesso.
Non
ti ho mai ringraziato e anche ora non ho modo di dirti quel ‘grazie’
guardandoti negli occhi.
Prima
di te la mia non era una vita, piuttosto una sopravvivenza. Mi limitavo a
subire passivamente i problemi con la mia famiglia, con i miei coetanei, con la
mia passione che non potevo condividere con nessuno, perché nessuno credeva nei
miei disegni. Ma con te ho imparato a pensare, a parlare, ad agire, ho
affrontato tutti quei problemi, ho cercato di risolverli, e sono entrato nella
magia di Terabithia, la tua magia, che tu avevi voluto condividere con me.
E
non hai mai saputo quanto io ti fossi e tuttora ti sia stato grato di tutto questo.
E questo rimpianto fa malissimo.
Non
ti ho mai detto quanto fossi importante per me, quanto la tua amicizia mi
aiutasse giorno dopo giorno ad andare avanti e a vivere, quanto fosse
fantastica quella tua capacità di aprirti al mondo e fare parte di esso.
Non
ti ho mai detto quello che ho capito troppo tardi, quando forse non avrei più
avuto nemmeno la possibilità di dirtelo.
E
ciò che avrei dovuto dirti è che ti amavo, Leslie.
Ti
ho amata davvero. Forse dal primo istante in cui ho incontrato il tuo sguardo.
Ho amato tutto di te, ti ho amata sempre; perché anche se eravamo solo due
ragazzini, mi hai fatto provare sensazioni che gli adulti chiamano amore, e che
io stesso ora posso chiamare amore. E l’ho capito tardi. Troppo tardi.
Ma
ti amavo già prima che questo schifo di vita ti strappasse a me, e pensare che
avrei dovuto capirlo e dirtelo mi fa sentire ancora peggio.
Per
dieci anni ho cercato di dimenticare la mia colpa, di convincermi che
quell’incidente sarebbe stato comunque inevitabile, e che quel sentimento che
mi legava a te era anch’esso condizionato dal tempo, perché il fatto che fosse
speciale non lo rendeva inattaccabile. Ho cercato di andare avanti. Ma non sono
mai riuscito a dimenticarti, Leslie, perché eri tu a farmi andare avanti. Eri
tu a farmi alzare dal letto al mattino, a farmi sperare nel domani alla sera, a
farmi sognare altri mondi di notte. Dopo che te ne sei andata, io sono ricaduto
in quel limbo dove tu mi avevi trovato, e stavolta faceva ancora più male,
perché adesso c’era il dolore di aver perso qualcosa che si è sempre cercato e
che per troppo poco tempo si è potuto stringere tra le mani. Un abisso di
dolore da cui non credo di essere ancora uscito.
No,
non ti ho mai dimenticata. Ed è per questo che ora sono qui, anche se è troppo
tardi. Sono venuto a cercarti perché, dovunque tu sia, meriti di sapere il modo
in cui, nel breve tempo che hai passato con me, mi hai reso migliore.
Ed
ora che te l’ho detto mi sento un po’ meglio, anche se so che le cose non
cambieranno, e che continuerai ad essere un sogno inafferrabile e perduto che
infesterà ogni mia notte con il suo sapore di occasione perduta.
Tu
sei stata davvero la mia occasione, Leslie. Eri la mia opportunità di cambiare
davvero, di cambiare in meglio, non solo me stesso, ma anche ciò che avevo
intorno. Dopo averti persa ho capito che potevo ancora cogliere
quell’occasione, e sono riuscito a restare ancorato a quella vita, a quella
famiglia, a quelle persone che prima di te non sentivo mie, ma che lo erano. Ho
trasmesso il sogno di Terabithia e tutto ciò che mi hai dato alla mia
sorellina, ho sentito per la prima volta per mio padre lo stesso calore che
legava te al tuo, ho affrontato l’opinione degli altri come tu mi avevi
insegnato a fare. E in questo senso posso dire che quell’occasione non è stata
davvero perduta. Ma te, te sì, ti ho persa per sempre.
Ho
perso l’occasione di poterti amare.
Chissà
dove sei ora.
Mi
ricordo benissimo che la mia ingenuità di ragazzo di paese mi faceva pensare
che, poiché non credevi nella parola della Bibbia, saresti andata all’inferno.
Ma ricordo anche le parole di mio padre.
“Io
non so cosa fa Dio, ma non manderà all’inferno quella ragazzina.”
Mi
manchi da morire, mi manca la tua voce, mi manca la tua allegria, mi manca
tutto di te.
Fa
malissimo, Leslie, ma è la vita. E la vita è soprattutto dolore.
Per
questo si sogna.
E
nonostante tutto la devo ringraziare, questa stessa vita che mi fa soffrire,
perché mi ha dato modo di conoscere te, e così di imparare a sognare contro il
dolore.
Ma
più di tutto sento di dover ringraziare te, ed è ciò che avrei dovuto fare
allora, prima che te ne andassi, non appena è iniziato tutto. Stringendo la tua
mano e guardandoti negli occhi. Quegli occhi che mi hanno fatto battere il
cuore, che mi hanno fatto innamorare, e il cui ricordo mi farà sempre piangere,
nascosto nel buio della notte.
E
questi pensieri, Leslie, li scriverò e farò in modo che rimangano per sempre,
così come tu eri in grado di scrivere parole che toccavano il cuore e che non
potevano essere dimenticate. Li scriverò e li imprimerò nel mondo nella
speranza che tu possa leggerli, capire, sapere, e nella speranza che anche il
mondo riceva attraverso di essi ciò che tu hai donato a me. Un sogno.
C’è
un’ultima cosa che devo dirti.
Lì
dove la corda si è spezzata, ho costruito un ponte.
Ora
so che quello non era semplicemente un ponte per Terabithia.
Era
un ponte per giungere a te. Un ponte senza fine per poterti di nuovo sentire
vicina.
Spero
solo che, alla fine del viaggio, ci rincontreremo davvero.
Allora
il passato sarà solo passato e finalmente potrò guardarti negli occhi e
chiederti scusa e ringraziarti per tutto e finalmente amarti.
Tornerò
a trovarti. Ora so che posso farlo. Anche se farà sempre male. Ma tornerò.
E
andrò avanti, perché so che tu lo vorresti.
Ciao,
Leslie.
Jess Aarons si asciuga le lacrime che non è
riuscito a trattenere. Dispone con cura i gigli contro la fredda pietra, e fa
lo stesso con la lettera su cui ha appena letto quelle parole confuse e dettate
dal cuore. Il bianco della carta e quello dei fiori sono il suo modesto omaggio
alla bianca purezza della giovane vita strappata di Leslie Burke.
Accarezza lievemente la fotografia sulla
lapide. Poi si alza e guarda il cielo.
Un arcobaleno riluce debolmente, ultima
traccia della pioggia delle ore precedenti. Lo prende come un buon segno.
Come un ponte senza fine.
Si volta e si incammina lentamente per
uscire dal cimitero.
Sa che manterrà quell’ultima promessa.
Tornerà.
E vivrà.
Per lei.