That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.008
- Il Nero
Il Mago rimise a terra il bambino e s’inchinò ai
suoi piedi. Cuilén lo guardò con tale meraviglia,
non riuscendo a capire perché quello sconosciuto gli
riservasse parole e gesti intrisi di deferenza e rispetto, che, pur
libero dalla presa, non tentò di sfuggirgli. Non era neppure
sicuro di riuscirci, a dire il vero, tanto meno avrebbe saputo dove
andare, una volta scappato: prima della comparsa dell'uomo,
Cuilén si era risvegliato solo, in un ignoto punto della
foresta, incapace di allontanarsi dal pino sotto il quale si trovava. A
quel pensiero, sul bambino ripiombarono la paura
dell'oscurità che si celava tra gli alberi, le mille domande
su dove fosse, su come e perché fosse finito lì,
su dove si trovasse la sua famiglia, sul perché quello
straniero, che aveva la stessa Runa di sua madre, si offrisse di
aiutarlo. Più di ogni altra cosa, però, lo
ghermì il terrore per l'ombra minacciosa che aveva tentato
di piombargli addosso, pochi istanti prima. Cuilén
rabbrividì, spaventato. Daghall si rialzò:
immaginando cosa turbasse il bambino, gli mise una mano sulla spalla e
cercò di assumere un'espressione rassicurante,
benché sapesse di avere un aspetto spaventoso e temesse di
dover dare delle difficili risposte. La prima cosa da fare era
tranquillizzarlo, conquistarne la fiducia, trarre tutte le informazioni
utili che possedeva, infine portarlo via con sé: se, come
temeva, Habarcat era dispersa nella foresta, il figlio di Sheira nic
a'Thon era quanto di più sacro restasse alla Confraternita,
l'unico capace, un giorno, di ritrovare la Fiamma e riportarla alla sua
gente. Cuilén fissò gli occhi grigi del Mago: non
lo conosceva ma era certo che fosse sincero quando gli prometteva che
l’avrebbe protetto e l’avrebbe riportato a casa. E
questo era il suo unico desiderio.
«Mi porterai via da qui,
vero?»
«Certo, mio signore, sul mio
onore... sono qui per questo... »
«Dalla mia mamma? E da mio
fratello, da Dòmnhall?»
Daghall non rispose, abbassò gli occhi poi annuì
al bambino che sembrava non sapere nulla. Non lo vide sorridere, pieno
di speranza, non voleva guardarlo mentre gli mentiva, non amava farlo,
ma non aveva neanche la forza o la volontà di dirgli tutto,
perché conosceva il vuoto che l’avrebbe piegato,
una volta scoperta la verità, e non voleva legare il proprio
nome a quel dolore. Tanto meno aveva intenzione di gestire un moccioso
nel pieno della disperazione. Cercò di cambiare discorso:
aveva un compito e intendeva portarlo a termine al più
presto, spettava ad altri occuparsi di tutto il resto. Si
chinò e gli chiese di alzare le braccia, gli girò
intorno, sfiorandolo con la bacchetta, controllando che le vesti non
fossero stracciate o sporche di sangue, segno di ferite nascoste.
«Vi sentite bene, mio signore?
Vi fa male da qualche parte? Non mi sembrate ferito... ma... »
«Ferito? Perché
dovrei? Io non sono caduto... »
Daghall tacque, pensoso: non c’era corrispondenza tra quanto
aveva visto nella foresta e i comportamenti del bambino, era troppo
calmo per aver assistito al massacro. Era così traumatizzato
da aver rimosso i ricordi? O era già lontano, quando tutto
si era compiuto? Se, però, aveva avuto sentore del pericolo,
perché Sheira non aveva difeso anche se stessa e il resto
della famiglia? Chi aveva preso suo figlio e perché l'aveva
lasciato solo tra gli alberi? Dove si trovava adesso? La speranza
illuminò per pochi istanti il Mago, immaginò
l'ignoto salvatore intento a nascondere Habarcat in un luogo sicuro,
peccato fosse un pensiero infondato: la Fiamma era intoccabile per chi
non fosse il suo Custode e Daghall aveva visto morire Sheira con tutta
la sua famiglia, eccetto quel bambino. Habarcat però non era
lì, Cuilén non l'aveva con sé, la
Fiamma era stata nascosta prima, nei paraggi o forse più
lontano. Non lo sapeva: il medaglione del Venerabile, l’unico
manufatto in grado di percepirla, emanava deboli bagliori solo a
tratti, sembrava aver smesso di funzionare.
“O forse funziona, ma...
è il potere della Fiamma Verde che è venuto meno
per sempre... ”
Confuso da tutti quegli interrogativi, Daghall puntò la
bacchetta su Cuilén e la mosse lentamente intorno alla sua
testa: il piccolo sentì uno strano formicolio, una specie di
“solletico ai pensieri”, simile a quando
Dòmnhall gli stuzzicava i piedi o i fianchi per farlo ridere
fino alle lacrime. All'improvviso rivide tutto il giorno precedente, la
tenda di sua madre, illuminata dalla Fiamma Verde, suo fratello
Dòmnhall che gli regalava il richiamo per gli uccelli e gli
prometteva di fargli conoscere, l’indomani, “il
nuovo fratellino”. Poi nulla, fino all'angosciante risveglio
nel bosco.
“La Fiamma era con lei, ieri.
E Sheira ha partorito, per questo era debole! Oh dei, e se...
”
Il Mago scosse la testa, turbato, e ripose alla cintola la sua
bacchetta.
«Non siete ferito e i vostri
ricordi sono intatti, mio signore... andiamo, a casa i Guaritori lo
confermeranno... »
Daghall lo guardò, imponendosi di sorridergli rassicurante,
Cuilén, però, notò che il suo sorriso
era più sfuggente di quello che aveva suo fratello, quando
gli faceva una promessa. Allungò la mano, toccò
la faccia dell'uomo, la barba folta, la linea dritta del naso, poi
scivolò sulla Runa del collo. La fissò e
tornò a scrutarlo negli occhi: il Mago, incapace di reggere
quello sguardo, abbassò la testa.
«La tua Runa è solo
simile a quella della mia mamma... ma non è la stessa... Tu
chi sei?»
Daghall non si aspettava che un bambino vissuto per sei anni nel bosco,
in isolamento, fosse in grado di distinguere così bene i
dettagli delle Rune: sorpreso, non seppe cosa dirgli, si
limitò ad annuire, senza aggiungere altro, senza spiegare
altro, poi si alzò, a disagio, chiedendogli di seguirlo.
«Si sta facendo tardi, mio
signore... vostro nonno vorrebbe accogliervi prima del
tramonto.»
«Ho paura... »
«Di che cosa? Non avete nulla
da temere da me: io servo… vostro nonno, il mio Maestro...
»
«... ho paura... del...
“mostro”!»
Cuilén volse lo sguardo verso il punto estremo della radura,
la vide nascosta tra i cespugli e, con il dito, indicò la
massa oscura che si era avventata su di lui, pochi minuti prima. L'uomo
si guardò intorno senza capire, poi comprese che il dito era
puntato su Heliantòs, l'Ippogrifo con cui aveva sorvolato
quella parte delle Terre del Nord, fino alla radura, attratto dalla
Magia Antica della Strega.
«Non temete, mio signore.
È Heliantòs, è nostro amico:
sarà lui a portarci a casa... »
«La mia casa è
qui... nel bosco... »
«Certo, mio signore,
ma… salite con me sulla sua schiena e voleremo veloci fino a
casa... »
«Volare? Come gli
uccelli?»
«Come gli uccelli...
sorvoleremo foreste e montagne, fino a destinazione... »
«E la mia mamma? Anche la mia
mamma è volata via su… quel... la
“cosa”?»
Daghall, in difficoltà, non sapeva come rispondere, con un
cenno, chiamò a sé la bestia, sperando di
distrarre l'attenzione del bambino dalla madre, concentrandola
sull'imponente e magnifico animale.
«Heliantòs
è un Ippogrifo, mio signore... ne avete mai visto
uno?»
Il bambino negò con la testa, affascinato e terrorizzato da
quell'essere che emerse maestoso e terribile, dal folto della foresta,
e camminò fino a portarsi accanto al suo padrone: quando un
raggio di sole lo colpì illuminandolo in pieno,
però, Cuilén urlò, vedendo quel corpo
per buona parte simile a quello di un cavallo, ma con le ali e la testa
di un'aquila e il petto e le zampe anteriori di un leone.
«Mandalo via! Ho paura!
Mandalo via!»
La bestia s’inalberò, Daghall ebbe
difficoltà a riportarlo alla calma, mentre il bambino
strillava.
«Buono Heliantòs!
Non fate così, mio signore... gli Ippogrifi sono fieri e
pericolosi, certo, ma sono anche validi alleati, quando se ne conquista
il rispetto... buono così, Heliantòs... Sono
creature meravigliose, ci aiutano a pattugliare le Terre come un tempo
facevamo con i Draghi... Un giorno v’insegnerò a
cavalcarne uno, da solo... io l'ho appreso quando ero più
piccolo di voi... fidatevi, salite sulla sua schiena con me: godrete
della carezza del vento sul vostro viso...»
Cuilén, atterrito, vide Daghall prendere qualcosa dalla
bisaccia e lanciarlo all'indirizzo della bestia che saltò
per divorarla, poi s’inchinò di fronte a lui e la
bestia s'inchinò al suo padrone... Heliantòs
annusò la mano del Mago, infine si lasciò
accarezzare il capo, come facevano i lupi addomesticati di
Dòmnhall.
«Fidatevi, i miei allevavano
Ippogrifi e Draghi... avete mai visto un Drago, mio signore?»
Cuilén negò con la testa, incredulo e
terrorizzato ma anche sempre più affascinato.
«Un giorno li cavalcherete...
Voi… voi avete il Sangue degli Antichi nelle vene,
sapete?»
«Che
cos’è il Sangue degli Antichi?»
«Vostro nonno vi attende per
raccontarvi tutto. Ora ripetete i miei gesti: inchinatevi... alzate la
mano, appena... attendete... ecco... non urlate, ora: si sta
avvicinando... bene... così... molto bene…
»
Cuilén, titubante, fece ciò che gli era stato
suggerito e, dopo alcuni minuti di trepidante timore,
affondò le dita nel folto piumaggio dell'animale: colmo di
stupore, si ritrovò a sorridere, entusiasta.
«Non vi agitate, ora: vi isso
sulla sella e resto a terra per condurlo alla radura, da lì
spiccherà il volo. Lo controllo con la Magia, fidatevi di
me... E di lui... »
Il bambino, emozionato, annuì, sembrava aver già
dimenticato la paura, si lasciò issare tra le ali
dell'Ippogrifo ed emise un grido eccitato, quando guardò il
mondo, attorno a sé, dall'alto.
«Ditemi, mio signore,
riconoscete forse la strada fatta per arrivare qua? Ci siete
già stato? Ricordate se vi siete fermato sotto un albero o
vicino a qualcuna di queste pietre, in passato?»
«No... non so come sono
arrivato qui... e non mi sembra di riconoscere questo bosco...
»
Cuilén tornò a guardarsi attorno, curioso,
Daghall annuì, deluso: aveva sperato che il bambino
ricordasse un dettaglio con cui risalire al nascondiglio della Fiamma.
Si guardò intorno, puntò di nuovo la bacchetta
ma, ovunque, c'era solo una silenziosa, sconfinata, verdeggiante
foresta. Guardò il medaglione del Venerabile Thon
McCuilén, tese il braccio, secondo i quattro punti
cardinali, cercando un segno, invano. Allora il Mago
s’inoltrò lentamente nel bosco, il passo sicuro:
controllava il suo Ippogrifo e rispondeva con calma e pazienza alle
mille domande di Cuilén su Heliantòs e sui
Draghi, così che il bambino si tranquillizzasse e prendesse
confidenza con lui. Stava in allerta, però, fissando di
continuo il medaglione, non voleva farsi sfuggire alcun dettaglio. Ad
ogni passo, il Mago si allontanava. Ad ogni passo, Habarcat taceva.
*
Cuilén non era mai stato tanto emozionato. Si stava librando
in volo, sentiva il calore tiepido del sole sul corpo e l'aria fresca
sul viso, i suoi occhi spaziavano sopra un'immensità di
sfumature di verde, su dolci colline e alte montagne fatte di nuda
roccia. Si stava allontanando sempre di più dalla foresta in
cui era vissuto ma, piccolo e ingenuo com'era, nemmeno se ne rendeva
del tutto conto, preso dalle meraviglie di quella straordinaria
avventura: aveva visto un gruppo di caprioli correre in una radura e
aveva gridato tanto forte da metterli in fuga; si erano alzati in alto
e avevano visto da vicino un'aquila in volo. Non aveva paura,
perché con lui c'era l'uomo che lo stava riportando a casa.
Si era spaventato solo all'inizio, vedendo l'aspetto minaccioso di
Heliantòs, ma una volta salito in groppa, Cuilén
aveva provato solo un profondo senso di libertà. Era stato
sicuro di svenire, quando aveva visto il baratro da cui
Heliantòs si sarebbe gettato per spiccare il volo, invece,
quando l'aria non era arrivata ai suoi polmoni e il respiro gli si era
mozzato, si era sentito vivo e forte, come non mai: cadere in
quell'abisso verdeggiante per poi recuperare quota e librarsi in alto
non gli aveva provocato la paura paralizzante che lo coglieva di fronte
al fiume, sembrava anzi che nell'aria avesse trovato il “suo
elemento”, come diceva Dòmnhall. Cuilén
non vedeva l'ora di essere a casa, abbracciare suo fratello, parlargli,
salire su Heliantòs con lui: forse sarebbe stato proprio
Dòmnhall ad aver timore dell'Ippogrifo e sarebbe toccato a
lui insegnargli cosa fare. A quell'idea, il bambino scoppiò
a ridere, elettrizzato, e l'uomo, alle sue spalle, si chinò
al suo orecchio per chiedergli se andasse tutto bene: Cuilén
gli rispose di non essere mai stato tanto felice. Il Mago sorrise,
sapeva come si sentiva quel bambino, ormai era un uomo ma ricordava
ancora la propria emozione, la prima volta che suo padre
l’aveva portato in volo sopra il Kernow, su un giovane
Heliantòs: gliel'aveva donato quel giorno. Il giorno del suo
quinto compleanno.
*
Il sole aveva superato la metà del suo percorso e il picco,
alto nel cielo, quando la corona di montagne davanti a loro si
aprì all'improvviso, lasciando vedere, meravigliosa, una
distesa blu cobalto alle sue spalle, appena increspata da timide
striature dorate, illuminate dal sole.
«Quello è l'oceano,
mio signore... »
Cuilén era già a bocca aperta, meravigliato,
quando Heliantòs scese a capofitto, strappandogli un urlo
euforico. Dietro le montagne non c'era subito il mare ma, gioiello
nascosto alla vista, si apriva un vasto altopiano, circondato da alture
via via più basse e frastagliate, che si rincorrevano
creando un ambiente variegato in cui predominavano il verde dei boschi
e il giallo delle radure. Heliantòs sorvolò la
pianura in tutta la sua lunghezza, ad ampie falcate, scendendo a poco a
poco, tanto che Cuilén s'illuse che si preparasse ad
atterrare, anche perché il mare si avvicinava velocemente e
la terra si riduceva sotto i loro piedi, sempre di più. Di
colpo, invece, l'Ippogrifo riprese velocità e
puntò in picchiata dritto davanti a sé,
finché la terra mancò del tutto sotto di loro e,
improvvisa, luccicò tutto intorno solo la vastità
cobalto. Cuilén serrò le dita sulle redini,
mentre si voltava, terrorizzato, e vedeva l'altopiano sparire alle sue
spalle: si era interrotto in una scogliera ripida che scendeva a picco,
come una lama bianca conficcata verticalmente tra i flutti spumosi.
«Non abbiate timore, mio
signore... sono qui, con voi… »
L’Ippogrifo scese prendendo ancora velocità,
Cuilén pregò che non volesse tuffarsi
nell'oceano, ma sembrava avesse proprio quell'intenzione: vedendosi
circondato da tutta quell'acqua, sempre più vicina, il
bambino s’irrigidì, il sangue gli
imporporò le guance e il respiro gli divenne corto. Non si
mise a piangere, però, anzi, la paura uscì dalla
sua gola in un unico urlo, prolungato e liberatorio. Non si era mai
sentito così, un'energia misteriosa si era liberata dal suo
petto. Il Mago gli strinse una spalla, per infondergli coraggio, mentre
Cuilén tremava, erano ormai a pochi metri dall'acqua e
Heliantòs non accennava a fermarsi. All'improvviso,
finalmente, gli dei l'ascoltarono: arrivato a sfiorare le onde con le
zampe, Heliantòs riprese a volare orizzontalmente e, invece
di gettarsi nel mare, sollevò una pioggerellina salata con
il tocco degli artigli. Il bambino riprese a respirare.
«Non è emozionante
volare con un Ippogrifo, mio signore?»
Il Mago rise e Cuilén gli disse di essere morto di paura: da
sempre l'acqua lo terrorizzava e di solito scoppiava a piangere,
facendo arrabbiare suo padre, stavolta invece aveva urlato e, dopo le
urla, gli sembrava di stare meglio; Daghall annuì, estrasse
la bacchetta e la puntò davanti a sé,
staccò una bolla d'acqua dalla superficie dell'oceano, la
fece volteggiare e la attrasse, portandola al bambino.
«Voi avete paura dell'acqua,
come io ne avevo del fuoco... Trattenetela, se volete
“capirla”.»
«Trattenerla? Non si
può afferrare l'acqua, lei scivola sempre e ricade
giù... »
«Ne siete proprio sicuro, mio
signore? Io la sto trattenendo per porgerla a voi, vedete?»
Heliantòs si era voltato compiendo un ampio semicerchio
sull'acqua, ora volavano lievi sull'oceano, a pochi centimetri dalla
superficie, puntando verso la costa, la bolla librata in aria, davanti
a loro: Daghall iniziò a muovere la bacchetta, imponendo
alla massa, con una serie d’incantesimi silenziosi, di
assumere varie forme, poi, quando le zampe di Heliantòs
toccarono terra, la fece esplodere in una miriade di farfalle umide e
salate, sopra di loro. Una specie di globo luminoso si
staccò da quella pioggia, volando via, simile a un dardo o
un uccello, che sfrecciava alto verso il cielo. Cuilén stava
per chiedere al Mago che cosa fosse, quando l'Ippogrifo si
scrollò via l’acqua di dosso, inzuppandoli una
seconda volta: Daghall e il bambino, fradici, scoppiarono a ridere.
«Come hai fatto? Era
bellissimo!»
«Magia... Una Magia che
imparerete anche voi... tra qualche anno… »
«Perché usi quel
legnetto? La mamma fa le Magie ma non usa i bastoncini, solo le mani...
»
«Il legno serve solo a
indirizzare meglio la Magia che sta nelle nostre mani, mio signore...
»
Il Mago gli sorrise ma non gli disse altro: ancora umido di acqua di
mare, Daghall saltò giù da Heliantòs,
poi impose all’Ippogrifo di chinarsi per far scendere anche
il bambino. Catturato dall'esperienza del volo e dell'acqua, fino a
quel momento Cuilén non si era guardato intorno, ora
però, mentre i suoi piedi toccavano la sabbia, si
ritrovò a osservare una caletta stretta, a ridosso della
parete a strapiombo della scogliera: era così minuscola e
piena di rocce e massi, che, dall'alto, non era visibile. Il bambino
alzò gli occhi, fino alla cima, la parete appariva liscia e
compatta, si chiese da che parte si uscisse da lì, senza un
Ippogrifo con cui andarsene in volo.
«Dove siamo? Non
c’è nulla di simile vicino a casa mia...
»
«Prima di portarvi da vostro
nonno, devo... incontrare una persona... mi scusate, vero?»
«Non mi lasciare qui da solo,
però... non lo farai, vero?»
«No, non temete, mio signore,
voi verrete con me: devo presentare voi, a quella persona…
»
Il bambino lo guardò incuriosito, mentre l’uomo
gli puntava la bacchetta addosso per asciugarlo e pulirgli il viso e le
vesti, poi si spogliò degli abiti lerci, rimanendo con una
strana tunica fatta di metallo, sopra quella di lana, e un vistoso
medaglione al collo. Si tolse tutto e, ormai nudo, cancellò
con la bacchetta polvere, sangue e sudore dal suo corpo; prese dalla
sacca una tunica più leggera, grigia, indossò di
nuovo la cotta e sopra infilò una corta toga verde, dagli
intarsi elaborati. Il bambino era rimasto a bocca aperta a guardarlo,
impressionato dalle Rune: mentre si cambiava, l'uomo gli aveva
ricordato suo padre, per quella barba folta, il corpo muscoloso, i
capelli resi ricci dall’acqua, i ghirigori
d’inchiostro che decoravano tutta la sua pelle. Era la
versione più giovane di suo padre o quella più
vecchia di suo fratello, a scelta. Continuava a chiedersi chi fosse,
magari era uno zio…
«Andiamo, mio signore, ci
aspettano... »
Daghall aveva finito di vestirsi, si era fissato alla cintola il fodero
della lama e aveva sistemato sulla schiena un arco e una faretra piena
di frecce, più elaborate di quelle che usava
Dòmnhall per la caccia: li aveva estratti dalla bisaccia
legata alla sella di Heliantòs, quando gli aveva dato un
paio di furetti per pranzo. Cuilén non capiva come tutta
quella roba potesse stare in una sacca tanto piccola.
«Heliantòs non
viene con noi?»
«Ci raggiungerà
dopo... per la strada che dobbiamo fare... non riuscirebbe a passare...
»
Il bambino non chiese altro, l'uomo sembrava teso, poco disposto a
parlare. A volte facevano così anche suo fratello e i suoi
genitori e Cuilén sapeva che in quei momenti era meglio
lasciarli in pace, tanto non riusciva a strappar loro mezza parola.
Nonostante le pesanti armi indossate, l'uomo si diresse rapido verso le
rocce, doveva esserci un sentiero, invisibile dalla spiaggetta:
s’inerpicò tra i massi, rivelando che la parete
era compatta solo in apparenza. Cuilén iniziò a
seguirlo, con difficoltà, facendo attenzione a non cadere e
osservando di tanto in tanto il mare, sempre più basso sotto
di lui. All’improvviso, si aprì un varco tra le
pietre. Il bambino guardò la spiaggia deserta ancora una
volta: Heliantòs si librava tra terra e mare, a caccia di
gabbiani.
***
La notte precedente...
... Lucretia...
Nella stanza immersa nel silenzio, un braciere rifletteva bagliori
morenti e la luce rossastra dei tizzoni scivolava tremula sul corpo
nudo di un uomo addormentato, le pelli d’orso calciate via, a
terra. Era ancora buio, quando colpi concitati fecero vibrare la
pesante porta di quercia, al piano di sotto. Il Mago
mugugnò, infastidito, provò a nascondere il capo
sotto il cuscino, lottando per trattenere i sogni, per non farli
affievolire e diventare polvere. Dopo alcuni istanti di smarrimento,
però, la ripida parete rocciosa che stava scalando si
sciolse sotto le sue dita e divenne fumo, si sentì cadere
nel vuoto e i suoi occhi si aprirono di colpo sulla vista di un
baldacchino sfatto e di quattro pareti spoglie. Col cuore in gola,
tornato alla realtà di soprassalto, l'uomo prese un respiro
fondo, ricacciò indietro i nomi che teneva sulle labbra, si
deterse il sudore con la Magia e scivolò fuori dal giaciglio
e dai tendaggi che proteggevano il suo letto. Si avvicinò
alla finestra e vide la notte da poco giunta al suo culmine. Si
chinò ad afferrare il mantello abbandonato a terra, se lo
gettò sulla schiena accaldata, drappeggiandoselo addosso,
per coprirsi alla meglio. Infine, scese la scala di legno, ravviandosi
le ciocche corvine con la mano impreziosita da Rune e anelli.
Non fu sorpreso nel trovarsi di fronte Thon McCuilén: pochi
si avvicinavano alla sua porta di giorno; nessuno, a
quell’ora della notte, a parte il “Venerabile della
Confraternita”, il membro più anziano e importante
del Consiglio dei Saggi. Il vecchio aveva un profondo legame con il
Mago da quando, dieci anni prima, l'aveva preso sotto la sua
protezione, appena tredicenne, giunto nelle Terre del Nord in sella a
un Ippogrifo, Heliantòs, in fuga dalla guerra che stava
sconvolgendo il Kernow (1).
Da quel momento, Thon McCuilén aveva raccolto le confidenze
del ragazzo, scoprendone la storia e celandone a tutti, per
proteggerlo, l’identità, l’aveva
preparato di persona al Cammino del Nord e l'aveva accolto nella sua
famiglia come un figlio, dandogli persino la Runa della sua stirpe e il
suo nome, un nome delle Terre del Nord: Daghall McThon. Quasi nessun
altro, nel villaggio, si era avvicinato volentieri al giovane, il
disinteresse anzi si era trasformato in ostilità nel corso
dei primi anni, a mano a mano che l'intruso assumeva atteggiamenti
ribelli; in seguito, quando, per volontà del Venerabile,
aveva acquisito potere e autorità, avevano iniziato a
circolare delle dicerie, secondo le quali il giovane era stato inviato
dai Maghi del Sud per rubare Habarcat, approfittando che fosse dispersa
sul massiccio di Am Monadh. Per questo, dopo anni, nonostante
l'agiatezza e una vita ormai irreprensibile, molti uomini della
Confraternita si ostinavano a isolare il giovane, a negargli la mano
delle proprie figlie, come aveva fatto Cinàed il Pozionista,
e il nome delle Terre chiamandolo per sfregio “Daghall il
Nero”, lo straniero dalle chiome corvine. Daghall sembrava
non curarsene più, ormai si presentava per primo, a tutti,
come “Il Nero”; da giovane, invece, aveva sofferto
del silenzio e del disprezzo degli altri e, in una notte di follia e
alterazione, si era inciso una A, la prima lettera del suo vero nome,
sopra la Runa del collo, con una vecchia lama arrugginita, per
affermare l'appartenenza a se stesso e al suo vero mondo. Solo
l'intervento disperato del vecchio l'aveva salvato da morte certa.
Senza scambiarsi una parola, Daghall si fece da parte e Thon
entrò, seguito da un altro Mago, rimasto
nell'oscurità fino a quel momento: Padraig, originario di
Árd Macha (2),
in Irlanda, era un altro dei saggi, un uomo arcigno, alto e
rinsecchito, stretto nella sua toga, grigia come il suo incarnato
smunto, il cappuccio tirato su a mascherare il volto butterato. Il
Venerabile, esile come un fuscello e piegato dall'età e dai
pensieri, si avvicinò lentamente al tavolo e si
guardò intorno, il nobile e austero cipiglio intriso di
disapprovazione, appena gli occhi velati dalla vecchiaia misero a fuoco
le ceneri fumanti nel camino: lo addolorava rendersi conto che il suo
pupillo, nonostante i tanti insegnamenti e i consigli, cedeva ancora
alle emozioni e cercava rifugio dal dolore nello stordimento delle
erbe. Il Nero se ne accorse e incrociò le braccia al petto,
come faceva da ragazzino, in un gesto d'istintiva difesa: era un uomo,
ormai, e nessuno poteva più interferire nella sua vita.
Fissò per alcuni istanti il Maestro, poi rammentò
a se stesso che quello non era più solo il suo
“padrino” e lui stesso non era più solo
un figlioccio. L’inaspettata, inattesa visita, nel cuore
della notte, del Venerabile Thon McCuilén a Daghall McThon,
detto il Nero, Capo della Guarnigione era tutt’altro che una
questione privata, era la prova che un fatto d’inaudita
gravità era avvenuto nelle Terre e che la sua gente aveva
bisogno del suo intervento. Daghall invitò il Venerabile ad
accomodarsi, lo guidò a una sedia, sostenendogli il braccio,
sotto lo sguardo di Padraig, indeciso se avvicinarsi o restare sulla
porta. Il Nero andò alla dispensa, versò
dell'idromele e l’offrì agli ospiti: il vecchio
rifiutò con un cenno del capo, l'irlandese bevve tutto in un
solo sorso. Daghall notò che le mani del Saggio Padraig, un
pomposo individuo, famoso per non mostrarsi mai in pubblico privo della
sua arrogante sicurezza, in quel momento tremavano e iniziò
a preoccuparsi. Con gli occhi fissi a terra, per secondi interminabili,
nessuno dei tre fu in grado di iniziare un discorso, finché
Thon McCuilén, pallido, alzò lo sguardo d'acciaio
sul suo pupillo, in piedi di fronte a lui, e librò la voce
cantilenante di Divinatore, spezzando il silenzio teso.
«La Notte ha assunto il Volto
della Morte, figlio mio... tu l'avevi visto per tempo ma noi, poveri
sciocchi... non abbiamo agito! Ora la Morte danza nella foresta e la
Verde Reliquia... »
«Il Maestro vuole dire...
»
Il Nero non aspettò le spiegazioni di Padraig, che aveva il
compito di tradurre e spiegare alla comunità, con parole
semplici, i vaticini del Venerabile: Daghall non ne aveva mai avuto
bisogno, inoltre temeva e si aspettava quel momento da settimane. Corse
alla finestra, scrutò il cielo, sentì il respiro
mozzarglisi in gola quando vide Marte ergersi livido nel cielo nero,
come un cuore grondante sangue. Il giovane era stato il primo a notare
la luce sinistra e a capire che gli eventi stavano precipitando, dando
l'allarme, più di un mese prima: da allora, notte dopo
notte, Marte aveva gridato sempre più forte la propria
collera, rimanendo inascoltato dalle genti delle Terre.
«... la luce di Marte
stanotte... »
«Lo so... lo vedo... ve l'ho
ripetuto io stesso per settimane, Padraig... ve ne
rammentate?»
Daghall interruppe il saggio, furioso: conosceva il significato della
strana luce rossa dell'astro, ne aveva visto le conseguenze con i
propri occhi, da ragazzino, per questo aveva chiesto di parlare al
Consiglio; nessuno, però, pur riconoscendo la stranezza del
fenomeno, gli aveva prestato ascolto, confidando nel fatto che le
profezie delle Pietre Veggenti (3)
non prevedevano “sciagure” per la Confraternita
nell'“era” che stavano vivendo. Il giovane non
aveva replicato, non si aspettava di essere creduto da tutti loro, ma
sperava di far breccia almeno nel Venerabile McCuilén... Il
Nero scolò l'idromele e fissò i profondi occhi
grigi colmi di risentimento su Padraig: dal suo arrivo nelle Terre,
quell'uomo di mezza età, presuntuoso e ottuso, aveva colto
ogni occasione per screditarlo, opera sua e del suo degno compare,
Cinàed il Pozionista, era anzi la maggior parte delle
malignità messe in giro sul suo conto. Aveva avuto
dimostrazione della fondatezza dei suoi sospetti quando aveva spiegato
i propri timori al Venerabile, invitandolo ad agire, ma l'irlandese
aveva fatto di tutto per intromettersi e boicottarlo, isolandolo ancora
di più con nuove maldicenze.
«Se non godi di un briciolo di
credibilità, non è colpa mia! Vivi nei boschi,
come un eremita… a parte il tuo lavoro, non fai nulla per
gli altri… cedi a certe... debolezze...
l’altisonante nome che porti non basta più a
celare le tue mancanze, Daghall, perciò prenditela con te
stesso!»
Padraig si era avvicinato al camino, si era chinato a raccogliere la
cenere e l'aveva annusata, fissandolo disgustato. Daghall era scoppiato
a ridere, beffardo, per celare il proprio nervosismo.
«Avete ragione… non
bastano né il nome, né le azioni, quando
c’è chi infarcisce le tue presunte mancanze con le
proprie fantasiose falsità... dico bene, Saggio
Padraig?»
«Basta
così!»
Thon McCuilén, tremante, si alzò, facendoli
tacere, il Nero sibilò un ultimo insulto contro l'irlandese,
ben misera soddisfazione, lo sapeva, ma l’unica che potesse
prendersi: avrebbe voluto sbattere quel viscido individuo fuori dalla
sua casa e dargli la lezione che meritava, a trattenerlo,
però, c’erano il debito di riconoscenza che lo
legava al vecchio e l’idea dell’espressione
trionfante di Padraig appena fosse riuscito nello scopo di cacciarlo
dalle Terre. A dire il vero, se non fosse stato per
l’orgoglio e per la volontà di difendere l'uomo
che l'aveva cresciuto e protetto, Daghall se ne sarebbe andato
già da un pezzo, quei luoghi non erano la sua casa; per Thon
McCuilén, però, non solo era rimasto, ma aveva
persino accettato di guidare la Guarnigione, quando
gliel’aveva chiesto. La sua vita era cambiata da allora, non
aveva soffocato e vinto la sua rabbia, ma aveva trovato il modo di
indirizzarla in maniera costruttiva. Anche le sue relazioni erano
migliorate, Daghall aveva assegnato ruoli e turni ai suoi uomini
“secondo giustizia e imparzialità”,
ottenendo da loro se non amicizia almeno lealtà e rispetto;
aveva riservato a se stesso le pattuglie notturne sui pericolosi
confini settentrionali, da tutti rifiutati, desideroso com'era di
solitudine e silenzio. Impartiti gli ordini agli altri, si allontanava
in sella al suo fido Heliantòs, al tramonto, per ritornare
solo l'indomani, quando il sole era già alto; vagava per i
boschi, controllando le colonie dei Thestral, le rive del lago, i
confini che separavano la Confraternita dai Centauri,
l'immensità dell'oceano e le coste frastagliate. Quel
compito gli consentiva di passare la maggior parte delle notti da solo,
all'aperto, lontano dagli altri e Daghall ne approfittava per ritrovare
la sua pace interiore, secondo gli insegnamenti del Maestro. Lo
esponeva, però, anche a nuove chiacchiere e maldicenze cui
cercava di non pensare. Saliva sulle alture, sopra i boschi, sopra le
ripide scogliere, fermandosi sull'altopiano battuto dal vento
settentrionale, dove attendeva il sorgere del nuovo giorno, ammirando
gli astri, come faceva da bambino. Anche se, secondo i Saggi del Nord,
“non aveva il Dono della Divinazione”, Daghall
amava leggere le stelle, consapevole che erano gli altri a non voler
riconoscere la sua abilità nell'interpretare i segni. A
volte, raggiungeva la placida quiete della Sorgente (4) e lì,
seduto sotto gli alberi, pensava, ammirando il lento sgorgare
dell'acqua dalla polla: immerso nel silenzio e nella solitudine,
ipnotizzato dal fluire dell'acqua, la memoria di Daghall scivolava a
scalfire la sua anima, riportandolo indietro, allo stesso cielo ma a
una terra diversa; a sua sorella Laetitia, dai boccoli dorati; a suo
padre, di cui portava lo stesso nome, un nome di stella; ad Attius, il
precettore dalle chiome leonine: era stato lui a insegnargli a
cavalcare gli Ippogrifi, a governare la Magia con la bacchetta, a
studiare Marte dalle scogliere di Zennor.
Zennor…
Il Nero si sentì mancare il respiro, strinse i pugni e si
fece avanti, consapevole di essere sul punto di perdere il controllo,
s'inginocchiò rispettoso davanti al suo Maestro e nascose il
volto contro la seta verde della sua ricca toga, come se la volesse
baciare, in segno di deferenza.
«Maestro, cosa vi fa credere
che il pericolo sia nella foresta e non qui? Potrebbe…
»
«Sheira… mia
figlia… mi è apparsa in sogno…
chiedeva aiuto… sprofondava nel sangue…»
Daghall percepì un brivido gelido lungo la schiena, non
disse nulla, si limitò ad annuire.
«Volete che vada solo,
Maestro, o devo portare la Guarnigione? Quando volete che
parta?»
Il vecchio lo fissò, alzò una mano tremante e la
poggiò sul capo di quel suo “figlio”,
l'unico che gli restasse; la vita gli aveva dato molto in
gioventù, l'onore, la gloria, il potere, una famiglia
numerosa, ma il destino della sua stirpe era da sempre segnato: un
unico ramo poteva sopravvivere (5).
Con la maturità, erano aumentati gli acciacchi e, uno dopo
l'altro, erano diminuiti i figli. Insieme alle forze. Il dolore
più grande, però, restava lei: la figlia
più preziosa, la sacerdotessa di Habarcat, quella Sheira che
l’aveva tradito, rubando la sacra Fiamma e infrangendo i
voti, solo per amore (6).
Per il grande Thon, che aveva sconfitto in gioventù persino
il gigante Harkmut, guadagnandosi la stima del suo popolo, quello era
stato un colpo tremendo: da quel giorno la sua mente non era
più stata lucida, la sua autorevolezza e il suo potere erano
stati messi in discussione. Quando il giovane profugo del Sud era
giunto alla sua porta, però, qualcosa era cambiato, non
aveva voluto ascoltare i timori e i consigli degli altri Saggi, aveva
agito d'istinto, seguendo il cuore: aveva visto in quel piccolo orfano
il riscatto dai suoi tanti dolori, un significato, un senso per le sue
giornate inesorabilmente vuote. Non si sentiva più morto
dentro, quando vagava per i boschi con lui, insegnandogli a riconoscere
le orme e svelandogli i segreti del Nord. Ora quel ragazzino sconvolto
dalla guerra era diventato un uomo forte e coraggioso, forgiato dal
dolore e dalle avversità, giusto ma anche profondamente
umano, tanto da cedere e sbagliare ancora, posto di fronte ai fantasmi
del suo passato. Thon McCuilén annuì, turbato,
fissando quegli occhi grigi: voleva intervenire e salvare Sheira,
più di ogni cosa, anche se in apparenza avrebbe agito solo
per ricondurre Habarcat in seno alla Confraternita, e
l’avrebbe fatto anche senza il consenso del Consiglio, pronto
a pagarne le conseguenze. Non era disposto, però, a
compromettere altri con le sue azioni, per questo il Venerabile esitava
all’idea di coinvolgere il suo figlioccio, benché
non potesse fidarsi di nessun altro, come gli aveva opportunamente
ricordato Padraig.
«Agire porterebbe conseguenze
spiacevoli a entrambi, Daghall... e tu… hai già
pagato... »
«Non c'è altro
modo, Maestro: il Saggio Eoghan (7)
ha fissato la partenza per vostro nipote alla prossima luna nuova, ma
mancano ancora tre settimane e muovendosi con la barca, non
sarà là prima di un mese... Marte dice che
qualcosa sta per accadere, perciò…
partirò alle prime luci... »
«Devi partire adesso, Daghall!
Le Pietre Veggenti... Diteglielo, Maestro! Quello che deve accadere,
sta accadendo ora... Non tra un mese, o tra una settimana, o tra un
giorno... adesso!»
Il vecchio chinò il capo, strinse i pugni e si
colpì la fronte, devastato dalla lotta interiore, Padraig
pallido gli porse la solita pozione calmante ma il vecchio
rifiutò, ormai non più lucido. Daghall
fissò entrambi, il sudore gelido iniziava a imperlargli la
fronte: aveva un brutto presentimento.
«Se indugerai, Daghall, il
tempo della Magia finirà: Habarcat deve tornare nel suo
giaciglio entro il tramonto. Altrimenti si spegnerà, come la
Fiamma di Dùn Ceartáin... »
Il Nero annuì, conosceva le leggende di Lugh (8), sapeva che,
oltre Habarcat, erano state donate agli Antichi altre due reliquie
simili e che la Rossa Fiamma di Ériu aveva già
esaurito tutto il suo potere. Non sapeva come ciò fosse
accaduto ma non voleva correre il rischio di vederlo con i suoi occhi.
«Vado a preparare
Heliantòs. Maestro… nessuno… deve
sapere... dico bene?»
Il vecchio annuì, il colore terreo del volto
lasciò il posto al rossore della vergogna: aveva sempre
usato la propria autorità per il bene degli altri, aveva
sempre ricordato a se stesso di essere il Custode della Fiamma prima di
essere un padre, un marito, un uomo… e ora che, per la prima
volta, cercava di ottenere qualcosa per se stesso, gli sembrava di
commettere un’empietà.
«Riportameli, figlio
mio… te ne prego… riportameli tutti…
»
«Farò tutto
ciò che è in mio potere per riportarveli, ve lo
giuro, Maestro… »
Il Nero, in imbarazzo di fronte a quella manifestazione di sentimenti,
si voltò, evocò l'Elfo Kriantòs, che
gli preparò la borraccia e i viveri per il viaggio,
salì a indossare le vesti da caccia sopra la cotta di
maglia, nascose l’arco e una daga nella sacca magica,
perché non sapeva che cosa avrebbe trovato nella foresta, ma
era in grado di affrontare di tutto, sapeva combattere con la Magia e
alla maniera dei Babbani. Era stato Attius a insegnarglielo, gli aveva
spiegato come nascondere la Magia, perché nella terra in cui
era nato, confondersi con i Babbani significava sopravvivere, svelare
la propria natura, al contrario, portava a morte certa. Mise i calzari
pesanti, si avvolse nel mantello di lana, sollevò il
cappuccio e annodò il bavero, per affrontare il rigore della
notte. Quando tornò dai suoi ospiti, vide con fastidio che,
viscido, Padraig sussurrava all'orecchio del vecchio: temendo un
inganno, decise di usare la Magia per raggiungere le scuderie. Il
Venerabile lo benedì, poi si trascinò alla
finestra a osservare le stelle, Daghall, impaziente, si diresse alla
porta. Lì Padraig lo raggiunse, lo afferrò per un
polso e lo bloccò, sussurrandogli all’orecchio.
*
Daghall raggiunse la scuderia Materializzandosi davanti al recinto, in
allerta. Trovò Heliantòs già sveglio,
sembrava sentire sempre in anticipo l’arrivo del suo
amico-padrone: l'uomo accarezzò la testa dell'animale e
affondò le dita nel suo folto piumaggio, ricevendo in cambio
un leggero colpetto del muso sulla spalla. Heliantòs non si
limitava a percepirne la presenza, lo sapeva, sentiva la sua
preoccupazione e sembrava volergli dire che poteva sempre contare sul
suo aiuto. Gli dei solo sapevano quanto ne avrebbe avuto bisogno quella
notte. Il Nero sistemò la sella e la bisaccia piena di
furetti cacciati per placare la fame e la furia
dell’Ippogrifo poi, dopo averlo tranquillizzato e nutrito, si
levarono finalmente in volo. Il silenzio e la solitudine avrebbero
acceso la mente di Daghall, il Mago sperava di riuscire a capire cosa
fosse meglio fare prima di raggiungere Am Monadh e trovarsi di fronte
la Strega, perché una volta sul posto sarebbe stato troppo
impegnato a salvarsi la pelle per definire un piano. Volò
veloce, incitando Heliantòs a dare tutto se stesso, come
aveva fatto anni prima, quando gli aveva chiesto di attraversare tutta
la Britannia: superarono montagne solitarie e foreste tenebrose,
nascosti nell’oscurità carica di una notte che
annunciava tempesta. Era appena in vista della meta, l’alto e
scabro massiccio di Am Monadh faceva intravedere il suo profilo nella
luce livida che anticipava l’aurora, quando Daghall
capì che i guai sarebbero iniziati ben prima di trovare
Sheira: una densa nuvola di fumo si levava alta sopra gli alberi,
dall'altro lato del massiccio, illuminando l'ultima oscurità
della notte di bagliori rossastri. Più si avvicinava,
più Daghall riconosceva nelle voci della foresta il racconto
di una notte di orrore, poi l'intenso e acre odore del fumo
rischiò di ottenebrargli i sensi. Il Nero odiava il fuoco,
tutti i suoi familiari lo odiavano, quasi a dare fondatezza
all’antica leggenda secondo la quale il nome della sua
“gens” derivava dalla tortura inflitta a tanti suoi
antenati, morti bruciati sulle pire. Giunto nelle Terre del Nord,
nell’apprendere il controllo dei quattro elementi naturali,
il fuoco era stato quello che aveva dato più problemi a
Daghall: alla fine, però, aveva superato le sue paure e le
sue difficoltà, era diventato un Mago del Nord e sul suo
petto ormai campeggiava imperiosa la Runa legata alla padronanza del
fuoco.
Il Mago eseguì un incantesimo con cui protesse se stesso e
Heliantòs dal calore e dal fumo, si avvicinò e
superò la cima della montagna, scivolò sull'altro
lato, scendendo in un ampio volteggiare sopra gli alberi fino a
raggiungere il letto di un fiume. Smontò nei pressi di una
radura protetta e lasciò l'Ippogrifo a cacciare
lì, si tolse il mantello, estrasse l’arco e la
faretra dalla sacca magica e se li sistemò sulle spalle.
Fissò la daga alla cintola e sguainò la bacchetta
poi, servendosi delle ultime indicazioni del Venerabile e di Padraig e
guidato dal medaglione ricevuto dal vecchio, un manufatto creato a
posta da Thon McCuilén per sentire la Magia di Sheira,
s’inoltrò guardingo nella boscaglia, fino ai resti
di un accampamento. Ovunque si voltasse, tutto raccontava lo scempio
messo in atto da uomini senza rispetto per la vita: un brivido percorse
la schiena di Daghall, quando comprese che l'orrore annunciato da Marte
era figlio di un’orda di Babbani armati. La mente del Mago
vacillò, rivide una scogliera a picco sul mare, le sue dita
sanguinanti, premute su pietre taglienti; il respiro di Daghall si fece
corto, sentiva il dolore, il proprio peso concentrato su quelle dita
piagate... mentre tutto intorno, proveniente dal passato, era un
sibilare di frecce che, rapide, passavano vicino al suo orecchio e
cadevano, rimbalzando sulla pietra.
Muoviti Laetitia! Muoviti...
Mamma... mamma…
Si riscosse. Le sue labbra erano ancora contorte nel nome di sua
sorella, mentre stava chino su un falò ormai spento, le mani
immerse nella cenere, gli occhi chiusi. Non aveva bisogno della Magia
per capire che quel fuoco era stato spento ormai da diverse ore, forse
tutto si era compiuto quando ancora dormiva a casa sua, ancora prima
che il Venerabile bussasse alla sua porta. Non sapeva cosa ne fosse di
Sheira e degli altri, ma la loro salvezza, ormai ne era consapevole,
non era mai dipesa dalla sua volontà e dalle sue azioni,
almeno non quelle che poteva compiere quella notte.
Dove sono? Dove hanno portato
Habarcat?
Daghall estrasse il medaglione, vide il suo luccichio debole accendersi
in direzione dei resti di una tenda, il Mago avanzò rapido
tra cenere e detriti, scansò a mani nude ciò che
restava di coperte e paglia bruciata, annusò la polvere, ma
non trovò nulla che potesse riferirsi alla Fiamma, neppure
la presenza di cadaveri di eventuali Babbani che avessero tentato,
incauti, di toccarla.
È stata qui… per
tanto tempo, è stata qui, ma è stata spostata, da
Sheira o dal bambino...
Cercò tracce a terra per capire in quale direzione andare e
notò un odore che lo lasciò interdetto:
nonostante tutto fosse ricoperto di cenere e intriso di fumo, l'odore
metallico, che sentiva attorno a sé, era chiaro segno della
presenza di sangue, tanto sangue, qualcuno in quella tenda era stato
ferito ma, non essendoci nessun corpo nei dintorni, doveva essere stato
spostato e, soprattutto, doveva aver lasciato tracce, che ora doveva
trovare e che poteva seguire. Incoraggiato da un primo segno, Daghall
puntò la bacchetta a terra e cercò e quando
infine le trovò, tanto sottili da essere quasi invisibili al
buio, ringraziò gli dei perché senza la sua
bacchetta, non ci sarebbe mai riuscito.
Un tuono squassò le tenebre e, pochi istanti dopo, violenta,
la pioggia si abbatté sulla foresta: Daghall ne era lieto,
perché avrebbe spento rapidamente gli ultimi focolai
d’incendio, d'altra parte, sarebbe stato più
difficile ritrovare le tracce da seguire, se l'acqua avesse sciolto il
sangue. Iniziò a camminare lentamente, intento ad ascoltare
ogni suono attorno a sé, vigile contro eventuali minacce
nascoste e attento a non scivolare sul terreno che diventava fango,
tutto proteso a cercare le ultime stille rubino sulle foglie, inzuppato
come se fosse caduto nel fiume. All’improvviso, dal fogliame,
vide emergere un piede: si acquattò, in allerta,
scivolò tra i cespugli, scostò delicatamente le
foglie per vedere chi avesse di fronte e subito sentì la
cena e il vino della sera precedente forzargli lo stomaco, imperiose,
tanto da costringerlo a rigettare. Si portò la mano al naso
per non sentire più il fetore e non rigettare ancora: lo
spettacolo, o meglio lo scempio, che aveva di fronte era
così improvviso, orribile e devastante che si
sentì smarrito come quando, a otto anni, aveva visto il
primo morto ammazzato della sua vita; solo in seguito, corpi a pezzi e
orrendamente mutilati erano diventati la norma, per lui, e per cinque
lunghi anni non aveva visto altro. In quel momento, sconvolto dalla
debolezza che l’aveva travolto, si rese conto di aver vissuto
per dieci anni in una bolla ovattata, la vita comoda delle Terre
l'aveva cambiato e rammollito. Smise di filosofeggiare e
studiò il corpo: era un Babbano, un fante privo di armature
difensive, non era morto per una ferita da battaglia, ma dissanguato
per uno squarcio alla gola, forse il morso di un lupo; del suo
equipaggiamento restava solo una faretra: Daghall si chinò e
si rifornì di frecce. Il Mago procedette, la bacchetta nella
destra e gli occhi fissi sul medaglione, il cui luccichio era sempre
più flebile. Camminò a lungo, ovunque vide i
segni del passaggio degli uomini armati, ovunque la pioggia spegneva
gli ultimi roghi: la foresta soffriva per l'inferno di fuoco, da ogni
parte emergevano cadaveri di soldati mutilati, per lo più
attaccati al ventre e al collo. Nella foresta, per qualche motivo
incomprensibile, i lupi avevano fatto strage di uomini. Daghall,
però, pensò seriamente a un intervento della
Magia solo quando vide un uomo orribilmente sfigurato e mutilato dai
numerosi morsi di serpente, che si erano accaniti selvaggiamente su
tutto il suo corpo (9).
I serpenti veri, che io sappia,
dormono, di notte…
Pronunciò un incantesimo di Disillusione, per sicurezza, e
riprese a camminare sotto la pioggia.
*
Quando l’aveva vista, tra le foglie cadute, per alcuni
istanti il Mago si era illuso che la Strega fosse addormentata, tanta
era la pace che irradiava dal suo volto. Non l’aveva mai
vista prima, Daghall era solo un bambino di sette anni, che giocava
sicuro e felice nel palazzo di suo padre, a Zennor, quando Sheira nic
a'Thon era fuggita dal villaggio e dal suo destino, per inseguire la
vita e l’amore, durante la festa di Samhain. In quei dieci
anni, da quando era giunto nelle Terre, Daghall aveva immaginato in
mille modi diversi il loro primo incontro: benché tutti
parlassero male di lei, infatti, il Mago desiderava incontrarla, per
dividere con la Sacerdotessa il proprio antico sapere.
Invece il nostro primo e unico incontro
è stato questo…
Il Mago stava lì, sotto la pioggia, accosciato davanti al
suo corpo, la osservava non sapeva neppure più da quanti
minuti, attratto da quel bagliore luminoso che era ancora imprigionato
nei suoi occhi. Non sapeva cosa fare: forse il vecchio avrebbe voluto
darle una sepoltura degna del suo rango, al villaggio, ma sarebbe
successo il finimondo, se l’avesse riportata indietro con
sé.
Alcuni, i soliti, arriverebbero persino
a pensare e a dire che sono stato io a ridurti
così...
Daghall si sollevò, affondò le mani tra i capelli
zuppi di pioggia e senza volerlo s’impiastrò la
faccia di sangue. Tremò, ricordando il momento in cui aveva
allungato la mano, per toccarla… Chiuse gli occhi,
deglutì con difficoltà, cercando di soffocare e
controllare l’odio che sentiva montargli dentro. Aveva capito
subito che non avrebbe trovato sulla Strega ferite visibili, tutta la
parte inferiore delle sue vesti era impregnata di sangue e Daghall
aveva imparato fin troppo bene, da bambino, negli anni della guerra, il
significato di “quel” sangue, aveva visto
un'infinità di donne morire in quel modo, uccise dalla
peggiore e più umiliante delle violenze. Sentì
l'odio librarsi in lui, un odio antico, un odio che non aveva mai
smesso di provare, si voltò contro il bastardo che
l’aveva uccisa, il suo corpo decapitato (10) giaceva a pochi
passi da lei. Daghall estrasse la bacchetta e con le lacrime agli occhi
ruggì l’incantesimo con cui diede alle fiamme quel
mostro: lo vide bruciare, lo vide scomporsi, ma la rabbia e il dolore,
dentro di lui, non si placavano ancora.
Non si placheranno mai… non
mi placherò mai…
Si voltò, non voleva vedere, respirò
profondamente, cercò di contenere la rabbia e dare un senso
al dolore. Fece un incantesimo alla terra, perché una
porzione si asciugasse, estrasse il mantello dalla sacca magica e lo
stese, si avvicinò alla Strega, la sollevò,
asciugò il suo corpo e i suoi capelli con la Magia,
trasfigurò le sue vesti lacere e sporche in una toga simile
a quella che indossava sua madre, l’ultima volta che
l’aveva vista, annodò i suoi capelli nella stessa
foggia. Infine, sconvolto al pensiero di non essere riuscito a fare
tutto questo per la donna che l’aveva messo al mondo, la
avvolse nel mantello. Si guardò intorno, vide una robusta
quercia adatta ai suoi scopi, appoggiò le mani sul tronco,
pronunciò un’antica Magia delle sue terre,
preoccupato che lì gli alberi non l’avrebbero
ascoltato, se avesse parlato in lingua cornica. Con stupore, invece,
vide le radici della quercia sollevarsi fino a creare un varco
sufficiente a ospitare il corpo della donna.
La lingua è diversa, ma siamo
e restiamo Daur, figli delle querce…
«Torna agli alberi che ti
hanno creato, mia Signora; Madre Terra ti sia lieve e ti
protegga… »
Con sorpresa, dopo aver deposto in quel luogo sicuro la Strega, le
radici della quercia non tornarono ad affondare nel terreno. Nervoso,
Daghall pensò a come trasportare in breve tempo terra
sufficiente a sotterrarla, poi ricordò di aver
già visto una quercia comportarsi così e,
soprattutto, ne rammentò il motivo. Rapido, con la bacchetta
in mano, iniziò a frugare tra i cespugli, invano, sempre
più fradicio di pioggia, andò avanti in una
porzione via via più ampia di terreno, trovando sempre
più corpi di Babbani straziati, ma non quello che stava
cercando. Daghall tornò sui suoi passi, fino
all’uomo ucciso dai serpenti e lì, a poca
distanza, trovò il corpo di Cormacc MacArtgal: dovette
chinarsi a voltargli il capo, mettendo allo scoperto la Runa del collo,
per riconoscerlo, perché il corpo del Mago era stato
trafitto e colpito così tante volte che sul suo petto era
ormai scomparsa ogni traccia della imperiosa Runa che doveva
campeggiarvi.
Per fortuna ti ho trovato…
ora ti deporrò accanto a lei, altrimenti senza la tua Runa e
senza la tua donna a indicarti la strada, avresti vagato
nell’oblio oscuro per tutta
l’eternità…
Lo sollevò con difficoltà e lo portò
alla quercia, non aveva un altro mantello con sé, con cui
avvolgerne il corpo, riuscì, però, a
trasfigurargli il poco che indossava e a creare un telo con le foglie
di quercia, lo depose accanto alla sposa e, finalmente, le radici
s’immersero nel terreno, celando e proteggendo i due sposi
per sempre. Daghall sospirò, stanco ma soddisfatto e
sollevato.
Ciò significa che non
è questo il posto per il resto della famiglia… i
ragazzi sono vivi…
Doveva essere accaduto di tutto, quella notte: l'uomo forse era rimasto
indietro a coprire la fuga della sua famiglia, ma la Strega era stata
catturata e aggredita e quando il Mago se ne era accorto, aveva
decapitato il Babbano, senza avere però il tempo di
salvarla, né di salvare se stesso. La sua furia e il suo
dolore bastavano a spiegare i serpenti svegli nella notte e la ferocia
dei lupi. In tutto questo, i due ragazzi ce l’avevano fatta e
ora, in fuga, erano nascosti con Habarcat, nella foresta.
Vi troverò...
tornerò indietro e sorvolerò la foresta. Col
medaglione, riuscirò a trovarvi! DEVO!
*
«Qualsiasi cosa accada, non
farti sottrarre la Fiamma e il moccioso! Hai capito?»
«Mi credete un idiota,
Padraig? Vado per questo! Porterò altri Ippogrifi per la
famiglia... »
«No... gli altri non
verranno!»
«Cosa diavolo state
architettando? Avete sentito, l’ho appena giurato al
vecchio!»
«Il Consiglio non vuole che
Sheira e Cormacc ritornino: hanno tradito, devono pagare. Per rispetto
verso Thon, nessuno ha mai tradotto le parole in atti; ora,
però, il Destino ha deciso che Sheira muoia: accettiamo la
sua volontà e otterremo giustizia, senza neanche sporcarci
le mani!»
«E il ragazzo? Quello che
dovremmo portare qui tra un mese? Quali colpe dovrebbe scontare
quell'innocente, di grazia?»
«Un solo ramo, ricordi? Un
solo ramo! Il loro Destino è sempre stato quello…
»
«NO! Voi lo vorreste morto per
opporvi a ciò che le Profezie dicono di lui… Due
figli: uno sarà Custode della Fiamma, l’altro il
più grande Mago di tutti i tempi… Non lo
farò, non m’interessa la volontà del
Consiglio, non agirò contro il vecchio! Sapete cosa penso,
Padraig? Che sia la vostra brillante idea, la sciagura su cui ci mette
in guardia Marte: non c’è nessun pericolo da cui
salvarli, nella foresta, sono io che, andando a prendere solo il
bambino e Habarcat potrei scatenare la furia di Sheira, del marito e di
suo figlio contro tutti noi! Io non provocherò la vostra
guerra!»
«Vedo che inizi a capire per
quale motivo tutti gli altri devono per forza morire… Senza
la morte di sua madre, il figlio non può diventare il nuovo
Custode, non prima dei 16 anni!»
«Io non intendo essere la mano
del “Vostro Destino”, Padraig…»
*
Daghall si sentiva svuotato: la ricerca non stava portando a niente, i
ragazzi sembravano spariti, Habarcat non dava segni della propria
presenza. La realtà che si era trovato di fronte
raggiungendo la radura era ben diversa dalle idee che aveva
all’inizio, aveva creduto sinceramente che il problema fosse
solo la follia di Padraig, che sarebbe bastato parlare con la Strega
del desiderio del Vecchio di conoscere il nipote, per disinnescare la
tensione, aveva sperato in cuor suo, nonostante le parole del Saggio
Padraig, di poter mantenere il giuramento fatto al vecchio, riportando
indietro Sheira e la sua famiglia. Invece… Non riusciva a
sopportare l’idea che la Strega fosse morta, non voleva dire
al vecchio che non era riuscito a mantenere la promessa.
Un’altra promessa
mancata…
Il Mago stava tornando indietro, rapido, verso la radura, deciso a
controllare la foresta dall’alto in sella a
Heliantòs, quando un grido gli fece accapponare la pelle,
immobilizzandolo dove si trovava. Era ormai a metà del
sentiero, in discesa, diretto verso il fiume: si gettò a
terra, nascondendosi tra i cespugli, mentre il terreno vibrava e
l’urlo che aveva travolto il bosco silenzioso si ripeteva, si
moltiplicava, avvicinandosi, in una cacofonia caotica che sembrava
sempre più terrificante.
Centauri arrabbiati… e visto
che cosa è avvenuto qui stanotte, non hanno tutti i
torti…
Il Mago pronunciò di nuovo l’incantesimo di
Disillusione e avanzò in direzione delle urla, lo scalpiccio
era passato a poca distanza da dove si trovava e pareva diretto verso
il fiume: doveva trattarsi di almeno una dozzina di esemplari e il
baccano che avevano prodotto era stato tale che Daghall non aveva
capito nulla di cosa si stessero urlando. Protetto
dall’incantesimo, rassicurato dalle vibrazioni e dai suoni
che non ci fossero altri Centauri sulla scia dei primi,
seguì le tracce lasciate, lanciandosi
all’inseguimento, la mano sinistra intorno alla bacchetta e
la destra pronta sul pomolo della daga. Improvvise le urla ripresero,
sembrava che si fossero fermati, il Mago pronunciò un
incantesimo silenzioso, per attutire il suono dei suoi passi nella
boscaglia. Fu rapido, troppo: quando, di corsa, lasciò il
sentiero tracciato per immergersi nella boscaglia più fitta
e il bosco si aprì all’improvviso sullo strapiombo
sotto di lui, riuscì a non precipitare di sotto solo per
miracolo. Trattenne un urlo di terrore quando i piedi slittarono sul
terreno viscido, trascinandolo a terra. Veloce, con la forza della
disperazione, aveva intrecciato la bacchetta a un groviglio di
rampicanti ma con la coda dell’occhio aveva visto le sottili
radici sfilarsi dal terreno velocemente, una dopo l’altra.
Allora, mentre ondeggiava pericolosamente nel vuoto con le gambe e
buona parte del busto, sguainò la daga e con tutta la forza
e il fiato che gli restavano scattò e fece ruotare il
braccio, conficcando profondamente la lama nel terreno. Servendosi
della Magia, cercò di aumentare il più possibile
la resistenza e la compattezza del terreno, così che la daga
non si sfilasse, e facendosi forza sulle braccia e sforzando il fiato
fin quasi a sputare i polmoni, riuscì a tirarsi su, al
sicuro. Restò bocconi a terra, per secondi interminabili,
cercando di riprendere fiato, il cuore che pompava così
veloce da fargli temere che stesse per scoppiargli.
Maledetta pioggia!
Fradicio e infreddolito, inzaccherato di fango, esausto, Daghall si
mosse tra gli alberi fino a portarsi a breve distanza dalle voci, si
addossò di schiena contro una quercia, il fiato ancora
corto, appoggiò la testa, non riusciva a vederli ma ora
poteva ascoltare i loro discorsi. Cercò di regolarizzare il
respiro e pregò tra sé che tutto questo non fosse
solo una perdita di tempo.
«Maledetti…
sudicie, immonde bestie! L’avete fatto scappare! È
tutta colpa vostra!»
Daghall scattò subito, attento, riconoscendo una voce umana
tra le grida bellicose degli ibridi.
«Silenzio! La tua razza ha
causato gli orrori di questa notte… Avevate preso un
impegno!»
«Stupidi, stupidi mostri,
lasciatemi! Devo ucciderli! Lasciatemi andare,
immediatamente!»
«Per averci tradito, noi ti
condanniamo, figlio di Daur, a… »
«Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh»
La freccia attraversò rapida l’aria e
andò a conficcarsi nel quarto posteriore del Centauro
più arretrato: il cerchio degli ibridi vibrò e si
frammentò, sorpresi i Centauri si voltarono, si guardarono
intorno senza capire, finché Daghall uscì dalla
boscaglia, l’arco teso nelle mani, la seconda freccia
già incoccata, pronta per un nuovo lancio, avanzando sicuro
e minaccioso.
«Lasciatelo andare!
Adesso!»
Quattro Centauri si staccarono dal gruppo, andandogli contro, altri due
soccorsero il compagno ferito: Daghall scoccò la seconda
freccia che colpì uno dei quattro assalitori alla zampa
anteriore destra, scoccò altri due dardi di avvertimento
prima di lasciare l’arco ed estrarre la daga, tenendo intanto
la bacchetta nella mano destra e lanciando incantesimi a terra per far
arretrare gli ibridi.
«Fermatevi! Adesso! Lasciate
il ragazzo a me! Ora! Fermatevi vi ho detto!»
Non ottenne risultato: il suo sguardo spaziò nella luce
livida del mattino e vide il figlio maggiore di Sheira vicinissimo al
baratro, era ferito, aveva una freccia ancora piantata sul braccio
destro e la lunga catena di una mazza chiodata dei Babbani gli teneva
strette le mani dietro la schiena, il volto era pieno di lividi e
graffi, sanguinava copiosamente da uno zigomo. Nonostante tutto questo,
lottava come una tigre per liberarsi dalla presa del suo carceriere al
punto che, approfittando della confusione creata da Daghall, con uno
strattone, riuscì a liberarsi e a scappare tra gli alberi.
«Prendetelo!»
«Lasciatelo andare!»
I tre Centauri rimasti furono addosso a Daghall,
s’impennarono e cercarono di caricarlo con gli zoccoli da tre
diverse angolazioni, il Mago lanciò un incantesimo che
mirava a sbilanciarli, uno dei tre cadde all’indietro,
Daghall colpì ancora e l’ibrido si
ritrovò con una zampa rotta, annaspava disperatamente,
cercando, invano, di rimettersi in piedi. Il Mago sentì un
sibilo, si acquattò all’ultimo istante, in tempo
per non farsi centrare alla tempia: con la coda dell’occhio
vide avvicinarsi da sinistra un’altra decina di Centauri,
pronti, con archi e frecce, alcuni avevano anche delle spade strappate
ai Babbani, li vide caricare e slanciarglisi addosso. Daghall
puntò la bacchetta davanti a sé, i Centauri si
disposero in un ampio cerchio per aumentare la superficie che avrebbe
dovuto colpire, il Mago, però, a sorpresa, levò
la mano a destra e il Centauro che gli era più vicino si
ritrovò a scalciare a terra, avvinghiato da rampicanti che
gli serrarono con forza le braccia e le zampe. Apertosi un varco con
l’astuzia, Daghall corse in quella direzione, non solo per
fuggire ma anche per vedere cosa ne fosse del figlio della Strega.
Dietro di lui, sentì gli zoccoli scalpicciare
all’inseguimento: Daghall iniziava a essere stanco della loro
ostinazione, non aveva intenzione di battersi e non poteva perdere
altro tempo con loro. Levò la bacchetta, a destra e a
sinistra, e una ventina di rami si staccò dagli alberi e
crollò a terra, creando una barriera di legna alle sue
spalle, non prima di aver colpito e tramortito un buon numero di
Centauri. Daghall continuò a correre, lasciando dietro di
sé la boscaglia scossa dalle urla degli ibridi feriti. Era
riuscito a rallentare il grosso degli inseguitori e aumentato il
vantaggio, ma altri Centauri, che prima inseguivano solo il ragazzo,
ora si erano messi sulla sua scia.
Questo significa che, per lo meno, sto
andando ancora nella direzione giusta…
Fece altre due volte lo scherzo dei rami, ma gli ibridi non erano
più impreparati, ora si muovevano zigzagando e non erano
più ammassati ma disposti ad ampio raggio dietro di lui,
sempre più vicini, rassicurati anche dal fatto che i suoi
attacchi mirassero a rallentarli ma non a ucciderli.
Voi invece sareste pronti a gettarmi di
sotto, se riusciste a mettermi le mani addosso…
Sentì altre urla, davanti a sé, cercò
di fare più in fretta, il ragazzo era stato raggiunto:
legato, privo di forze, ferito, forse il figlio di Sheira non riusciva
a concentrarsi abbastanza da evocare la sua Magia e difendersi. Non
poteva lasciare che lo prendessero e gli facessero del male, era
ciò che restava della famiglia del Venerabile,
l’unico che forse sapesse qualcosa su Habarcat e il bambino.
Daghall prese la sua decisione, sospirò profondamente,
abbassò gli occhi a terra, poi si fermò, si
voltò e si limitò ad alzare la mano, mentre la
sua bocca si contorceva in un ghigno strano e la sua lingua recitava un
incantesimo oscuro: i Centauri che lo inseguivano crollarono a terra,
le loro zampe sembravano non contenere più ossa in grado di
sorreggere il loro peso. Uno di loro, annaspando, nonostante tutto
riuscì a tendere l’arco e incoccare la freccia,
tirò e per poco non prese in pieno il Mago, ferendolo di
striscio al collo: Daghall li credeva ormai incapaci di reagire, invece
sentì il sangue fluirgli caldo sul collo e la vista
annebbiarsi, sollevò la mano e la portò poco
sotto la Runa, incredulo la ritirò intrisa di sangue. Il
Mago alzò di nuovo la mano e i Centauri stavolta persero
anche il controllo delle proprie braccia. Poi si avvicinò
all’ibrido che l’aveva ferito, quello
iniziò ad agitarsi, minacciandolo, ma Daghall rimase
impassibile, lo prese per i capelli con la sinistra e lo
sollevò un poco, esponendo per bene il collo, quindi gli
fece scivolare lentamente la lama da sinistra a destra sulla gola, in
profondità, inzuppandosi da capo a piedi del sangue della
bestia, fino a rimanere con la sua testa in mano, sotto gli occhi
terrorizzati degli altri Centauri, increduli davanti a quella morte
improvvisa e insensata.
«Al tramonto avrebbe
recuperato l’uso dei propri arti, come tutti voi…
Siete stai voi, è stato lui, a costringermi... »
Si voltò, riprese a correre, voleva raggiungere il ragazzo e
salvarlo: dietro di lui, la foresta si riempì dei pianti e
delle maledizioni dei Centauri. Piangevano Magorian, primogenito di
Banrigh.
*
«… Non intendo essere la mano del
“vostro Destino”, Padraig… Ho fatto un
giuramento! Qualsiasi cosa vada contro la volontà del
Venerabile… è un vile tradimento!»
«Tradimento… se non erro, è usanza
della tua gente, dico bene? Per questo sei orfano... perché
da voi i fratelli tradiscono i fratelli, i figli i padri... Se stessi
ordendo un complotto, pensi che potrei affidarmi a un uomo come te, che
ha il tradimento nel sangue, Daghall? Non sono così sciocco:
ti farei controllare dai miei uomini o ti farei tagliare la gola nel
sonno. Invece, poiché ho a cuore la Confraternita e la buona
riuscita della missione, intendo aiutarti… iniziando col
ridarti questa… »
Padraig aveva scostato
un lembo del mantello e dall'ampia tunica aveva estratto una bacchetta
di ebano. Il Nero aveva sentito il proprio respiro sospendersi, il
cuore accelerare, la testa turbinare, aveva fissato con desiderio la
superficie lucida del bastoncino: dopo dieci anni rivedeva la bacchetta
che gli aveva donato suo padre al compimento degli undici anni, unico
ricordo della sua infanzia, oltre a Heliantòs, con cui era
fuggito dal suo Kernow. Aveva sentito risuonare nelle orecchie la voce
di Attius, mentre lo spingeva sull'Ippogrifo e gli stringeva la
bacchetta tra le dita.
“Mai, per nessun motivo, dovrai permettere a qualcuno di
privarti della tua bacchetta!”
“Farò ogni cosa in mio potere, per difendere la
bacchetta di mio padre, Attius, lo giuro!”
Daghall credeva di
averla persa in volo, di non aver saputo mantenere neppure quella,
insieme a tante altre promesse fatte a suo padre. Aveva pianto tutte le
sue lacrime, per quella bacchetta, perderla era stato rivivere lo
strazio del suo popolo. Il senso di colpa gli aveva tolto il sonno e
gli incubi l'avevano perseguitato. Tutto questo era durato anni. E
Padraig… Padraig sapeva tutto... era responsabile di
tutto...
«Maledetto, sporco ladro! Come hai potuto…
come… »
«Ho viaggiato, straniero, so quanto valore hanno questi
stupidi pezzi di legno per quelli come te. Io ti renderò la
Bacchetta e tu farai quello che ti ho chiesto, così la voce
di tuo padre smetterà di tormentarti, accusandoti di aver
dimenticato chi sei e il suo nome… »
«Voi siete un pazzo, Padraig… Io non sono in
vendita!»
«Molto bene... chiederò a qualcun altro di
aiutarmi, allora… Se è questo ciò che
vuoi... »
Padraig aveva preso la
bacchetta con entrambe le mani, aveva premuto i pollici al centro,
Daghall l’aveva vista incurvarsi sempre più,
pericolosamente: non poteva pensare, figurarsi vedere l'unica
eredità di suo padre ridotta in pezzi, sarebbe stato peggio
di una pugnalata al cuore. Così, quando non aveva ancora
deciso come comportarsi, aveva sentito la propria voce supplicare
“Non fatelo!” e la sua mano era corsa a strappare
il legno dalle mani del Saggio: il bastardo l’aveva deriso,
vittorioso, certo di averlo piegato. Daghall aveva guardato l'ebano
lucido tra le sue dita: la bacchetta, nelle sue mani di adulto, non
sembrava più tanto grande e imperiosa. Non sembrava
più nemmeno la stessa. Era lei, però. Era lei:
gli fu sufficiente stringerla nel pugno, per sentire la forza che
ricordava, quell'unione perfetta e unica che lega un Mago al legno che
l'ha scelto.
«Sapevo che avresti fatto la cosa giusta… tutti
hanno un prezzo e tu non sei diverso dagli altri. Prenderai il bambino,
gli farai portar via la Fiamma e sistemerai tutto, come va fatto!
Portamelo alla spiaggia, ti aspetterò fino al tramonto. Non
qui, hai capito? Alla spiaggia… E se stessi pensando di fare
il furbo, straniero, se pensassi di svignartela… ricorda che
mi occupo io del Venerabile e che a un uomo di
quell’età, così debole e anziano,
può facilmente capitare di tutto…»
Daghall aveva stretto
forte la bacchetta, la rabbia stava montando in lui con violenza;
presto gli sarebbe saltato alla gola, senza curarsi più
delle conseguenze delle proprie azioni. Si conosceva.
«Anche a te può capitare qualcosa di grave,
Padraig, di molto grave. Lo sai, vero?»
«Lo so. È per questo che ringrazio gli dei di
dover provvedere solo a me stesso, al contrario di…
altri… Conosco i tuoi segreti e le tue debolezze, figlio di
Zennor… sai… Padraig di Árd Macha non
taglia mai la gola a un uomo se… può tenerlo
saldamente per le palle… Ahahahah… »
***
«È ancora molto
lontano?»
«No, mio signore, siamo quasi
arrivati… ora scenderemo questo scoglio a forma di cresta e
saremo a destinazione… »
Avevano superato il varco nella roccia almeno un paio di ore prima e
continuavano a camminare, in un saliscendi di scogli più o
meno scivolosi e ampi tratti di spiaggia. A un certo punto, Daghall era
persino entrato in una specie di grotta semi sommersa e ne era uscito
con una macilenta barchetta, l’aveva aiutato a salire e aveva
vogato per un tempo infinito. Cuilén era stato buono e
tranquillo a osservarlo, ad ammirare i pesci che nuotavano vicino alla
superficie, e soprattutto lo scenario che aveva di fronte, irte
scogliere che si tuffavano in mare e ampie spiagge più o
meno sabbiose e ricche d’insenature e grotte. Quando Daghall
aveva portato a terra la barca, aveva puntato la bacchetta e quella era
scomparsa, poi si erano incamminati, stavolta raggiungendo la boscaglia
e percorrendo un ampio tratto nella frescura prima di ridiscendere
lungo la scogliera.
«Non potevamo volare fin qua,
con Heliantòs?»
«Ci sono le vedette e gli
incantesimi, sulle alture. Non volevo che ci vedessero
arrivare… »
«Perché? E chi
è che vuole conoscermi?»
«Tutti vi vogliono conoscere,
mio signore… qualcuno ha più fretta di
altri… »
Cuilén lo guardò senza capire e
continuò a camminare, sbuffando per il male a un piede.
«Voglio la mia
mamma… »
«Lo so… tra poco
arriveremo… Ascoltatemi, mio signore… mi
raccomando ancora una volta… vi ho detto cosa vorrei che
faceste quando saremo arrivati: è importante…
»
«Non devo parlare…
devo far finta di avere sonno… tanto sonno…
»
«Esatto… non dite
di Heliantòs, dei giochi con l’acqua e della
piccola spiaggetta… »
«Va bene… ma
perché?»
«Perché…
quello è un posto segreto, mio signore… un
segreto tra voi e me… se mi promettete di non dire nulla, io
vi porterò ancora laggiù, ogni volta che lo
vorrete… vi farò volare sul mare, in groppa a
Heliantòs e v’insegnerò tutto
ciò che vorrete… tutto… »
«Allora… io non
dico niente, così poi torniamo… domani! E
portiamo anche Dòmnhall!»
Daghall abbassò gli occhi e bofonchiò piano.
« Forse già domani,
sì... »
Il bambino si lanciò contro le gambe del Mago, felice, poi
tranquillo e speranzoso, gli diede la mano e scese ancora con lui tra
gli scogli, fino a raggiungere un ultimo masso dietro al quale si
apriva una profonda insenatura: lì la spiaggia era grande e
sabbiosa, si estendeva a perdita d’occhio, per un ampio
tratto pianeggiante, circondata dalla boscaglia. Cuilén
pensò che lì sarebbe stato bellissimo costruire i
castelli con Dòmnhall, quando aveva tempo, suo fratello
riusciva a costruire con la poca sabbia del fiume delle forme
bellissime, se avesse avuto in mano quella sabbia così
fine…
«Bentornato,
Daghall… Ti aspettavo, impaziente... »
Il bambino si schermò gli occhi, il sole era quasi
all’altezza della sua faccia, ormai, e non riusciva a vedere
bene di chi fosse la voce che aveva chiamato il suo
“salvatore”; nel punto estremo della spiaggia, a
ridosso della scogliera e degli alberi, c’era una specie di
catapecchia fatta di tronchi d'albero trascinati a riva dal mare e
cortecce intrecciate. In piedi, accanto all’uscio, simile a
un tronco pallido, c’era un uomo, avvolto in un mantello
scuro, il cappuccio tirato su, a celare in buona parte la faccia.
Seduta a terra, una donna sdentata, dai capelli gialli e scarmigliati e
gli occhi vacui, tipici dell'età avanzata, stava rimestando
qualcosa dal fetido odore dentro un calderone.
«Molto bene,
Daghall… ora avvicinatevi… e digli di
consegnarmi la Fiamma… »
*continua*
NdA:
1) Kernow: è l'antico nome cornico del Cornwall, o
Cornovaglia se preferite. Tutti i nomi cercano di rispettare le
provenienze geografiche, così ci sono nomi Irlandesi per i
personaggi irlandesi, scozzesi per gli scozzesi e cornici per quelli
della Cornovaglia. Più avanti vedrete dei nomi di origine
"latina": ho immaginato che, anche nelle famiglie nobili magiche, non
solo in quelle Babbane, nel pieno Medioevo, ci fosse ancora l'usanza di
dare ai figli i nomi dei propri antenati.
2) Árd Macha: è il nome gaelico di Armagh, una
cittadina dell'Irlanda del Nord, nota agli amanti di Merlin come
città natale di Colin Morgan, interprete del giovane Mago...
3-4-5) Pietre Veggenti, Sorgente e "unico ramo" sono tre richiami alla
storia madre, That Love: le Pietre Veggenti sono citate
spesso da Alshain Sherton come strumento di cui la sua famiglia si
è servita e si serve per interpretare i segni e potenziare
le abilità divinatorie in quei componenti della famiglia che
son portati per la Divinazione, già ai tempi di Salazar, gli
antenati degli Sherton possedevano questo strumento; la Sorgente
è, come dice il nome, una fonte di acqua: la prima volta
appare in un sogno di Alshain e sappiamo che le sue acque sono
considerate "sacre" dalla Confraternita. Infine qui abbiamo il primo
cenno della condanna "dell'unico ramo": la famiglia Sherton
è sempre riuscita a salvarsi, nel corso della storia,
generazione dopo generazione, dinanzi a ogni tipo di
avversità, ma il prezzo da pagare è sempre stato
una profonda "solitudine", non sono mai stati una famiglia numerosa e a
ogni generazione, a portare avanti il nome e il sangue, è
rimasto sempre e soltanto un unico figlio.
6-7-8) Sheira e Cormacc, Eoghan, Lugh: La storia di Sheira e Cormacc e
altre info su personaggi e vicende si trova in
questo capitolo.
9-10) L'uomo decapitato è Áed, signore di Glower,
e l'uomo attaccato dai serpenti il suo scudiero Kenneth.
Ringrazio tutti per letture e commenti. A presto.
Valeria
Scheda
Immagine
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