Autumn song - 1
Chi l’avrebbe mai detto, ho scritto un’altra ff sui Tokio
Hotel ed è la numero 4! Beh, si vede che i nostri ragazzetti
m’ispirano proprio! Niente da dire, sono assolutamente perfetti
come personaggi da ff e – lo ammetto – stimolano
tremendamente la mia fantasia!
Questa storia non so bene, ancora, quanto sarà lunga, anche se
ho abbastanza chiaro il contenuto. È che ultimamente scrivo
molto piano, quindi non vi assicuro nulla sui tempi di aggiornamento.
Non voglio deludere nessuno, meglio mettere le mani avanti.
La fanfiction è scritta con il massimo rispetto per i Tokio
Hotel, per gli altri personaggi reali citati, il loro lavoro e la loro
vita privata. Quanto scritto è una storia di pura fantasia, i
fatti narrati non vogliono dare rappresentazione della realtà.
Non ha alcun scopo di lucro.
I Tokio Hotel non mi appartengono (ma guai a chi mi tocca i’
mi’ bambini!), così come gli altri personaggi reali e le
canzoni che eventualmente userò.
La canzone che da il titolo alla storia e che è anche citata
(tradotta) nell’intro è, per l’appunto,
“Autumn Song” dei Manic Street Preachers. No scopo di
lucro. Ascoltatela, è stupenda.
Adesso godetevi la lettura e mi raccomando commentate, ci tengo al vostro parere!
Un bacione!
Sara
1. Incidente in un giorno d’autunno
Bill Kaulitz era un ragazzo fortunato. Aveva talento, bellezza,
popolarità. Collezionava dischi d’oro, esibizioni davanti
a folle oceaniche e l’adorazione di fan in delirio. Ma quel
giorno la vita sembrava girare per il verso sbagliato. E ancora non
aveva idea di quanto.
Si era dovuto alzare presto, cosa che odiava. Aveva litigato con suo
fratello ancora prima del primo caffè. Era talmente nervoso,
poi, che si era dovuto rifare il trucco due volte, dato che gli
venivano le righe storte. E poi gli giravano perché doveva fare
un’intervista alla radio, da solo. Era vero, nelle interviste
parlava quasi sempre lui, ma gli dava una certa sicurezza essere
circondato dai suoi compagni; così, invece, si sentiva un
po’ sperduto. Tom questo non lo capiva, diceva che era da scemi e
per quello avevano litigato. In più, cazzo, davanti alla sede
della radio c’era già un nutrito gruppo di ragazzine
urlanti, le cui acute voci andavano a scontrarsi con il suo mal di
testa. E faceva anche brutto tempo: cielo grigio plumbeo e
pioggerellina fine e odiosa.
Bill, quando la macchina passò tra le due ali di fan, si
calcò meglio il cappellino nero di lana sulla testa e
infilò un paio di giganteschi occhialoni di Chanel, sprofondando
con uno sbuffo ancora di più nel sedile di pelle. Non aveva
proprio voglia di vendersi quel giorno.
L’intervista andò come previsto, alla fine prostituirsi
non era poi così difficile: bastava ammiccare un po’,
ridere a sproposito, svicolare ad arte le domande inutili sulla vita
privata e sproloquiare sul nuovo disco in preparazione. Lezioncina
conosciuta a memoria, ormai.
Il mal di testa di Bill, nel frattempo, si era però
quadruplicato, nonostante l’aspirina che gli avevano procurato. E
cominciava anche a ballargli pericolosamente l’occhio destro.
C’era, ad ogni modo, una cosa che non voleva assolutamente fare,
quel giorno: sorridere per forza, essere strattonato e ascoltare urla e
pianti delle sue fan.
“Saki.” Chiamò il cantante, mentre scendevano
l’ultima rampa di scale; il body guard si voltò.
“Non c’è un’altra uscita? Oggi non ho voglia
di firmare autografi…”
L’uomo si rivolse ad un impiegato della radio, che li
accompagnava, con espressione interrogativa; il ragazzo si girò
verso Bill.
“Beh, c’è un’uscita posteriore, ma… la
devo avvertire, Herr Kaulitz, c’è un po’ di gente
pure lì…” Gli disse titubante.
“Merda!” Imprecò scocciato lui, braccia conserte.
“Ma queste maledette stronze non hanno proprio un cazzo da
fare?” Commentò poi stizzito. “Va bene, passiamo da
dietro, saranno sempre meno che qui…” Fece poi, incitando
l’impiegato a fare strada. “Saki avverti Hans.”
L’uscita posteriore della radio dava su un vicoletto dove non
poteva passare una macchina e poi su una strada laterale, dove
già li aspettava la loro auto. Lì, però,
c’era anche un gruppetto di ragazze, circa una dozzina, che
appena li videro uscire cominciarono a gridare a squarcia gola.
“Così attireranno le altre…” Commentò Saki. Bill lo guardò allarmato.
“Fammi solo salire in macchina!” Gli ordinò poi;
l’uomo annuì, lo prese per le spalle e lo spinse avanti.
Le ragazze gli si fecero incontro appena loro uscirono dal vicolo, ma,
grazie all’aiuto di un paio d’impiegati della radio, furono
tenute abbastanza lontane da Bill, il quale stava sotto il braccio di
Saki, silenzioso e imbronciato. E con gli occhiali ben calcati in
faccia.
“Via, via, oggi niente autografi, ragazze!” Gridava nel
frattempo l’uomo. “Bill non può fermarsi, niente
foto, per favore!”
Lo sportello aperto del grande Suv grigio era la cosa più
accogliente che Bill avesse visto quel giorno. Lasciò il fianco
di Saki solo per infilarsi dentro quasi a tuffo, mentre la portiera si
richiudeva sicura dietro di lui.
“Ma che sistema è?!” Gridò indignata una
ragazza. “Noi siamo qui dalle sette di stamattina!”
“Mi dispiace, ragazze, sarà per la prossima volta.”
Affermò un tizio della radio, mentre la macchina di Bill partiva.
“Col cazzo.” Fece un’altra ragazza, sussurrando ad un
paio di amiche. “Ora prendiamo la macchina e lo seguiamo,
svelte!” Le altre due annuirono convinte.
Bill, da quando erano in viaggio, si era notevolmente rilassato. Si era
tolto il cappello e gli occhiali e aveva provato a chiamare Tom per
fare pace. Sarebbe andato tutto bene, se quel merdaiolo di suo fratello
si fosse degnato di rispondere!
Stava provando per la seconda volta, quando, su un incrocio,
sentì una macchina dietro di loro strombazzare e poi voci
concitate di donna. Si voltò sul sedile per guardare dal lunotto
posteriore e vide una Panda verde pisello con dentro tre ragazze che si
spenzolavano dai finestrini, pestando sul clacson e sventolando sciarpe
dei Tokio Hotel. Il cantante sgranò gli occhi incredulo.
“Ci hanno seguito.” Affermò in quel momento Saki, controllando nello specchio retrovisore.
Bill guardò l’uomo, poi di nuovo fuori. “Ma
dico… cazzo! Questa gente è pazza!” Commentò
poi. “Seminale, Hans.” Ordinò quindi
all’autista.
“Herr Kaulitz c’è traffico.” Replicò
l’uomo. “È un casino, se poi arrivano
multe…”
“Tranquillo, le pago io.” Lo rassicurò Bill con tono
cupo, stava ancora controllando la situazione dal finestrino
posteriore. “Ora vai!”
“Bill, io non credo…” Intervenne Saki, dal sedile del passeggero, voltandosi verso il cantante.
“Tu fatti i cazzi tuoi.” Ribatté il ragazzo interrompendolo.
“Io veramente sarei pagato per…” Tentò ancora il body guard.
“Tu sei pagato per fare quello che ti dico io.”
L’interruppe ancora Bill, sporgendosi verso i sedili anteriori.
“E io voglio che me le togliete dai piedi, capito?”
L’uomo, con espressione piuttosto offesa, si aggiustò gli
occhiali sul naso e poi tornò a guardare avanti. Tanto lo sapeva
che era inutile discutere con Bill quando faceva l’isterico.
“Oh, bene!” Commentò soddisfatto il padroncino,
incrociando le braccia e accomodandosi sul comodo sedile.
“Andiamo, Hans.”
L’autista annuì, quindi ingranò la marcia e
bruciò subito un semaforo che aveva tutta l’aria di stare
per diventare rosso, con grande compiacimento del cantante.
Le grandi strade del centro non furono molto favorevoli alla fuga,
quindi decisero di prendere qualche strada laterale; lo avrebbero fatto
dopo la grande rotatoria che avevano davanti ora.
C’era abbastanza traffico ed era appena smesso di piovere. La
macchina del cantante dovette soffermarsi per dare la precedenza, ma
Bill spronò di nuovo l’autista ad una manovra azzardata.
Entrarono nella rotatoria, scatenando i clacson delle altre macchine,
poi svoltarono subito a destra.
“Attento! La ragazza!” Gridò Saki in quell’esatto momento.
“Quale ragazza?!” Esclamò Bill da dietro.
“Cazzo!” Sbottò Hans frenando bruscamente; questo
non impedì il verificarsi di un botto sordo contro la
carrozzeria, mentre Bill ruzzolava sul sedile posteriore. “Dio,
l’ho messa sotto!”
“Cristo…” Imprecò piano Saki, scendendo al volo dalla macchina ormai ferma.
“Che è successo?” Domandò il cantante, rimettendosi seduto.
“Abbiamo investito una ragazza…” Rispose Hans preoccupato.
“Che cosa?!” Esclamò Bill, sporgendosi verso di lui.
“Hans, vieni!” Chiamò nel frattempo Saki dall’esterno del veicolo e l’uomo scese a sua volta.
Bill, a quel punto, incuriosito e preoccupato, decise di scendere dalla
macchina. Aprì le sicure della parte posteriore dell’auto,
indipendenti da quelle anteriori, e aprì lo sportello,
scivolando lentamente fuori dell’abitacolo. Fece qualche timido
passo verso Saki, che era fermo vicino al faro anteriore destro della
macchina, e vide distesa a terra una ragazza dai lunghi capelli chiari.
Era pallida, con gli occhi chiusi e aveva una ferita abbastanza lunga
sulla fronte che sanguinava, anche se non copiosamente. Vicino alla
ragazza c’era uno zaino, vecchio e consumato.
“Saki…” Mormorò il cantante. L’uomo si
girò allarmato, quando riconobbe la sua voce e gli andò
subito incontro.
“Torna in macchina, Bill.” Gl’intimò secco.
“Ma… ma… quella ragazza…”
Balbettò il ragazzo accigliato e preoccupatissimo, indicando la
vittima dell’incidente.
“Va tutto bene, vai in macchina.” Gli disse l’uomo.
“Ma Saki è ferita!” Reagì Bill, continuando
ad indicarla. “Avete chiamato l’ambulanza?!”
“Sì, la sta chiamando Hans, tu torna dentro.”
Rispose lui, ma vedendo che l’altro non gli obbediva gli
andò vicino e lo prese per un braccio, conducendolo allo
sportello. “Vai in macchina.” Insisté, portandocelo
quasi di peso. “Ho chiamato David, sta arrivando, tu resta qui e
chiuditi.” Concluse, praticamente buttandolo sul sedile. Bill
annuì ubbidiente, mentre il body guard chiudeva lo sportello.
Dopo un’attesa che gli sembrò infinita, passata a
sobbalzare ad ogni rumore ed a fumarsi il mezzo pacchetto di sigarette
che gli era rimasto, Bill vide la portiera aprirsi di nuovo. La faccia
tirata di David Jost, manager e produttore dei Tokio Hotel,
spuntò nell’abitacolo.
“Cazzo! Ma che ti sei fumato? Tutte le piantagioni di tabacco del
Kentuky!?” Furono le prime parole dell’uomo, che si
ritrasse per far uscire il fumo che invadeva la macchina.
“Ho finito le sigarette…” Rispose il cantante,
portandosi tremante l’ultimo mozzicone ancora acceso alle labbra.
“David…” Chiamò poi, afferrando il manager
per il collo della giacca. “…dimmi la verità,
è morta?”
“No, Bill, non è morta.” Rispose l’uomo.
“Ci sono i paramedici con lei adesso, non sembra grave.”
Bill, a quelle parole, sospirò sollevato e prese un altro tiro.
“Ascoltami adesso.” Continuò David, sollevando il
mento del ragazzo. “Tu ora scendi da quest’auto, sali
sull’altra e te ne vai a casa con Jürgen.” Bill
annuì con aria spaesata. “E, inoltre, tu non eri su questa
macchina.”
“Ma, David…” Tentò Bill, cui quel provvedimento sembrava inutile.
“Tu non eri su questa macchina, Bill.” Ripeté David
con tono autoritario. Il ragazzo, seppur un po’ titubante,
annuì. “Bene, adesso vai.”
Bill scese dall’auto e si avviò verso quella ferma a pochi
passi dal suo sportello. Prima di salire lanciò
un’occhiata verso il punto dove era la ragazza: la stavano giusto
caricando sull’ambulanza.
“David.” Chiamò quindi.
L’uomo, che era davanti a lui e seguiva le operazioni di
soccorso, si voltò di scatto, aggrottando la fronte in modo
pericoloso.
“Ti ho detto di andare via!” Sbottò, mentre lo
raggiungeva; lo prese per le spalle e lo fece salire a forza
nell’auto già in moto.
“Mi terrai informato, vero David? Voglio sapere che cos’ha,
come sta…” Supplicò Bill, accomodandosi nel sedile
posteriore della Mercedes nera.
Il manager annuì, chiudendo lo sportello, ma Bill aprì il
finestrino. La sua faccia era pallida e provata e aggrottò anche
le sopracciglia, assumendo un’espressione penosa.
“Prometti che mi chiami, David?” Gli chiese con tono
melodrammatico. L’uomo sospirò, mani ai fianchi, davanti
allo sportello.
“Tranquillo, ti chiamo più tardi, ora chiudi il
finestrino.” Rispose poi, spronandolo ad ubbidirgli, ma lui
naturalmente non lo fece. “Parti, Jürgen!”
Ordinò allora, battendo sul tetto dell’auto.
Il veicolo partì e l’ultima cosa che vide David, fu la
faccia di Bill fissare sconvolta l’ambulanza che partiva. Scosse
la testa e si preparò a rispondere alla polizia che stava
arrivando. Forse era meglio chiamare l’ufficio legale.
Tom quella sera rientrò a casa verso le sette e mezza. I due
fratelli avevano da poco acquistato un appartamento in uno dei
quartieri più esclusivi di Amburgo. Si trovava in un palazzo
abbastanza moderno ed occupava gli ultimi due piani dell’edificio.
Il ragazzo salutò Horst, l’uomo di mezz’età
che faceva il turno di pomeriggio in portineria e si diresse
all’ascensore.
Lì non c’erano campanelli, il portone si apriva solo
dall’interno e se non avevi le chiavi dell’ascensore e
della porta ti dovevi far annunciare dal portiere col citofono.
Passavano solo gli autorizzati. Era una norma di sicurezza, ci abitava
solo gente di un certo livello in quel palazzo.
Tom arrivò in casa poco dopo, ma trovò il salotto
curiosamente silenzioso, eppure sapeva di sicuro che Bill era tornato
lì. Attraverso l’arco dell’atrio vide che
c’era la luce accesa in cucina, così andò
lì, ma, anche stavolta, non trovò il fratello.
Nella grande, funzionale ed elegante cucina c’era solo Frau
Hildegard, la governante che Bill aveva assunto appena rientrati dal
tour europeo. «Ne abbiamo bisogno, Tomi» gli aveva detto
Bill e lui, seppur un po’ recalcitrante, aveva accettato. Era suo
fratello che sapeva come si doveva gestire la casa, a lui fregava poco
e nulla; però non gli dispiaceva che tutto fosse a posto e la
cena pronta quando tornava stanco.
Frau Hildegard era un donnone tipicamente germanico: alta, robusta, con
un preciso chignon di capelli chiari e gli occhi attenti e azzurri.
Insomma, aveva la stazza di un cacciabombardiere e la stessa
implacabile efficienza della famigerata Luftwaffe.
A Tom metteva un po’ di soggezione. Senza contare le assurde
leggende che aveva sentito su di lei giù in portineria. Se
l’ipotesi che una giovanissima Hildegard avesse servito
l’ultimo pasto di Hitler nel bunker pareva giustamente un
po’ campata in aria, dato che sembrava troppo giovane per averlo
fatto, cosa dire della possibilità che avesse partecipato alle
Olimpiadi di Helsinki con la squadra di getto del peso della Germania
Est? Oppure del fatto che avesse lavorato per un principe ungherese
parente del conte Dracula? Chissà…
“Frau Hildegard, ma è ancora qui?” Domandò il ragazzo fermo sulla soglia della cucina.
“Oh, Herr Tom, buonasera!” Lui rispose al saluto con un
cenno. “Ha saputo cosa è successo?” Gli chiese poi
la donna.
“Sì.” Rispose lui atono.
“Sa, ho visto suo fratello un po’ agitato ed ho pensato di
rimanere, se aveva bisogno…” Spiegò la governante.
“Ah, grazie, è stata gentile.” Fece Tom con sincera
riconoscenza; se conosceva Bill ce n’era stato davvero bisogno.
“Lui dov’è ora?” Domandò quindi.
“Di sopra, in camera sua.” Gli disse la donna.
“Bene, grazie.” Annuì il ragazzo, facendo per
uscire, poi però si girò di nuovo verso di lei. “Se
ora vuole andare, per me è libera, tanto sono tornato io.”
“Molto bene, Herr Tom.” Affermò Hildegard con tono pratico. “Vi ho lasciato la cena nel forno.”
“Grazie ancora.” Fece lui, prima di uscire dalla cucina e dirigersi alle scale.
L’ampia scala era situata proprio alla destra della porta
d’ingresso, nel grande atrio quadrato; portava ad un ballatoio
che si affacciava per tre lati sul piano sottostante. Tom salì e
si diresse in fondo al lungo corridoio, dove era la camera di suo
fratello.
Il ragazzo aprì la porta della stanza di Bill senza bussare e fu
investito da una nuvola di puzzolente fumo grigio degna di qualche
acciaieria dell’ovest.
“Cazzo!” Imprecò Tom, dirigendosi risoluto alla
finestra più vicina, sperando così di far uscire al
più presto il fumo e ristabilire un’atmosfera respirabile.
“Bill, ma che cazzo fai?!” Esclamò poi.
Tom, dopo aver aperto la finestra, si era girato verso il letto.
Lì c’era Bill, seduto a gambe accavallate contro la sponda
inferiore ed era conciato da far pietà: capelli sconvolti, cicca
tra le dita tremanti, trucco colato, una scatola di cleenex sulle
ginocchia e, accanto a lui sul materasso, un grande posacenere nero da
cui spuntava un piccolo Everest di mozziconi di sigaretta…
“Billy, si può sapere che ti è preso?” Gli
domandò il fratello, con più dolcezza, mentre si sedeva
accanto a lui. Bill prese un lungo tiro dalla sigaretta che aveva in
mano.
“David non mi ha chiamato…” Mormorò, poi
tirò su col naso. “…lo so, non vuole dirmi che
è morta, Tom!” Continuò poi piagnucoloso.
“Ma che dici!” Sbottò il fratello. “David ha
detto che non ha niente di grave, un piccolo trauma cranico, niente di
più…”
“Allora è in coma!” L’interruppe l’altro, voltandosi di scatto e tirando di nuovo su col naso.
“Ma che coma!” Reagì Tom. “Io vorrei sapere chi ti ha messo in testa queste stronzate…”
“È tutta colpa mia, Tomi!” Proclamò il
gemello, sventolando il mozzicone. “Ho fatto una cosa
terribile!” Aggiunse, partendo poi con un patetico lamento,
mentre si piegava sulle proprie ginocchia singhiozzando.
“Vuoi farla finita, eh? Sembri la protagonista di una telenovela
brasiliana!” Ruggì l’altro. “Dimmi un
po’, ma hai bevuto per caso?”
Bill alzò lentamente il capo e lo guardò come se parlasse
aramaico antico. “No… cioè, un bicchiere
d’acqua, perché?” Fece poi.
“Boh… sembra che hai una di quelle sbronze piagnucolose…” Rispose vago il fratello.
“Ma tu non ti rendi conto!” Sberciò l’altro
con un’insopportabile vocetta acuta. “È successo a
causa mia!” Continuò indicandosi. “Sono stato
cattivo, un mostro, è la legge del contrappasso! Ahia!” La
sigaretta che aveva in mano, nel frattempo, era finita e lui si era
scottato un dito.
“Ma che vuol dire? Che discorso è?”
L’interrogò Tom, che proprio non lo seguiva, sia
perché parlava a vanvera più del solito, sia
perché era tutto un tossire e tirare su col naso.
Bill si alzò cominciando a gironzolare per la stanza,
grattandosi con violenza i capelli, come uno di quei ricoverati nei
reparti psichiatrici. Tom si passò una mano sul viso, scuotendo
la testa sconsolato.
“Non capisci, non puoi capire!” Dichiarava nel frattempo il
cantante, continuando a camminare avanti e indietro. “È
una vendetta divina!” Ecco, com’è il numero della
neuro? Si chiese Tom osservandolo. “Tutto questo è
successo perché ho commesso un peccato imperdonabile!” Ora
diventa anche mistico… lamentò il chitarrista, roteando
gli occhi.
“Bill, ma che avrai combinato mai!” Commentò Tom,
finalmente a voce alta; intanto si era acceso una sigaretta. “Non
avevi quell’intervista alla radio?”
“Sì!” Rispose subito Bill. “Sono andato
lì, ho fatto l’intervista, ho dato il culo agli sponsor,
come sempre…” Continuò con voce sempre più
isterica. “…solo che poi non avevo voglia di firmare
autografi, di sentire le lagne di quelle ragazzine urlanti… e le
ho chiamate maledette stronze!” Concluse poi, scoppiando in
singhiozzi convulsi.
“E ti hanno sentito?” Domandò sbalordito il fratello, guardandolo ad occhi spalancati.
“Ma no!” Esclamò il cantante, con un gesto stizzito
dei pugni. “È successo prima! E poi sono passato davanti a
loro, non le ho calcolate e anzi le ho guardate male… e poi
è successo l’incidente! Ohhh, oddio… è tutta
colpa miaaaa!” Affermò, quindi si gettò sul letto
piangendo disperatamente. “Come? Come ho potuto? Le nostre
faaaans! Gli dobbiamo tutto, ci sostengono sempre! Sono un mostro!
Buahhhhhh!”
Tom sospirò arreso. Gli era presa proprio drammatica, stavolta.
Doveva fare qualcosa subito. Primo: era necessario calmare suo
fratello; poi avrebbe provato a ragionarci, ora non era proprio cosa.
“La vuoi finire!” Gli berciò contro, come inizio.
Bill alzò il viso dal materasso; aveva gli occhi rossi, resi
più patetici dal trucco sbavato, il naso che colava e una
smorfia che voleva essere drammatica ma risultava solo buffa.
“Guardati, fai schifo!” Tom sapeva che premere sul lato
estetico era sempre un buon espediente con Bill. “Vedi di
aggiustarti, io torno subito.” Aggiunse, prima di alzarsi e
uscire dalla stanza.
Tom tornò poco dopo con in mano un bicchiere di liquido
trasparente. Bill, nel frattempo, si era messo a sedere sul bordo del
letto, si era soffiato il naso e pulito un po’ la faccia dal
trucco.
“Ecco, bravo.” Fece il chitarrista appena entrato, poi gli porse il bicchiere. “Ora bevi, su.”
Il cantante, con la faccina ubbidiente di un bravo scolaro, prese
ciò che gli porgeva il gemello e si scolò tutto in un
solo sorso. Quindi cominciò a tossire convulsamente.
“Tom, ma che cazzo era!?” Esclamò mezzo soffocato.
“Vodka.” Rispose tranquillo l’altro, stringendosi nelle spalle.
“Ma sei scemo?! Ho preso dei calmanti!” Replicò Bill spalancando gli occhi.
“Hai preso dei calmanti e stai così?” Ribatté Tom incredulo.
“Eh, sì…” Rispose il cantante. “Ho
preso venti gocce.” Continuò indicando una boccetta sul
comodino bianco. “Ma poi non mi facevano tanto effetto e
così… le ho riprese…”
“Ti sei preso quaranta gocce di calmante?!” L’interrogò allarmato il chitarrista.
“No… a dire il vero… sessanta, perché ho
pensato che era meglio raddoppiare la dose…” Spiegò
l’altro, gesticolando vago e guardando ovunque fuori che in
direzione del fratello.
“Bill, ma dove lo hai lasciato il cervello?” Gli chiese serio il fratello a braccia conserte.
“Tooomiiii, tu non capisci!” Ripeté per
l’ennesima volta. E Tom perse definitivamente la pazienza,
mollandogli uno schiaffone. Bill dondolò e si portò
subito la mano alla guancia colpita, poi guardò il fratello con
aria sconvolta.
“Guardami!” Gli ordinò Tom, afferrandogli il mento
tra le dita. “Ora mi dici che cazzo devo fare per farti smettere,
prima che il mio prossimo istinto sia quello di buttarti dalla
finestra!”
“Uhhhh!” Fece Bill, aspirando aria con gli occhi spalancati.
“Billy, ti prego!” L’implorò il gemello arreso.
Il cantante sospirò e chinò gli occhi. “Tom, io
devo andare all’ospedale, sapere cosa è successo davvero,
altrimenti non ho pace.”
Il chitarrista sbuffò. “Ti devo ricordare che, ufficialmente, tu non eri su quella macchina?”
“Non me ne frega un cazzo!” Sbottò subito
l’altro. “È colpa mia e devo fare qualcosa!”
Aggiunse accorato.
Tom diede l’impressione di pensarci per qualche secondo, poi
tornò a guardare la faccia stravolta del fratello. E, come
sempre, si trovò arreso davanti a quegli occhi supplicanti. Ci
sarebbe stata una volta nella sua vita in cui sarebbe riuscito a dire
di no a Bill? Non ne era convinto.
“Va bene, dai, andiamo.” Affermò poi, scatenando il
primo sorriso di Bill da quando era arrivato. “Lavati la faccia,
io ti aspetto giù.” Aggiunse, mentre l’altro balzava
in piedi.
“Oh, grazie, Tomi!” Esclamò Bill entusiasta, facendo per abbracciarlo.
“Sì, sì, dai!” Replicò lui,
scansandolo. “Non perdiamo tempo, non metterti a rifarti il
trucco.”
“Tranquillo, cinque minuti e scendo!” Gli assicurò
il fratello, correndo in bagno, mentre il chitarrista usciva dalla
stanza scuotendo il capo.
Andarono all’ospedale con la macchina di Tom, senza autista e
sfuggendo al controllo dei body guard. Bill non si era truccato dopo
essersi pulito la faccia dalla devastazione, ma per precauzione aveva
indossato un paio di grandi occhiali ambrati.
Non fu facile ottenere informazioni dall’implacabile e gelida
infermiera dell’accettazione. Se c’era una cosa che Tom non
sopportava erano i tedeschi quando facevano i tedeschi! Bill, nel
frattempo, continuava a vaneggiare sulla presunta morte della ragazza,
anche quando l’infermiera gli diceva che non c’era stato
nessun decesso in un incidente stradale quel giorno. Alla fine Tom
perse la pazienza, si sporse sul bancone e riuscì a farsi dire
che avevano ricoverato una ragazza con una gamba rotta e una commozione
cerebrale; potevano andare a trovarla il giorno dopo in orario di
visita. Fu sufficiente per Bill.
L’evidente rilassamento dovuto alle buone notizie, però,
decisamente colpì il cantante. O forse si addormentò di
botto in macchina, proprio mentre Tom gli stava parlando, perché
finalmente le medicine cha aveva preso, accompagnate da mezzo bicchiere
di vodka, avevano fatto effetto.
Fortunatamente quando arrivarono in garage c’era Saki ad
aspettarli, altrimenti Tom non avrebbe saputo come fare per portare in
casa il fratello che non dava segno di volersi svegliare.
Erano quasi le dieci quando il citofono annunciò l’arrivo
di Georg e Gustav. Tom aprì e ricevette gli amici sulla porta,
con in mano una bottiglietta di birra. L’espressione era stanca e
scazzata.
“Venite.” Fece, incitandoli con un gesto a seguirlo in cucina.
“Allora, com’è andata?” Gli domandò Georg mentre percorrevano l’atrio.
“Allucinante.” Rispose Tom dopo aver preso un sorso di
birra. “Una vera e propria tragedia greca, mancava solo il
coro.” Aggiunse sedendosi al tavolo della cucina. Georg si mise
davanti a lui, mentre Gustav restava in piedi.
“L’ha presa così male?” Chiese
quest’ultimo, avvicinandosi all’isola dove c’erano i
fornelli.
“Lo sai quanto può essere drammatico Bill.”
Affermò Tom, addentando una delle polpette che aveva nel piatto.
“E poi… pff… era convinto che la ragazza fosse
morta, o in coma…” Continuò masticando.
“Ma se David ha detto che aveva solo sbattuto leggermente la testa.” Replicò incredulo Georg.
“Sì, vai a spiegarglielo te a Bill in crisi
isterica.” Sbottò Tom, appoggiandosi alla spalliera della
sedia e sorseggiando la sua birra.
“Di che sono queste polpette?” Domandò in quel
momento Gustav, del tutto a sproposito, osservando il vassoio
abbandonato vicino ai fornelli. Tom e Georg lo guardarono.
“Hm, tacchino e verdure, credo… ma sono ottime, le ha
fatte Frau Hildegard.” Rispose poi il chitarrista.
“Prendine pure.” Aggiunse poi, incitandolo con un gesto,
lui non si fece pregare.
“Ora dov’è Bill?” Chiedeva nel frattempo il bassista, aggiustandosi i capelli dietro l’orecchio.
“Sta dormendo.” Dichiarò noncurante Tom, mentre si
grattava i dreads per una volta scoperti e annodati sulla testa come
tanti serpentelli.
“Ma come?” Fece Georg sporgendosi verso di lui. “Dopo
tutta questa storia dorme? Credevo fosse un fiasco di adrenalina, di
solito…”
“Eh, lo so.” L’interruppe Tom annuendo. “Ma si
è preso sessanta gocce di calmante e mezzo bicchiere di vodka,
anche te crolleresti come un sacco di patate…”
“Dai…” Commentò Gustav a bocca piena. “Da bere?” Chiese quindi.
“In frigo.” Gl’indicò Tom. “È
crollato in macchina, mentre tornavamo, non ti dico con Saki il casino
per portarlo su…” Continuò poi, con aria svagata.
“Gusti, falla finita, hai già cenato.” Proclamò il bassista, prima di tornare a guardare Tom.
“Che ci posso fare, avevo ancora un certo languorino!”
Ribatté il batterista, mentre si stappava una bottiglia di birra
prelevata dal frigo.
“Sei un pozzo senza fondo, Gu…” Commentò il chitarrista ridacchiando.
“Tom.” Lo chiamò però Georg, attirando la sua
attenzione. “Ma sei sicuro che sta dormendo?” Il tono del
ragazzo più grande era preoccupato.
“Ma sì…” Sbuffò l’altro, prima di stiracchiarsi le braccia dietro la testa.
“Dico sul serio, hai controllato?” Insisté
l’amico accigliato. “Con tutto quello che ha mandato
giù non vorrei che…” Il chitarrista spalancò
gli occhi, smettendo di dondolare con la sedia.
“Cazzo, Zio, ora mi hai fatto venire l’ansia!”
Scattò Tom, mollando il pacchetto di sigarette che aveva appena
preso e uscendo veloce dalla cucina. Georg lo seguì.
“Oh… oh, aspettatemi!” Esclamò Gustav, con
mezza polpetta ancora in bocca; il batterista afferrò la
bottiglia della birra e li seguì verso il piano di sopra.
Un momento dopo erano tutti e tre al capezzale di Bill. E tutti
abbastanza preoccupati. Qualunque cosa dicessero i giornali, i tabloid,
i pettegolezzi, loro prima di tutto erano amici e si volevano bene.
Bill era come lo aveva lasciato il gemello: immobile tra le coperte,
steso sul fianco sinistro, che dava le spalle alla porta e quindi anche
a loro tre.
“Io non ho il coraggio di guardare…” Mormorò Tom, che era inspiegabilmente sbiancato.
Georg sbuffò un sorriso. I due gemelli passavano le giornate a
becchettarsi, ma alla fine si volevano un bene dell’anima,
impossibile per uno dei due pensare ad una vita senza l’altro. Il
solo pensiero che Bill potesse stare male aveva bloccato ogni funzione
a Tom.
“Gusti, controlla tu, che sei più vicino.” Incitò il bassista.
Gustav, che era di fronte alla sponda inferiore del letto, proprio
davanti allo schermo al plasma incassato nel muro, si spostò
verso il viso del cantante, fiocamente illuminato dall’elegante
lampada di vetro arancione posta sul comodino dall’altro lato del
due piazze. Il batterista piegò il capo da una parte e
scrutò attentamente la faccia dell’amico, poi si
raddrizzò e bevve un sorso di birra.
“Allora, Gustav!” Sbottò Tom spazientito e allarmato.
“Morto non è.” Affermò il ragazzo tranquillo,
poi la sua espressione si fece più sbarazzina. “Sta
russando…” Georg trattenne una risata.
Tom sospirò sollevato, quindi si assicurò di persona
delle condizioni del fratello. I tre ragazzi, poi, tornarono al piano
di sotto e si trattennero in salotto per un paio d’ore,
finché non si salutarono.
Il chitarrista si arrese verso l’una. Quella sera avrebbe avuto
anche un impegno. Sì, un appuntamento con una ragazza. E ci
aveva rinunciato per la meravigliosa uscita di suo fratello. Pace, come
minimo quella avrebbe aspettato a gloria una sua nuova chiamata.
Spense la tv, chiuse le tende del salotto e si diresse al piano
superiore. Andò in camera sua, si spogliò, si lavò
i denti e mise il pigiama: una maglietta azzurra e dei pantaloni di
cotone a quadri scozzesi sul beige, stranamente della taglia giusta. Il
ragazzo quindi si recò in camera del fratello.
Bill dormiva nella stessa identica posizione di quando Tom era salito
con gli altri. Il gemello si arrampicò sul letto e
controllò che stesse bene. Dormiva beato, russando abbastanza
forte.
Tom, allora, si sedette a gambe incrociate, prese il telecomando e
accese il plasma a basso volume. La luce azzurrina illuminò la
stanza e lui si concentrò sullo schermo.
“Hm, bene…” Fece dopo un po’. “In
Afganistan si sparano addosso, tre soldati morti… Bagdad,
autobomba, morti quindici bambini… in Francia periferie in
fiamme di nuovo e il petrolio supera i novanta euro a barile, previsti
aumenti della benzina…” Biascicava seguendo il
telegiornale. “Cazzo, il mondo è un paradiso!”
Commentò infine, mentre spegneva la tv e si gettava sul
materasso.
S’infilò sotto la coperta, voltandosi verso il fratello,
poi si alzò su un gomito, per guardargli la faccia. Era coperta
dai capelli. Glieli scostò delicatamente e guardò meglio.
Il viso di Bill era ancora un po’ arrossato, ma gli occhi erano
chiusi senza rigidità e la bocca leggermente aperta. Ronfava in
modo un po’ rumoroso e un filo di saliva gli scendeva sul
cuscino. Tom sorrise e poi si accomodò meglio al suo posto,
coprendosi la spalla con la trapunta.
Trascorse qualche minuto di immobile silenzio, che Tom passò a
fissare la schiena sottile del fratello e a chiedersi se i fatti di
quella sera erano il risultato di qualcosa di più
profondo… a volte aveva un po’ di paura e non sapeva
perché. Quando gli succedeva si attaccava a Bill, di solito; lo
stesso faceva lui. Perché quando si ha paura in due, a volte
questa diventa coraggio.
Il ragazzo stava finendo questo ragionamento, quando il fratello si
girò verso di lui. I capelli neri gli ricoprirono il viso e Tom
glieli aggiustò di nuovo.
“Tomi… sei tu?” Mormorò allora Bill, senza aprire gli occhi.
“Sì.” Gli rispose dolcemente lui, appoggiandogli una
mano sul braccio; il gemello si avvicinò, fino a sfiorargli la
fronte con la sua.
“Resti qui?” Chiese Bill, sempre ad occhi chiusi e con voce strascicata.
“Sì.” Disse ancora una volta Tom, prima di avvicinarsi a sua volta e stringersi un po’ a lui.
“Grazie…” Soffiò Bill, accucciandosi contro
il fratello. Tom sorrise, gli strofinò il braccio con affetto,
poi si accomodò meglio, prima di abbandonarsi al sonno.
CONTINUA
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