Il sole era allo zenit e
bruciava la terra, arida ed esausta. Tutt’intorno al villaggio, il deserto
era l’unico padrone: per quante miglia a Nord e a Sud, Nyven non avrebbe
saputo dirlo. Le case che erano sorte intorno a quell’unica strada che
collegava Droà – la città del sud – con Epsèda – la città dell’est – erano
per la maggior parte dell’anno disabitate. Erano terre troppo inospitali
perché chiunque potesse pensare di fermarcisi. Solo in quel periodo
dell’anno, solo durante la tratta degli schiavi, il villaggio si ripopolava.
Gli schiavi che venivano venduti al Crocevia erano della miglior specie:
forti e tenaci nel lavoro, domati e sottomessi nell’indole.
Nella strada principale era
già stato montato il palco dove gli schiavisti avrebbero esposto la loro
merce: molte delle persone venute apposta per affari si erano già radunate e
aspettavano che il mercato aprisse.
Nyven guardò da sotto il
palco gli acquirenti, per la maggior parte umani, alcuni di loro provenienti
da luoghi molto lontani. Fissò per un po’ un gruppo in particolare: avevano
il corpo e le mani coperti da molti strati di tessuto - la faccia persino -
da un velo sottile che lasciava solo intravedere gli occhi. Nyven non ne
aveva mai visti di così chiari, di un azzurro terso. Gli avevano raccontato
che esistevano degli uomini con la pelle chiara e gli occhi azzurri, ma lui
non li aveva mai visti. La sua pelle ormai era bruciata da anni e anni
passati sotto il sole di Droà e i suoi occhi erano color dell’ambra. Si
chiese se chi aveva gli occhi azzurri vedesse il mondo in maniera diversa,
magari per loro il cielo era più blu e la terra meno inospitale.
Sentì le catene ai polsi
tirare.
“Muoviti, ragazzo, tocca a
noi” L’uomo che aveva parlato, Tocua, era il suo nuovo padrone. Continuò a
tirarlo per le catene, nonostante Nyven stesse camminando, rischiando di
fargli perdere più volte l’equilibrio. Questo gli sarebbe costato per lo
meno venti frustrate e un giorni di digiuno, perché avrebbe sporcato i
vestiti appositamente tenuti da parte per la tratta. E Nyven non si poteva
permettere di saltare nessun pasto, né di ricevere ulteriori frustate.
Sospirò, da tempo ormai non osava più guardarsi quella trama fitta di
cicatrici che gli ricopriva la pelle del dorso. Il suo vecchio padrone si
divertita a frustare i suoi schiavi ogni qual volta che perdeva al gioco.
E il suo vecchio padrone
non era certo un buon giocatore.
Proprio a causa del gioco
sconsiderato del suo padrone, Nyven era stato ceduto a Tocua: il mercante
era di passaggio a Droà e s’era fermato nella taverna, dove il vecchio era
ormai ubriaco e aveva terminato tutti i soldi portati con sé. Era stato
sfidato, altezzosamente, da chi non sa riconoscere di non essere un buon
giocatore, e aveva vinto. Il vecchio s’era visto costretto a pagare pegno
con il suo miglior ragazzo, altrimenti avrebbe rischiato di passare qualche
mese nelle segrete di Droà e magari di non uscirne vivo.
Tocua non era interessato a
Nyven di per sé, come mercante di schiavi raramente si teneva qualcuno al
suo servizio. Ma il ragazzo era bello e sicuramente avrebbe reso molto bene
al Crocevia dove, se non per le sue braccia, avrebbe potuto essere venduto
per il suo corpo.
E poi c’erano quei capelli…
I capelli del ragazzo erano
davvero straordinari: neri corvini e lunghi fino alla vita, erano lucidi e
brillanti come quelli di una ninfa, seppure Nyven non potesse certo né
lavarseli né tanto meno oliarseli di frequente. Non sarebbero passati
inosservati. L’unico dettaglio che Tocua non era riuscito a cambiare, erano
le ciocche rosso carminio che inevitabilmente risaltavano, fra quella chioma
nera. Aveva tentato di tingerle con del succo Alis, ma i capelli non si
erano tinti, rimanendo del loro rosso acceso.
Tocua aveva rinunciato
quasi subito, non voleva sprecare troppo denaro per delle tinture che non
erano efficaci, inoltre – probabilmente – quella stranezza sarebbe piaciuta
a qualcuno.
Nyven sarebbe di certo
valso un buon prezzo.
Salirono sul palco in
cinque. Nyven non conosceva bene gli altri, né sapeva come fossero finiti
lì, ma non gli importava più di tanto. Preferiva non conoscere nessuno, non
fare amicizia. Sarebbe stato venduto, non li avrebbe mai più rivisti. A cosa
avrebbe giovato conoscerli? A nulla, questo il ragazzo l’aveva scoperto in
tenera età.
Le catene ai polsi e ai
piedi non gli permettevano grandi movimenti, ma non erano dolorose. Il
cerchio al collo, invece, quello sì era pesante da sorreggere e, insieme al
sudore, macerava la pelle sottostante. Entro sera, Nyven sapeva che avrebbe
sanguinato e sperò che il suo nuovo padrone non lo punisse per essersi
causato dei tagli freschi, prima dell’arrivo nella sua casa.
Nyven si chiese quali fra
gli ormai tantissimi commercianti di fronte al palco l’avrebbero comprato.
Forse gli uomini dagli occhi azzurri? O forse quelli laggiù, con le sciabole
incrociate sulla schiena? O forse quegli altri, sicuramente abitanti di Droà,
che non smettevano di fissarlo?
Tocua, intanto, faceva il
suo dovere da grande oratore. A sentir lui, tutti e cinque i ragazzi erano i
miglior schiavi che il Crocevia avesse mai visto: forti, sottomessi,
ubbidienti e capaci. Fece loro aprire la bocca, per mostrare che tutti loro
avevano denti e gengive sane – questo avrebbe alzato il prezzo perché molti
schiavi avevano la bocca marcia. Da semplici infezioni, a gangrena che ne
inficiava la capacità di parola, ne alterava i lineamenti del viso e spesso
li uccideva.
Uno schiavo malato sono
solo soldi buttati.
Colpì poi, uno ad uno gli
schiavi nello sterno con un pugno, per dimostrare che non avessero malattie
respiratorie, anche queste causa di gravi perdite da parte dei padroni.
Tocua stava procedendo
all’esposizione delle mani e di come queste fossero abituate al lavoro,
quando d’un tratto si fermo.
Nyven guardò stupito il
proprio padrone, ma poi si accorse che il silenzio era calato in tutta la
piazza. Solo i vento, che sollevava sabbia e polvere, continuava
imperterrito a soffiare sul terreno
Poi un rumore di zoccoli e
solo dopo qualche istante, Nyven vide chiaramente avvicinarsi un cavallo
enorme e nero, montato da un cavaliere ammantato dello stesso colore. La
bestia e il cavaliere erano così imponenti da sovrastare il palco.
Tocua guardò il nuovo
venuto:
“Posso fare qualcosa per
voi?”
Se il mercante fosse
intimorito, Nyven non poteva dirlo: la sua voce e il suo aspetto risultarono
perfettamente saldi. Il ragazzo capì che cosa avesse generato tutta la
fortuna di cui Tocua si vantava spesso.
Il viso del cavaliere era
completamente coperto dall’ombra del suo cappuccio, ma Nyven ebbe
l’impressione che stesse scrutando attentamente tutti loro, finché non alzò
il braccio e lo indicò.
La tunica che lo copriva
cadde leggermente dal suo braccio e lo scoprì, rivelando al posto delle dita
dei lunghi artigli bianchi.
Nyven sentì Tocua imprecare
sottovoce e si spaventò. Se l’essere stato scelto da quell’uomo misterioso
non l’aveva particolarmente turbato, il sentir Tocua perdere il suo sangue
freddo sì. Un padrone valeva l’altro, bestie o umani, non faceva alcuna
differenza. Ma Tocua non aveva mai perso la sua compostezza di fronte a
nessuno…
Il cavaliere slacciò una
borsa dal dorso del cavallo e la lanciò sul palco. Con l’urto i legacci si
sciolsero e le monete – almeno mille Auri – si sparpagliarono ovunque.
Alla vista di tutti quei
soldi, la piazza fu pervasa di un brusio: nessuno schiavo vale quella cifra.
Tocua non poteva credere ai
propri occhi e s’affrettò a liberare il collo di Nyven.
“E’ vostro” disse
semplicemente, tradendo con la voce, tutta la paura e lo stupore che quel
cavaliere ed il suo gesto avevano generato. Prese poi la Pergamena di
Proprietà e vi appose la propria firma, per certificare che Nyven fosse
stato venduto e non rubato. Il cavaliere afferrò il contratto, poi subito
dopo il ragazzo e, come se fosse stata una piuma, lo sollevò dal palco e lo
depose sul proprio cavallo. Non disse nulla, ma diede un buffetto al
cavallo, che partì al galoppo.
Nyven sapeva che non
avrebbe dovuto fare domande: se il suo padrone voleva che lui sapesse
qualcosa gliel’avrebbe detto lui stesso, altrimenti non doveva saperla.
Perciò si limitò ad aggrapparsi alla tunica nera del cavaliere e a chiudere
gli occhi.
Cavalcarono tre giorni e
tre notti senza sosta e senz’acqua. La temperatura diminuiva gradualmente,
ma Nyven era così disidratato che, il pomeriggio del terzo giorno, non ce la
fece più a rimanere aggrappato e sul dorso del cavallo.
L’urto con la terra non gli
fece particolarmente male, voleva solo bere.
Poi svenne del tutto.
Riprese i sensi molto dopo,
senza capire dove si trovasse. La vista era offuscata e i muscoli così
intorpiditi da non riuscire a muoversi. Cercò di dire qualcosa, ma non
riuscì a schiudere le labbra ed ebbe la sensazione di avere la lingua grossa
e spessa, forse gonfia. Immobile anch’essa.
C’era del movimento intorno
a lui, rumore di vetro sbattuto qua e là, passi affrettati: che si trovasse
in una taverna? No, c’era troppo silenzio. Forse nella cucina di qualcuno.
Il nuovo padrone si sarebbe di certo infuriato con lui, che non riusciva a
muoversi. Riprovò, ma rimase immobile.
Riuscì però a distinguere
chiaramente due voci.
“L’hai quasi portato qui
morto! Irìyas ti avrebbe fatto la pelle!”
“Pensa alla tua di pelle,
coniglio! E’ da troppo tempo che mi stai attorno e ancora respiri. Dovresti
essermene grato”
L’altro borbottò qualcosa
che Nyven non capì.
“Non è colpa mia se gli
umani sono così deboli…”
“Ti avevo avvertito. Non te
l’avessi detto… ma mi ero raccomandato! E poi, non sarà la prima volta che
incontri degli umani!”
“E mi auguro sia l’ultima.
Puzzano, sono incredibilmente fragili e certamente stupidi. Chi vanta un
minimo d’intelligenza non si farebbe mai mettere quelle catene al collo e
alle braccia”
Nyven girò leggermente il
viso per vedere chi stava parlando. Riusciva a vedere solo uno dei due
interlocutori, ma quando lo scorse del tutto si augurò di essere in un
sogno, mentre ancora cavalcava dietro il nuovo padrone. Gli artigli bianchi
alle sue zampe erano però l’evidenza che non stava sognando. Era la bestia
che l’aveva prelevato dal Crocevia: un Lapdinare.
Erano creature di cui aveva
solo sentito parlare e che certamente non calcavano il suolo di Droà.
Avevano le sembianze di lupi, col pelo folto e scuro e gli occhi rossi che
sembravano trasudare sangue. Camminavano eretti sulle zampe posteriori e
usavano quelle anteriori come gli umani usano le braccia, ma all’occorrenza
potevano mettersi a quattro zampe per correre così veloce da far nascere la
leggenda che nessun occhio umano abbia mai potuto scorgere un Lapdinare
correre. La loro forza fisica era nota in tutto il regno, lei stessa oggetto
di numerosissime leggende. Nessuno poteva competere con loro, qualunque
esercito avrebbe pregato per avere un Lapdinare fra le sue fila, ma i lupi
non vengono mai sottomessi.
Nyven si chiese chi osasse
parlare con quel tono ad un Lapdinare senza la minima preoccupazione di
venire sbranato, per aver detto una parola di troppo.
Esisteva, quindi, qualcuno
più potente e forte di un lupo?
Quando il ragazzo riuscì a
vedere chi era la persona che parlava con quel tono ad un Lapdinare,
sussultò per la sorpresa e questo avvertì i due che s’era svegliato.
“Per la Dea Terra, meno
male s’è svegliato”
Il Lapdinare scrutò Nyven
coi suoi occhi rossi: “Ce ne hai messo di tempo!” Poi gli diede le spalle.
“Vado nella foresta, qui non servo più e non voglio perdere ulteriore tempo
a discutere con un coniglio grasso”
Il lupo scomparve dalla
stanza. Solo lo sventolio della tenda indicò a Nyven che era uscito dalla
porta.
“Non è grasso” puntualizzò
il coniglio guardando Nyven “E’ pelo” concluse poi massaggiandosi la pancia.
Un coniglio. Un Eclage per
essere precisi. Alto probabilmente meno di lui, coi baffi e la peluria
bianca intorno alla bocca, profonde rughe intorno agli occhi e degli
occhialini da vista tondi sul naso rosa che continuava a muovere
infastidito, come se gli facesse prurito.
Un Eclage paffuto e vecchio
che parlava con quel tono ad un Lapdinare?
“Smettila di guardarmi come
se avessi visto un fantasma! Non aver mai visto un Eclage non ti dà
l’autorizzazione a guardarmi così, bamboccio di Droà. Non pensare che,
siccome sono solo un coniglio, non possa tenere testa anche a te, perché ti
sistemo io” disse agitando la zampa in direzione di Nyven “Così come sistemo
quell’ arrogante di Mamim”
“Mamim?” Nyven aveva la
gola così secca da avere dolore nel pronunciare le parole.
“Mamim, sì, il Lapdinare.
Il lupo!” gli rispose l’Eclage come se stesse parlando con uno stupido. “Ma
ora sbrigati perché il tuo nuovo padrone ti vuole incontrare”
Non era l’Eclage il suo
nuovo padrone, dunque.
Non potevano essere fatte
domande, né si poteva alzare lo sguardo, ma la curiosità di Nyven per quel
posto era così intensa che indugiò a lungo con lo sguardo su quella stanza e
sul coniglio di fronte a lui. Gli sarebbe costato qualche frustata,
probabilmente, ma come poteva non guardare? Solo un attimo, poi abbassò lo
sguardo, il buonsenso prevalse.
L’Eclage annuì,
compiaciuto, ma non disse nulla, semplicemente lo aiutò ad alzarsi.
Solo una volta seduto,
Nyven si rese conto di essere stato completamente rasato. Forse il suo nuovo
padrone lo preferiva senza capelli, o forse erano troppo sporchi per essere
presentati al suo cospetto
“Zir”
Il ragazzo non capì e
guardò l’Eclage aggrottando la fronte.
“Zir” ripetè il coniglio
infastidito “Mi chiamo Zir. Cosa vuoi fare, chiamarmi Eclage per tutta la
vita? Vuoi che io ti chiami Umano per sempre? Non è mica piacevole sai?” L’Eclage
agitò le zampe indispettito “Io ti chiamo Nyven tu mi chiami Zir, è facile
no?”
“Sìsì” il ragazzo si
affrettò a rispondere “Molto facile signore!”
“Niente signore, solo Zir.
Il tuo signore ti sta aspettando, e non sarà certo contento se lo faremo
attendere. Non è proprio l’uomo più paziente del regno”
Il coniglio gli fece cenno
di seguirlo e Nyven cercò di stare al passo. Le gambe erano ancora troppo
intorpidite per correre, ma voleva evitare di dare un buon pretesto al
proprio padrone per arrabbiarsi. Zir l’aveva chiamato uomo, quindi
probabilmente il suo nuovo padrone era un umano. E questo rasserenò l’animo
del ragazzo: troppe bestie ignote per volere che anche il nuovo padrone
fosse una di loro. Gli umani lui li conosceva bene, non l’avrebbe colto
impreparato. Sapeva come erano fatti, come parlavano e li capiva. In un
certo senso, conosceva il suo padrone meglio di quanto conoscesse l’Eclage o
il Lapdinare.
Servire qualcuno che si
conosce rende la vita molto più semplice. |