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NEW LIFE
Sbuffando, uscii dalla metro a passo svelto e mi strinsi nel cappotto.
Era metà novembre e le temperature si erano notevolmente
abbassate. Anche nella metro, schiacciati gli uni agli altri, si
sentiva il freddo entrare dagli spifferi delle porte.
Feci le scalinate della ferrovia quasi di corsa, tenendo stretti al
petto i due caffè che il mio simpatico capo mi aveva fatto
andare a prendere dall'altra parte della città.
"È il migliore, lo sai", lo scimmiottai affondando la testa
nella sciarpa non appena misi piede all'aria aperta. Tirava un vento
piuttosto forte e le nuvole avevano oscurato il cielo, preannunciando
un brutto temporale. Sperai con tutta me stessa che tardasse
perché avevo lasciato a casa l'ombrello e non avevo neppure
la macchina.
Tirai un sospiro di solievo quando aprii le pesanti porte di vetro
della redazione e mi trovai al chiuso e al caldo.
Salutai con un cenno Martha, la segretaria del banco informazioni e
schiacciai il pulsante dell'ascensore. Vi salii in fretta e pigiai il
tasto dell'ultimo piano, quello del direttore, aspettando con un
sospiro che l'ascensore salisse lentamente.
Prima di uscire mi diedi un'ultima occhiata allo specchio, ma a parte
le guance e il naso arrossati dal freddo, la matita sbavata e i capelli
scompigliati non avevo niente che non andasse. Senza nemmeno togliermi
la giacca o appoggiare la borsa mi diressi spedita all'ufficio del
direttore, che da quando mi aveva assunta sette mesi prima si divertiva
a trattarmi da schiavetta tuttofare. In pratica, facevo davvero ogni
cosa, dall'andare a prendere caffè dall'altra parte della
città, all'aggiustare fotocopiatrici tranne che scrivere
qualcosa che somigliasse ad un articolo. La cosa più vicina
a uno di essi erano le infinite bozze che i pigri veterani si
divertivano a inviarmi per essere corrette prima di andare in stampa.
Avevo visto di quegli errori talmente grossolani che spesso mi ero
chiesta se non lo facessero apposta a riempirmi la casella mail di
articoli. Certo, sapevo che prima di iniziare ad essere una vera
giornalista dovevo "fare gavetta" e alla fine dovevo ammettere che
molte volte, solo stando accanto ai più bravi di loro avevo
imparato tecniche e accorgimenti che all'università non mi
avevano insegnato. Eppure tutta quell'attesa stava incominciando ad
innervosirmi e mi sentivo veramente sfruttata a volte, come quella
mattina: che bisogno c'era di andare a comprare un caffé
dall'altra parte della città quando c'era un comodissimo bar
al primo piano della redazione?
Con un sospiro, bussai alla porta e la aprii quando sentii la voce del
direttore invitarmi ad entrare. "I caffè", spiegai
appoggiando i due bicchieri sulla sua scrivania.
"Grazie mille, Amanda. Sei un tesoro", disse il direttore, Paul Brown
con un sorriso. Ricambiai più per educazione che altro e,
dopo aver salutato lui e il nuovo agente letterario che stava
intervistando uscii dal suo ufficio e risalii sull'ascensore per
scendere di qualche piano e dirigermi alla mia scrivania.
Nonostante tutto, non potevo davvero lamentarmi. Ero entrata in una
delle migliori redazioni giornalistiche del paese dopo nemmeno un anno
di tirocinio dopo l'università. I colleghi erano tutti
gentili e disponibili, a parte qualcuno che si divertiva alle spalle
dei novellini, ovvero io e un'altra ragazza, Jamie Lindsey, che in quel
momento era già seduta al suo posto e stava battendo
qualcosa al computer.
"Ciao Jamie", la salutai sfilandomi la giacca e buttando la borsa ai
piedi della scrivania.
"Altra corsa per i caffè?", mi chiese con un sorriso,
alzando lo sguardo dal monitor. Jamie era una ragazza dolcissima, magra
e piccolina, dai biondi capelli e gli occhi azzurri e spesso mi ero
chiesta come aveva fatto a sopravvivere in quel posto pieno di vipere
per più di un anno, ma probabilmente era per il suo talento
nella scrittura.
"Dio, non ricordarmelo", sbuffai sedendomi e accendendo il pc.
Jamie ridacchiò. "Ti capisco, ci sono passata anch'io",
disse facendomi un'occhiolino.
Mugugnai qualcosa, inserendo velocemente la password ed entrando nel
mio account. Nemmeno due secondi dopo, la mia casella di posta fu
invasa da articoli e mi lasciai sfuggire un gemito davanti alla
trentina di mail che avevo davanti.
"Al lavoro", sbottai, infilando gli occhiali che usavo per stare al
computer e aprendo il primo file.
Per l'ora di pranzo, quindi qualche ora dopo, ne avevo finite quasi la
metà e mi lasciai convincere dalla mia dolce collega ad
andare a mangiare qualcosa alla paninoteca davanti alla redazione.
"Sono esausta", sospirai sedendomi ad un tavolo appartato.
"A chi lo dici", mi imitò Jamie sfilandosi il cappotto. "Non
hai idea di quante bozze mi abbiano inviato oggi. Non so nemmeno come
farò davvero a finire l'articolo che Brown mi ha chiesto".
"Un articolo?", esclamai sorpresa. Jamie era alla redazione da
più tempo di me, eppure era una novità che il
direttore assegnasse un articolo a giornalisti così giovani.
"Una stupidata", disse scuotendo la testa e prendendo il
menù. "Cinquecento parole su dei ragazzini che hanno
allagato una scuola in centro. Sono andata ieri ad intervistare il
dirigente e devo consegnare tutto entro questa sera", mi
spiegò.
"Se vuoi puoi passami un po' delle tue bozze", le proposi. Ero davvero
contenta per lei, nonostante fosse effettivamente un articolo di poco
conto ed ero pronta ad aiutarla anche accaparrandomi una decina di
articoli in più da correggere.
"Saresti davvero gentile, ma non voglio riempirti di lavoro".
"Tranquilla", esclamai annuendo al suo sguardo indeciso.
Jamie stava per rispondere ma fu interrotta dalla suoneria di un
telefono. Ci misi qualche secondo a capire che era il mio e lo tirai
velocemente fuori dalla borsa, leggendo il nome sul display e
sospirando. "Ti dispiace?", le chiesi indicando la chiamata. Jamie
scosse la testa e sorrise.
Schiacciai il tasto verde e mi preparai all'uragano.
"Pronto?", dissi neutra, come se non sapessi chi fosse dall'altra parte
della cornetta.
"Perché te ne
sei andata così, ieri sera?". Chiaro e
coinciso, il mio ragazzo, Austin, sputò la domanda da un
milione di euro. Austin ed io stavamo insieme da quasi due anni. Era un
ragazzo dolcissimo, alto, dai capelli biondo scuro e gli occhi castani.
Lo avevo adorato subito quando ci eravamo conosciuti, grazie ad alcuni
amici dell'università e avevamo presto scoperto di avere
molte cose in comune: eravamo entrambi giornalisti, anche se in
redazioni diverse, entrambi adoravamo i film romantici, soprattutto i
classici, e detestavamo le commedie demenziali, eravamo entrambi
cresciuti senza un padre ed eravamo entrambi reduci da una relazione
devastante. Nessuno dei due aveva mai chiesto nulla del passato
dell'altro, ma come io pensavo ancora a Lui, era chiaro che anche
Austin pensava ancora alla sua ex-ragazza che, dal poco che mi aveva
raccontato, lo aveva mollato sull'altare per un'altro.
"Avevo bisogno di pensare", risposi alzandomi e uscendo dal locale. Non
che ritenessi quella conversazione privata, ma sapevo che probabilmente
ci saremmo messi ad urlare e non volevo dare spettacolo.
"A cosa devi pensare?",
ribatté, trattenendo una parolaccia tra i denti.
"Alla proposta che mi hai fatto, Austin", sospirai.
"Ripeto, cosa
c'è da pensare? Stiamo insieme da parecchio e ormai
è più il tempo che passiamo in una sola
casa. Qual'è il problema se ottimizziamo i costi e andiamo
ad abitare insieme?", esclamò irritato.
"È proprio questo il punto", dissi sbuffando. "Non
è facile cambiare abitudini così di punto in
bianco".
"Non ho detto che devi
trasferirti domani, dannazione", sbottò alzando
la voce.
"Come fai a non capire che non è una decisione da prendere
su due piedi?", ribattei stringendo il pugno. "È ovvio che
in questo modo ridurremmo i costi e tutto, ma andare a vivere assieme e
un grandissimo passo. Cosa facciamo se non sopportiamo le abitudini
dell'altro?"
"E come fai a saperlo se
non provi?", esclamò Austin. "So anch'io che è un
grande passo, Amanda. Ma se te l'ho chiesto evidentemente è
perché ci tengo a te".
"Dammi un paio di giorni, Austin", sussurrai, sentendo il cuore
stringersi in una morsa a quelle parole.
"È una pausa?",
mi chiese, abbassando anche lui il tono.
Scossi la testa, nonostante non potesse vedermi. "No, certo che no. Io
ti amo, ma devo pensare a questo nuovo cambiamento, capisci?".
Lo sentii sospirare. "No,
non capisco", ammise. "Ma
rispetto i tuoi tempi, Amanda".
"Grazie", mormorai. "In ogni caso voglio vederti questa sera", dissi
cercando di sembrare allegra, quando invece avevo un enorme macigno sul
petto.
"Passo a prenderti alle
nove e mezza", disse lui senza scomporsi. Era chiaramente
ancora arrabbiato, ma cercava di non farmelo pesare.
"Okay. Ti amo", lo salutai.
"Anch'io",
rispose dopo un secondo di silenzio, e poi chiuse la chiamata.
Fuori dal locale, al freddo, mi appoggiai il telefono al cuore e presi
un respiro profondo. Sapevo di stare facendo la stronza, che Austin non
si meritava quel comportamento, ma proprio non riuscivo a prendere in
considerazione l'idea di trasferirmi a casa sua. Lo amavo davvero
tanto, non lo nascondevo a me stessa e, come aveva detto lui, spesso
passavamo intere giornate a casa di uno o dell'altro, ma non riuscivo a
trovarle motivazioni sufficienti. Portare la nostra relazione a quel
livello così intimo mi spaventava tantissimo. E io sapevo
che il problema non era Austin e nemmeno la stupidata che stavamo
insieme da troppo poco tempo. Il problema ero io, con le mie paranoie e
le mie paure. Come potevo accettare di andare a vivere da lui se avevo
un timore pazzesco di rovinare la mia relazione come avevo fatto con
quella precedente? Non volevo farlo soffrire, non dopo tutto il tempo
che avevamo passato insieme, non dopo tutta la sua dolcezza e la sua
comprensione.
Sospirai e scossi la testa.
Entrai di nuovo e mi diressi al tavolo dov'era seduta Jamie,
regalandole un pallido sorriso.
"Austin?", mi chiese solo.
Io annuii e presi in mano il menù. Non avevo voglio di
parlarne, non in quel momento e non sapendo che presto avrei avuto
qualcuno che pagavo perché mi ascoltasse e Jamie
capì, cambiando argomento e iniziando a parlare del suo
articolo.
Dopo pranzo tornammo in redazione e dedicai il resto del pomeriggio
alle bozze da correggere. Quando cliccai sul pulsante "invia"
dell'ultima erano le sei e mezza passate e, sbadigliando, spensi tutto
e mi preparai per tornare a casa. Jamie era uscita qualche ora prima e
quindi dovetti fare il tragitto fino alla fermata dell'autobus da sola.
Nemmeno a farlo apposta, appena misi piede sul mezzo il temporale
scoppiò in tutta la sua potenza e sospirai, pensando ai
venti minuti buoni che dovevo camminare per arrivare a casa. Pensai per
un attimo di chiamare Austin, ma poi rinunciai, decidendo di fare una
corsa. Fortunatamente, appena scesi dall'autobus incontrai la mia
vicina di casa che era andata a fare la spesa e, aiutandola a portare i
pacchi, ne approfittai per ripararmi dalla pioggia.
Aprii la porta del mio appartamento con uno sbuffo, sfilando con forza
la chiave che era rimasta incastrata nella toppa: dovevo decidermi a
farla riparare o prima o poi si sarebbe bloccata del tutto e l'avrei
rotta.
Accesi la luce e appoggiai la borsa al ripiano all'entrata, sfilandomi
stancamente le scarpe con i tacchi ormai fradice. Non feci neanche in
tempo ad entrare in cucina che una pallina di pelo mi corse incontro,
appiccicandosi alla mia gamba felice.
"Wulfie!", esclamai, abbassandomi e prendendo in braccio il cucciolo di
cane che Austin mi aveva regalato qualche mese prima. Era un dolcissimo
meticcio, piccolo e peloso, dal manto grigio e le orecchie bianche a
punta, simili a quelle di un lupo.
Wulfie abbaiò felice e mi leccò la faccia.
L'avevo lasciato in casa da solo quel giorno perché non
potevo portarlo al lavoro e nemmeno lasciarlo a casa di Austin insieme
a Lissie, la sua bellissima cagna, un elegante Golden Retriever dal
pelo marroncino e gli occhi dolci e per un attimo mi guardai intorno
spaventata, alla ricerca di danni all'arredamento. Fortunatamente non
aveva mangiucchiato nulla di importante come le tende o il tavolo del
soggiorno e c'erano solo un po' di crocchette sul pavimento della
cucina, vicino alla sua vaschetta. "Bravo piccolo" dissi accarezzandolo
tra le orecchie e rimettendolo sul pavimento. "Hai fame, vero?", gli
chiesi poi, pur sapendo che non poteva rispondermi. Wulfie
abbaiò di nuovo e lo presi come un sì, afferrando
la ciotola e riempiendola per metà. Appena la riappoggiai
per terra, Wulfie vi si avventò e, ridacchiando, gli misi
accanto anche dell'acqua fresca, nella quale immerse subito il musetto.
"Vado a farmi una doccia", continuai come se stessi parlando con una
persona. "Poi più tardi arriva Austin". Wulfie
alzò le orecchie al nome del mio ragazzo e poi
tornò alla sua scodella.
Mi abbassai per lasciargli un ultima carezza sul dorso e poi mi diressi
in camera, contenta di poter finalmente togliere quello scomodo
completo elegante che ero costretta a indossare al lavoro. Mi infilai
sotto la doccia con un sospiro di solievo e mi lasciai accarezzare le
spalle dal getto d'acqua. Ero davvero stanca, ma non vedevo l'ora di
rivedere il mio ragazzo, nonostante la discussione del giorno prima.
Discussione che, in realtà, non si poteva considerare
nemmeno tale, visto che, dopo la sua legittima proposta di adare a
vivere insieme ero fuggita da casa sua senza una parola. Non sapevo
cosa mi fosse preso e ragionando a mente lucida mi rendevo conto che
era stato un comportamento senza senso e maleducato. Eppure non avevo
potuto fare a meno di irrigidirmi a quelle parole, mentre la mia mente
inevitabilmente tornava indietro nel passato e al periodo che avevo
trascorso a casa del mio ragazzo durante le superiori. Non avevo potuto
evitare di pensare ai nostri progetti per il futuro e a come tutto
fosse crollato come un castello di carta. E forse era per questo che
avevo paura di dire quel sì, avevo paura che una volta
fattesi serie le cose, tutto sarebbe finito, lasciandomi un vuoto nel
cuore ancora più grande di quello che già avevo.
Un guaito di Wulfie e il suo grattare sulla porta mi risvegliarono dai
miei pensieri e mi sciacquai in fretta, uscendo dal bagno senza nemmeno
asciugarmi i capelli e andando direttamente in camera. Wulfie mi
seguì, mugolando triste quando mi sedetti sul letto con lo
sguardo perso nel vuoto. Mi succedeva tutte le volte che ci ripensavo e
che risaliva la consapevolezza di essere io la colpevole di tutto
quello. Me l'ero cercata, ora non avevo nessun diritto di avere
rimpianti.
Con un sorriso stanco mi vestii in fretta e presi Wulfie sulle mie
ginocchia, accarezzandogli dolcemente la testa. "Credi che io sia un
completo disastro con gli uomini?", gli chiesi tristemente.
Wulfie abbaiò, allungandosi per leccarmi la guancia e
ridacchiai. "Beh, almeno tu non la pensi così".
Wulfie abbaiò di nuovo, tirando fuori la lingua in quello
che sembrava una specie di sorriso. Scossi la testa e mi diressi in
cucina, dove mi preparai qualcosa di veloce da mangiare. Ormai erano le
otto e avevo tutto il tempo del mondo per prepararmi come si deve
all'arrivo di Austin e sapevo anche dove mi avrebbe portata, al solito
pub in centro.
Mi cambiai con calma, scegliendo un comodo abito nero, con le maniche
di pizzo ricamato e gli stivali che mi aveva regalato mio fratello il
Natale precedente.
Dopodiché, accesi il computer e, sedendomi comodamente sul
letto accanto a Wulfie, aprii la mail e riguardai le ultime bozze che
mi erano rimaste e rispondendo a quella di una vecchia amica
dell'università, con la quale parlavo ogni tanto.
Quasi non mi accorsi del tempo che era passato, perché
quando Austin suonò il campanello ero ancora stravaccata sul
letto, struccata e spettinata.
Lo feci entrare in soggiorno e, mentre giocava con Wulfie, finii di
prepararmi.
"Sempre la solita ritardataria", commentò quando uscii dal
bagno.
C'era effettivamente un po' di tensione, ma decisi di non farci caso,
regalandogli un grande sorriso mentre uscivamo dall'appartamento e
chiudevo la porta a chiave. "Sai come sono", ridacchiai, togliendo
quest'ultima dalla serratura con uno strattone.
Austinsi limitò ad alzare un sopracciglio, seguendomi
giù per le scale. "Purtroppo", mugugnò.
"Tutto bene al lavoro?", gli chiesi, cambiando argomento.
Lui annuì, prendendomi la mano mentre aprivo il portone. "Il
solito", rispose evasivo e quando diceva così sapevo che era
successo qualcosa.
"Hai poi scritto quell'articolo?", chiesi infatti, cercando di capire
il problema, ricordandomi di quel pezzo su cui stava lavorando da
giorni.
Austin si irrigidì. "Sì", rispose evitando il mio
sguardo.
"Ma...", iniziai, capendo che c'era qualcosa sotto.
"Ma non me l'hanno pubblicato", mi rivelò sbuffando mentre
entrava in macchina.
"È assurdo", esclamai. Sapevo che Austin era un bravissimo
giornalista e lavorava per quella testata da anni. Aveva quindi
accumulato esperienza e altri articoli e proprio non mi spiegavo
perché il suo capo non avesse accettato il suo.
"Lascia stare", borbottò accendendo il riscaldamento. Poi si
voltò verso di me. "Andiamo a bere qualcosa?", mi chiese.
Io annuii, sorridendo felice di avere indovinato per l'ennesima volta i
suoi programmi.
"Mi è sembrato felice, Wulfie", commentò.
"Certo!", esclamai. "Sono una padrona modello, io!".
Austin ridacchiò. "L'hai già portato dal
veterinario?".
Esitai un attimo a rispondere. "No", ammisi.
"Una padrona modello", ripeté Austin ridendo e trascinando
anche me con il suo sorriso.
Parlammo per tutto il viaggio in macchina dei nostri cani e del lavoro
e sentii che tutto stava tornando al suo posto.
Quando arrivammo al pub era ancora quasi vuoto, ma noi ci sedemmo al
nostro tavolino e continuammo a parlare come non facevamo da secoli.
Ero felice che Austin avesse accantonato la faccenda del trasferimento
perché non ero decisamente pronta a parlarne, figuriamoci a
pensarci seriamente. Amavo Austin, era stata la mia ancora di salvezza
dopo anni di buio assoluto, ma qualcosa dentro di me mi frenava
dall'approfondire quella relazione come avrei tanto voluto. Ci avevo
messo mesi e un'infinità di appuntamenti per convincermi a
farmi baciare e quasi il doppio per lasciarmi andare e fare l'amore con
lui. Sapevo che quell'attaccamento al passato era sbagliato e
deleterio, ma avevo bisogno del mio tempo per abituarmi alle
novità e non fare paragoni che avrebbero sminuito tutto. Ma
Austin mi era stato vicino, mi aveva sopportata e corteggiata fino allo
sfinimento con quel suo carattere dolce ma deciso e alla fine non avevo
potuto fare altro che cedere e decidere di iniziare una nuova vita.
Certo, non era semplice e nessuno aveva mai detto che lo sarebbe stato.
Sapevo che Austin mi adorava così tanto solo
perché non sapeva il motivo della mia rottura con il mio ex,
altrimenti mi avrebbe spedito fuori dalla sua vita a calci nel sedere.
Della mia relazione con Lui sapeva solo che era finita dopo quasi tre
anni e che non ci eravamo più sentiti. Ero caduta seriamente
in depressione in quel periodo, soprattutto dopo l'aborto: uscivo a
stento di casa, non avevo più contatti con persone che non
fossero mia madre o mio fratello e ogni notte mi svegliavo in preda
agli incubi più angoscianti. Non era stato facile venirne
fuori e soprattutto superare quella stupida convinzione mentale che mi
meritassi tutto quel male dopo il mio comportamento e c'era stato
bisogno di uno psicologo che mi aiutasse a venire a patti con me
stessa, psicologo che frequentavo anche allora, una volta al mese.
Questo Austin lo sapeva e ogni trenta giorni mi ricordava il mio
impegno del giorno dopo e mi accompagnava lui stesso alla clinica,
aspettandomi per tutto il tempo necessario e poi portandomi a prendere
un gelato o una cioccolata, a seconda della stagione.
"Domani devi andare da Klant?", mi chiese infatti Austin quando uscimmo
dal pub a notte fonda.
Io annuii. "Alle tre", risposi. "Ho chiesto un permesso per uscire
prima".
"Perfetto, passo alle due e mezza", disse lui con un sorriso.
Non provai nemmeno a contraddirlo e mi strinsi al suo braccio mentre
andavamo alla macchina. "Resti da me, stasera?", gli chiesi quindi,
mentre salivamo nel veicolo.
"Forse è meglio di no", disse lui, prendendomi alla
sprovvista. "Ma, in fondo, è da tutta la sera che sogno di
sfilarti quel vestito, quindi sì", rispose regalandomi un
sorriso dolcissimo.
Ridacchiai nervosamente, cercando di calmare i battiti del cuore che
erano aumentati a dismisura alla sua prima frase. Quella sera facemmo
l'amore dopo quasi una settimana di astinenza, ma, nonostante fu
bellissimo come le altre volte, c'era qualcosa dentro di me che non mi
fece perdere la ragione come al solito.
Se te l'ho chiesto
evidentemente è perché tengo a te.
Anch'io tenevo molto a lui e non solo perché mi aveva
salvata dal baratro in cui stavo cadendo. Con lui avevo iniziato una
nuova vita, diversa, ma ancora tallonata dalle ombre del passato. La
sua proposta mi aveva presa alla sprovvista. Fare un passo
così grande era una responsabilità enorme e
temevo seriamente di non esserne all'altezza. Per quello avevo reagito
in quel modo, scappando dai problemi come facevo sempre. E mi odiavo
per questo, eppure non riuscivo a comportarmi diversamente.
Mi lasciai abbracciare e rimasi sveglia anche quando Austin
entrò nel mondo dei sogni. Dovevo tutto a quel ragazzo,
allora perché non riuscivo a renderlo felice?
Salve
gente!
Finalmente
sono riuscita a pubblicare il primo capitolo del sequel di "Like a
Phoenix", come avevo promesso.
Questo
capitolo è un'introduzione alla storia. Si sono scoperte
alcune cose nuove, mentre altre sono ritornate.
Per
chi conosce già Amanda, avrà capito di cosa parla
quando si riferisce a Lui, per chi invece è nuovo da queste
parti, vi consiglio di continuare a leggere e, se siete curiosi, di
andare a sbirciare l'altra storia.
Ringrazio
di cuore Clary
F per il fantastico banner (è favoloso,
vero?), la mia amica che mi dovrà sopportare per tutto
l'anno con questa storia e tutti voi che leggerete.
Ah,
prima che me ne dimentichi. Settimana prossima non so se riesco ad
aggiornare, perché parto per la Norvegia per cinque giorni e
ho ancora indietro un sacco di compiti da finire e il viaggio da
organizzare! Spero di riuscire a correggere il capitolo in tempo, nel
dubbio, vi lascio con un piccolo spoiler del prossimo capitolo.
a
presto!
vestito Amanda --> http://www.polyvore.com/senza_titolo_40/set?id=70616271
SPOILER...
Capitolo due: UNEXPECTED MEETING
[...] Davanti a me c'era un uomo sui venticinque anni, alto e dalle
spalle larghe, con i capelli castani e due occhi azzurri profondi come
l'oceano. Due occhi azzurri che erano stato il mio porto anni prima e
che avevo creduto di aver dimenticato. E invece erano ancora impressi a
fuoco nella mia mente, con quello sguardo accigliato e sorpreso che
assumevano ogni volta che succedeva qualcosa di imprevisto.
E quello era stato decisamente un'imprevisto. [...]
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