Prese il portapillole chiaro
e lo posò sul comodino accanto al suo letto, quindi tornò a guardarlo con la
coda dell’occhio: il viso pallido e sudato, i capelli scomposti, l’aria
spossata per quel nuovo attacco appena avuto. Akira sospirò e si inginocchiò
nuovamente al suo capezzale per passargli un fazzoletto imbevuto d’acqua
fresca sul volto. I suoi occhi seguirono i movimenti di lei e quando
incrociarono le iridi scure della ragazza, parvero sorridere. Lei abbassò lo
sguardo, palesemente in imbarazzo.
«Scusa se ti ho fatta
spaventare» gli riuscì di mormorare senza fatica. Il battito cardiaco si era
pressoché stabilizzato e già sentiva le forze tornare.
«Non è certo colpa tua»
rispose Akira, mettendo via il fazzoletto. Takumi spostò lentamente il
proprio corpo verso la parete a cui era addossato il letto per farle posto e
lei sedette sul bordo del materasso. Tutte le volte che il suo compagno di
stanza si sentiva male, il panico l’assaliva; e non soltanto perché temeva
di non poter essere d’aiuto ad un’altra persona, ma anche e soprattutto
perché temeva di perderlo. «Come va, ora?»
«Meglio, grazie.»
«Vuoi che chiami tua
sorella?»
Takumi scosse il capo.
«Sto bene.»
«Guarda che se lo dici
soltanto per non farla allarmare…» iniziò la ragazzina, conoscendolo come le
sue tasche.
Avvertendo il tono
preoccupato che incrinava la sua voce, lui la interruppe. «Sto bene,
davvero» ripeté, non potendo fare a meno di sorridere. Sebbene inizialmente
la loro convivenza non era stata facile, col tempo i due giovani si erano
avvicinati l’uno all’altra, cominciando non solamente ad andare d’accordo,
ma anche e soprattutto a stringere un’amicizia vera, profonda, specie dal
momento in cui Takumi aveva accidentalmente scoperto che il suo compagno di
stanza era in realtà una ragazza. Era stato anche grazie a quell’episodio
che fra loro era nato in tutta naturalezza un rapporto di sincerità
assoluta, specie perché entrambi erano portati a dire le cose così come
stavano, seppur in modi del tutto diversi: Takumi era un ragazzo gentile e
posato, capace di dire la verità senza per questo mostrarsi mai sgarbato o
indelicato; di tutt’altra indole, Akira poteva certo risultare più
aggressiva e decisa, ma capace di colpire dritto nell’animo con le sue
parole ed i suoi gesti, sempre dettati dalla coscienza e da ciò che riteneva
giusto. Nel suo caso non si trattava di ottemperare ad un dovere, quanto di
seguire i dettami del proprio cuore. Ed era per questo che Takumi sapeva che
il suo aiuto, la sua preoccupazione, non derivavano da un senso di
responsabilità verso il suo compagno di stanza, dalla pietà che lui le
faceva perché malato di cuore. Nello sguardo di Akira non c’era compassione,
come invece Takumi leggeva in quello di molti altri: gli occhi di lei erano
intrisi di tenerezza, di un sentimento forte e protettivo che non poteva che
nascere da quell’affetto intenso che li legava nel profondo. E questo, se
possibile, lo rendeva felice più che del semplice fatto di averla accanto.
Si era reso ben conto del
fatto ch’ella gli era affezionata forse oltre il limite dell’amicizia, e
anche questo, in qualche modo, gli faceva provare una sensazione di
benessere in quel cuore malandato che, dispettoso, a tratti minacciava di
volersi fermare per non lasciargli scoprire se quelle emozioni, se quei
sentimenti che Akira risvegliava in lui potevano alfine risultare qualcosa
di diverso da quello che aveva precedentemente provato per il suo compagno
di stanza – quando lo credeva un ragazzo. Aveva da sempre pensato che avesse
un bel viso, forse un po’ effeminato, per un maschio, ma alla luce della
verità, Takumi non poteva non ripetersi che quei lineamenti delicati
facevano di lei una fanciulla davvero graziosa. E se a questo si
aggiungevano l’indole buona ed il cuore gentile, benché camuffati dietro ad
un muro di orgogliosa scontrosità con cui Akira soleva ripararsi contro gli
attacchi del mondo esterno e di coloro che volevano avvicinarla oltre la
soglia da lei consentita, e cioè quella della conoscenza, agli occhi di
Takumi la ragazza non poteva che apparire bellissima.
«Forse sono un po’
egoista a pensarlo,» prese a ragionare il giovane a mezza voce, «ma sono
contento che tu sia qui.»
Akira lo fissò stupita:
era contento del fatto che lei fosse costretta nei panni di un ragazzo?
Takumi? No, era chiaro che intendesse altro. La kunoichi sorrise e sospirò.
«Lo credo bene, altrimenti chi ti avrebbe raccolto da terra, poco fa?» Se
anche quella risposta avrebbe potuto suonare acida alle orecchie di altri,
Takumi non riuscì a trattenersi dal sogghignare. «Beh, se ridi vuol dire che
stai meglio» concluse la ragazza, alzandosi. Ma prima che potesse
allontanarsi, la mano del giovane cercò la sua, trovandola e stringendola
gentilmente. Con un velo di imbarazzo nell’espressione del viso e nella
voce, ora di nuovo malferma, Akira ricambiò il gesto. «Cosa?»
«Nulla» sorrise ancora
lui, guardandola con la stessa tenerezza che lei soleva riservargli. «Volevo
solo dirti grazie.»
I loro occhi si
incrociarono ancora, dolci e timidi al contempo, una vaga pennellata di
rossore su entrambi i volti. «Stupido» bofonchiò la ragazzina, nel cui gergo
quella parola assumeva varie valenze: dallo spronarlo a combattere contro la
malattia al rassicurarlo per una giornata andata storta, dall’insultarlo nel
vero senso della parola al dirgli con tutte le sue forze “ti voglio bene”.
Takumi sorrise ancora, e
lasciò che la mano di lei scivolasse via gentilmente dalle sue dita.
«Riposati» la sentì sussurrare ancora, prima di vederla spegnere la luce
della stanza per sparire dietro le tende che separavano i loro letti.