cap 1 un terribile tifone
Un
terribile Tifone
La voce del flauto
-Dove sei, mia
adorata?
Un essere ulula a gran
voce nel folto della foresta, fermatosi per scrutarsi attorno. Riprende
la sua
andatura, incredibilmente svelta, fendendo a metà un grosso
cespuglio di
bacche.
-Perché scappi?
Fermati, per favore!
Al suo passaggio la
vita freme, pullula e lampeggia, tessendo ricami di fiori e guizzi
d’ali.
Si arresta di nuovo,
al centro di una radura, sollevando una pioggia di terra. Muove avanti
e
indietro la testa, dalla quale spunta una radiosa chioma castana. Gli
occhi
dorati studiano attenti la conformazione del territorio, grandi e
lucenti,
bramosi della preda.
-Perché fuggi?- urla
fuori di sé, innalzando il suo lamento fino al cielo,
laddove una mandria di
nuvole accelera spaventata.
In un cenno d’ira
percuote il terreno con gli zoccoli vigorosi, borbottando. Comincia ad
essere
stufo di quel gioco, dura da fin troppo tempo: sono quasi sette giorni
che
segue le sue tracce, senza mai raggiungerla davvero.
All’inizio la sua fame era
trainata dal motore dell’amore, del desiderio supremo, e il
susseguirsi di sole
e luna era solo una circostanza irrilevante, un particolare che gli era
sgusciato intorno come brezza leggera. Ma mano a mano che i venti
soffiavano
tra gli steli d’erba, l’infatuazione era andata
sbiadendo, lasciando il posto
al seme della frustrazione; e questo aveva avuto tutto il tempo e lo
spazio per
crescere e dare frutti.
Oltremodo stizzito,
l’essere si schiaffeggia le gambe coperte da una spessa
pelliccia. -Ti
supplico, mostrati a me ancora una volta!- domanda al vuoto,
ciondolando la
testa sul collo nervoso.
E’ allora che la
figura esile e traslucida di una fanciulla appare, in fondo alla
radura,
seminascosta da alcune betulle.
-Non avvicinarti, o
scomparirò di nuovo- mormora piano ella, le mani giunte sul
petto nudo.
L’inseguitore sussulta
a dir poco. Volge il mento barbuto in direzione della ragazza, mentre
un
sorriso gaio trova posto in mezzo alle gote imporporate. Alza le
braccia in un
richiamo muto, nella speranza immortale che possa essere esaudito.
-Finalmente- sussurra,
umettandosi le labbra. Il suo vistoso pomo d’adamo mostra
tutta l’eccitazione
che può ritornare a scorrere calda nelle vene.
La fanciulla si
acciglia, per nulla entusiasta di quella situazione. Mentre con una
mano copre
il seno, sposta l’altra per rendere invisibile la zona
pubica. -Che cosa vuoi
da me?
-Sei così bella- dice
l’essere, ancora immobile al centro del pascolo. Sembra aver
ignorato la
domanda che gli è stata rivolta, immerso nei propri
pensieri. Poi si riprende
d’improvviso, e, capacitandosi forse solo adesso di cosa sta
davvero accadendo,
si esibisce in un profondo inchino. Dunque, trattenendo
un’infantile risata,
muove le zampe caprine.
-Fermati, Pan!- tuona
la ninfa, sebbene la sua sia una voce estremamente delicata. Sta
rivolgendo al dio
uno sguardo giudicatore, distaccato. -Ti ho detto di non muoverti!
Al che l’altro pianta
gli zoccoli in terra. -Perché ti sei mostrata a me, allora?
Perché non posso
toccarti? Perché non posso amarti? Perché?-
ruggisce, con un progressivo
aumento di volume della voce e della furia.
-Addio.
Questa sola, ultima
parola odono le orecchie di Pan, appena prima che l’attraente
figura di Siringa
svanisca e divenga un tutt’uno con i chiari tronchi
retrostanti.
Un’irrefrenabile senso
di insoddisfazione e inadeguatezza torna ad ardere nel suo cuore, che
ordina
alle zampe di muoversi più veloci del suono. -Torna qui,
torna qui!- esclama,
per metà adirato e tormentato.
L’inseguimento, che
pare coinvolgere un solo partecipante, termina sulle sponde di un
acquitrino. Qui
regnano soltanto piante basse e spoglie, sporadici fiori dalle tinte
paonazze e
un’infinità di canne. Pan sposta il suo grosso
fisico, umano ma anche caprino,
su e giù lungo la riva dello stagno, certo che Siringa non
si sia allontanata
da lì. Si fida del suo fiuto, è grazie ad esso se
ha potuto inseguirla
nonostante non la intravedesse.
Un alito di vento si
solleva sopra allo specchio d’acqua, gelido e silenzioso, ne
increspa la
superficie e si infiltra nel canneto. E’ proprio
quell’istante a suscitare
nella mente di Pan un grido di vittoria: l’ululato
invisibile, insinuandosi tra
le canne, ha prodotto un suono basso e sibilante, ma non è
riuscito a tradire
l’udito infallibile del dio, poiché la voce di
Siringa è giunta chiara sino a
lui come squillo di tromba, come strillo
d’aquila.
In un baleno Pan si
trova accovacciato innanzi al canneto, fregandosi le mani. -Mia
adorata…ti ho
trovata! Ma…ma dove sei? Qual è quella giusta?-
Prende ad osservare le piante
una ad una, aspettando di cogliere il minimo tremore, il più
piccolo sussurro.
Quello che il dio non sa è che Siringa non è la
sola a dimorare in quello
stagno: vi sono altre ninfe, moltissime altre, le quali hanno
provveduto a
fornire aiuto alla sorella inseguita tramutandola in canna,
cosicché passasse
inosservata.
Purtroppo, il loro
piano è andato in fumo.
Con un gesto
perentorio Pan ha estirpato una decina di canne, fra le quali
è certo vi sia
anche l’amata. Scarta quelle ridotte peggio, fino a che non
gliene rimangono
sette; allora viene colmato da un’idea geniale. Ne taglia le
estremità con le
unghie affilate, dando ad ognuna una lunghezza diversa, in modo tale
che una
sia più corta di quella precedente. Per finire le lega
insieme con un laccio di
rametti e strisce di corteccia.
Ansioso ed estasiato,
inclina lo strumento appena ottenuto in modo che l’aria vi
passi attraverso: la
voce di Siringa spezza il silenzio, sospirando un lamento che non
troverà pace.
Le
labbra di Pan si avvicinarono al flauto e vi soffiarono
dentro, producendo una melodia breve, allegra e mielosa, con un non so
che di
voce umana.
“Insieme per sempre”
pensò compiaciuta la divinità, rigirandosi lo
strumento tra le dita affilate e
nodose. Il ricordo di quel giorno trovava consistenza nella sua mente
ogni qual
volta gli capitasse di sfiorare il flauto, ed allora vi si perdeva, vi
si
arrendeva completamente, il più delle volte accomodandosi su
di un’amaca
ottenuta intrecciando liane e foglie.
Un
rumore sommesso di passi d’uomo scivolò sino ad
essere
percepito da Pan. Questi balzò giù dal giaciglio,
intascò il flauto e mosse gli
zoccoli ad una velocità incredibile, svanendo letteralmente
nel nulla. Saettò
attraverso il sottobosco, salutando con la mano scoiattoli e formiche,
e
scoppiando in una grassa risata ad ogni incontro avvenuto. Quando la
presenza
dell’uomo si fece palpabile, trovò
nell’ombra di una quercia un ottimo
nascondiglio e tese l’orecchio, sporgendosi appena.
Un
ragazzino con un arco in spalla stringeva la mano di una
bambina, probabilmente due fratelli a caccia. Parlottavano a testa
china, e la
piccola gesticolava per un capriccio inesaudito.
Il
dio non esitò un istante e colse l’occasione:
dischiuse
le labbra e produsse mediante le corde vocali un verso che si
allontanava
parecchio dalla voce che normalmente usava.
La
passeggiata dei due ragazzini venne spezzata da
un’agghiacciante ululato. Il fratello scattò e si
impose davanti alla sorella,
allargando le spalle e aspettando che una belva feroce si presentasse a
lui.
Estrasse dalla faretra una freccia e la incoccò, poi
trattenne il respiro e tese
con non poca fatica la corda dell’arco. La piccolina dietro
di lui dovette
compiere uno sforzo immenso per non gridare.
Davanti
ai fratelli non apparve nessun lupo, ma il corpo di
una creatura che aveva dell’incredibile: dalla vita in su
presentava le
fattezze di un giovane uomo, dal viso affascinante e perfetto. Grandi e
magnetici occhi dorati, un naso tagliato fine, labbra sottili e rosate,
lineamenti mascolini addolciti dalla forma del mento e delle gote. I
capelli e
la barba erano tenuti lunghi, di un marrone acceso, imperlati di fiori
variopinti e insetti sgargianti. Al di sotto dei pettorali e gli
addominali
scolpiti, l’inguine si nascondeva sotto un pelo riccioluto,
tendente al nero,
che s’infittiva via via che proseguiva verso i fianchi. Le
poderose cosce
terminavano con uno zoccolo ciascuna.
Prima
ancora di presentarsi, Pan si produsse in un secondo
ululato, confondendo ancor di più le menti dei fratelli.
Poi, aprendo le
braccia e assumendo un’espressione divertita, disse: -Che
cosa fanno due teneri
cuccioli umani nel mio regno?
Il
più grande, mosso dal senso di responsabilità che
portava
sulle spalle nei confronti della sorella, fu lesto a rispondere, anche
se la voce
non tradì il suo sgomento.
-Siamo…venuti…a…a caccia-
balbettò.
Pan
mutò la mimica facciale in un lampo, incupendosi. -Cosa
hai detto?
Silenzio
di timore.
-A
caccia?- ripeté tetro Pan, gonfiandosi in petto e
piegando le braccia per mostrare la sua virilità. E
gridò a squarciagola: -Come
osate togliere la vita agli animali? Io sono il custode delle foreste,
il
protettore dei boschi, colui che sussurra ai suoi abitanti- Per finire
scandì
lentamente, con voce bassa e irata: -E
voi…venite…a caccia?
Mentre
i due ragazzini se la davano a gambe con gli occhi pieni
di lacrime e il cuore martellante, il dio pronunciò un
tonante ruggito di
leone, che fece tremare gli alberi e il cielo.
Così
come poco prima aveva alterato facilmente il suo umore,
Pan distese la fronte e sorrise, per poi piegarsi in due e ridere a
crepapelle.
Cadde sul letto di foglie secche a terra, scalciando.
-Pan!
Un
rigido richiamo riportò la divinità ad ergersi in
piedi;
contro qualsiasi spiegazione logica, in lui era scomparsa ogni traccia
d’ilarità. Alzò gli occhi, dove
qualcuno stava oscurando la luce del sole.
Discese
dal cielo un uomo alto più di due metri, che si
posò
quasi senza peso sull’erba. Possedeva un fisico scolpito e un
viso pulito e
asessuato. Vestiva una rozza tunica di stoffa, che trovava appiglio ad
una sola
spalla lasciando l’altra scoperta; ad altezza della testa e
dei piedi, un paio
di grandi ali vaporose sbucavano fuori da un elegante copricapo bianco
e
calzature di stoffa chiara.
Diresse
le iridi argentate su Pan, e lo indicò per mezzo del
bastone d’oro che impugnava, raffigurante due serpenti
attorcigliati. -Figlio,
è richiesto il nostro intervento!- esclamò fiero.
-E’
bello rivedervi, padre!- rispose prontamente Pan,
scalpitando.
Hermes
fece un cenno d’insofferenza con la mano libera. -Non
c’è tempo, Pan. Devi venire subito con me,
l’Olimpo necessita del nostro aiuto!
L’uomo
caprino piegò il capo, confuso. -Com’è
possibile? Non
ho percepito alcun pericolo!
-Perché
il tuo regno non è stato ancora toccato- fu la
risposta grave dell’altro. -Tu non hai connessioni con la
casa degli dei, non
puoi, non…mi dispiace, non possiamo concederci un secondo di
distrazione in
più. Muoviamoci. Seguimi!
Senza
dilungarsi oltre, Hermes si librò in volo per mezzo
delle ali ancorate a testa e piedi, e con uno scatto scomparve alla velocità del
fulmine. Il satiro gli fu
dietro in un battito di ciglia, galoppando rapido come il vento.
-Padre,
cosa accade?- domandò Pan, mentre schivava tronchi e
saltava corsi d’acqua. Trovava insolito il fatto che Hermes
fosse così
angustiato, l’essere burlone e sempre pronto a scherzare era
un aspetto che lo
caratterizzava in ogni momento. Questo lo incuriosiva e allarmava,
perché non
gli era mai successo di vedere suo padre così. Che fosse
accaduto qualcosa di
estremamente grave?
Hermes lo
squadrò dall’alto, il volto inespressivo. -Zeus e
Athena potrebbero essere in fin di vita, soltanto noi possiamo
aiutarli. Tifone
ha attaccato l’Olimpo.
Fine Prima Parte
|