Neville Paciock
Neville Paciock
Io,
un nome tra
molti,
una pietra
uguale ad altre.
Io,
Neville,
ho una storia
da raccontare.
Molti sono i
viaggiatori stanchi che non si fermano,
che non
prestano attenzione.
Ma io ho ancora
una voce.
Perciò vi
prego,
per un momento,
due,
tre,
siate bambini
ed ascoltate.
Nella mia
storia ci sono streghe e maghi,
negarlo è come
dire che non ci sono mostri,
né draghi.
E ci sono
bacchette, cappelli, incanti,
rospi e
calderoni, pozioni, oggetti volanti.
C’è tutto
quello che sognate da bambini,
che bramate.
Ma non è come
nei libri.
Oh no, non è
come le fiabe.
Bene e Male
hanno armi uguali,
nella mia
storia.
Io ero tra i
buoni, posso dirlo:
perdemmo così
tanto da non curarci della loro fine.
Uno si curò di
me,
uno solo.
Sì, siamo
giunti a presentar l’eroe.
Ed un eroe che
voi non conoscete.
Non scelse lui
l’armatura e la lancia,
non decise lui
la corsa contro il buio.
No, non fu
felice la sua strada.
Nessun bivio,
nessuna sosta.
Dalla capanna
dritto alle fauci del lupo,
senza fiori o
cacciatori audaci nel frammezzo.
Solo prede.
Io, noi tutti,
anche il suo amore,
cademmo.
Cademmo.
Dubitammo di
lui,
prima,
arrivammo a
crederlo falso, mentitore!
Io non dissi
nulla, quell’anno,
lo aiutai,
anzi, a dimostrare la durezza del suo animo di ferro,
ma non
dimentico che fu uno come me,
uno che più di
me a lui era caro,
a ferirlo,
aggredirlo, infrangergli il riso.
E fu la lei che
sempre l’aveva aiutato,
a dirgli che il
suo coraggio era vanità.
Fu l’anno dopo,
quando la presunta vanità salvò anche lei,
stolta,
e tutti noi,
ed egli invece
perse ancora,
perse un altro
pezzo del suo fragile cuore.
Li capii
entrambi, lo rammento,
poiché non
avevano torto.
Ma ricordo
anche che li biasimai,
e li biasimo
tuttora, come biasimo me stesso.
L’eroe sfida il
drago,
salva il
popolo,
e il popolo lo
deride per non aver usato il senno, la ragione.
Ma dov’è il
senno quando l’amore viene trafitto dinnanzi a noi?
Dov’è la
ragione se il nemico alza l’arma sul fratello?
E cos’è,
cos’è un eroe
se non diverso dagli altri nella forza dell’agire?
Lo sapevo io
come loro,
come chi non
l’amava ma lo voleva,
come chi
l’odiava e lo temeva.
Ma non uno fu
saldo nel fidarsi della sua spada,
non uno riuscì
a non dubitare della sua luce.
Di certo
qualcuno prima di me l’ha detto,
e io ve lo
ripeto, astanti,
perché
difficilmente i sussurri delle ombre sembrano voci,
e facilmente
ciò che dicono rimane nel vento:
non lo
meritammo mai.
Si pensa che in
un mondo di streghe e maghi,
di fate, mostri
e draghi,
gli eroi siano
banalità e costume,
che se ne
racconti non per gioco ma per scienza,
che vincano e
non li si vinca,
che amino e li
si ami,
che la favola
sia sempre ben finita.
Ma non v’ho
detto che non è una favola, la mia?
L’eroe,
l’eroe...
mi diede il suo
coraggio,
io gli diedi
un’altra lapide da piangere.
Ancor oggi, mi
piange.
Parla di
quando, insieme a lei che ho già citato,
mi colpì per
salvare il nostro mondo.
Si era bimbi,
l’ammiravo oltre ogni altro;
soffrii del suo
gesto,
permaloso,
direste.
Ora capisco
perché lo fermai:
non per la mia
Casa o per gli sguardi,
ma perché io
ero io.
Non ero io
l’eroe, non era mia la scena.
L’aiutante non
inizia la fiaba,
non è il
principe a cavallo.
Io e lui,
Harry,
segnati dal
comune destino di essere soli.
Sapete, io
avrei potuto essere lui.
Assassino al
posto suo,
solo per lui,
unico per lui.
Il caso fece
scorgere in lui la minaccia e non in me?
No.
No, e se lo
credete rileggete da capo le mie parole.
Come avrei io
potuto capire gli specchi e domar le chiavi,
come uccidere
serpenti e ricordi di maghi,
come liberare
vite innocenti e ingannare i savi,
come vincere
prove e veder morire gli ignavi,
come perdere la
vita dietro veli rari,
come veder
cadere le risposte dai tetti solitari,
come morire un
poco d’ogni morte dei propri cari?
Io sono
Neville,
soltanto uno
dei tanti.
Troppo timido o
solo o impacciato o esitante,
troppo io,
da lui troppo
distante.
Avrei vinto,
io?
Ah, questa
sarebbe stata una vera fiaba, non pensate?
No, mai.
E la sorte
scelse come se l’avessi dettata io,
scelse lui,
Harry,
scelse chi ci
avrebbe salvati.
Sapeva, il
fato?
O ha scelto per
un fato oltre ancora,
che ama e ci
ama?
Morimmo tutti,
noi che sedemmo insieme sotto allo stesso stendardo,
noi che vedemmo
la Speranza crescere,
amare,
guardarci
cadere,
e perdurare.
Crudele,
crudele sorte!
Egli non è un
eroe greco,
amò ed ama
troppo la vita per seguirci nel baratro.
Non riuscimmo a
non cadere, sciocchi;
e mentre egli
vinceva,
mentre la
nostra favola si concludeva,
già i suoi
occhi riflettevano il pianto
– e non la
gioia.
Quale, quale
gioia nel perder tutto e salir sul podio?
Persino l’amore
gli fu infranto.
E qui, qui sta
la staffilata,
qui sta il
dolore lancinante.
Speranza,
speranza...
non per lui,
non per se stesso.
E lo ripeto,
sorte: crudele, crudele!
Lottò tanto per
un mondo suo solo per pochi visi,
e tutti quei
visi gli furono tolti,
straziati nella
polvere e nel sangue.
Uno su tutti.
E rimase solo,
come nessuno di
noi fu mai.
Io crebbi con
parenti vicini e scettici di me,
ma seppi
sempre, vidi sempre la mia famiglia vera.
Non mi
conoscevano, ma non li amai di meno.
Erano con me
ogni istante,
anche quando
tremante consegnavo le vite dei compagni
nelle mani di
un probabile assassino, ingenuo.
Ma egli,
egli crebbe
come uno stelo d’un fiore raro,
dolorosamente
perfetto,
perfetto ma
incrinato dal marcire dei sostegni.
Non aveva
certezze o spalle,
non ebbe mai
altro che armature, e lance.
Consigli,
inutili.
Amici,
allontanati.
Amore. Amore,
nemico e alleato. Amore, che l’ha abbandonato.
Dolce cavaliere
dallo sguardo di brillante,
quanto dolore
provo nel cantar la tua ballata!
L’eroe vince,
nella fiaba.
Tu vincesti
solo per altri,
fosti
imperatore, re, comandante,
ma le tue
schiere si dissolsero come il fumo dei tuoi sogni,
e della
splendente e immemore vittoria
altro non ti
rimase che lacrime,
e noi pietre.
Noi pietre,
quali amici per te, anima bianca!
Un eroe merita
seguaci,
non ombre di
silenzio e nomi muti.
Tu che muta mai
sei,
perché mi
parli?
Parli a me, al
vicino, all’altro ancora,
non importa
quanto e quale male ti sia stato arrecato.
Parli ai pedoni
e ai fanti di schieramenti dimenticati,
a incisioni
sciupate di sorrisi mai obliati.
Perché, perché,
Speranza?
Siamo tutti
sommersi in questa valle di colpe e peccati,
tutti
condannati da fiaba e cuore;
tu, eroe, non
ci lasci.
Ma voi
lasciatemi, viandanti;
so che altre
voci bramano l’ascolto,
poiché egli
deve ancor passarli,
e il vento non
comprende bene ciò che gli si confessa.
Ho tempo, io,
qui nel mio riposo,
perciò ripeterò
se vorrete tornare;
le stesse
lacrime immaginerete nel mio viso,
e lo stesso
pegno pagherete alla mia ombra
– solo il tempo
di una favola.
Via, via,
andate.
E’ tempo che
zittisca la mia voce,
egli viene e
tocca a me ascoltare.
Le stelle sole
sanno quanto io odi le rughe del suo stanco viso!
Brilla lo
smeraldo,
ma il sorriso è
morto, morto come adesso è il sole.
E del sole mi
parlerà, lo sa il mio cuore.
Mi chiederà,
ricordo come
splendeva quando mi lasciò provare la sua scopa?
com’era
luminoso mentre la battaglia della neve imperversava?
come ci
scaldava nel guardare l’acqua del Lago?
Oh, mia
Speranza,
mio signore.
Ricordo persino
le volte che mi toccasti la mano!
Ricordo tutto
ciò di cui mi parli,
ieri, oggi,
domani. Ricorderò fino alla fine del vento
– dove non più
accarezza il grano, ma si spegne nel silenzio.
E ora che
avanzi, che ti vedo,
anche adesso mi
chiedo quel che non so e tu non sai,
che la mia voce
di polvere e terra non ti dirà,
e che tu non
sentirai, nel mio compianto.
Perché anche
io, Harry?
Non sono che
Neville,
non sono che un
rimpianto.
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