A story ever told
Altro strambo
crossover Hiddlesworth per festeggiare(?)
questo Halloween.
Eric lo conoscete tutti, Adam... beh, è Hiddleston con una
parrucca riciclata dal set di THOR u.u
A parte gli scherzi, Adam è un po' Lokieggiante in questa
storia, ma siccome è ancora un personaggio privo di
caratterizzazione canonica, diciamo che si può chiudere un
occhio, vero? Chiamatelo “effetto-parrucca”.
Buona lettura e Happy Halloween.
Kiss kiss Chiara
A story ever told
Ci sono leggende che si
tramandano per decenni, secoli, millenni.
Ci sono leggende che
raccontano mille verità e poche bugie, molto più
spesso, accade che sia solo una la verità narrata e miriadi
le gocce di menzogna in cui essa si perde.
Ci sono leggende che
cambiano di bocca in bocca, di lingua in lingua ma che vengono
conosciute in ogni angolo del mondo.
E poi, poi ci sono
storie piccole, storie di uomini senza nome e senza importanza che
vengono dimenticate.
Storie di cui nessuno
ricorda l'inizio né la fine, storie che sono solo polvere su
un libro mai scritto.
Adam faceva parte delle
grandi leggende, delle leggende immortali come immortale era la sua
maledizione e quella dei suoi fratelli.
Adam il vampiro
musicista. Adam il bello, Adam che il solo incontrarlo era morte certa.
E infine c'era Eric,
un'ombra come tante altre, perse nelle memorie.
Perché tutti
conosceranno il mito dell'immortale vampiro Adam, nessuno
saprà mai la storia di Eric, il cacciatore che
dedicò la sua vita a dargli la caccia, che mai
riuscì a trafiggergli il cuore con un paletto, ma il solo a
cui il vampiro Adam donò quel cuore immortale.
Questa è
quella storia mai raccontata e io son la voce che accetta di prender
sulle spalle il fardello di narrarla.
A voi, nobili lettori,
solo la preghiera di non dimenticare.
***
I. L'alba del
Cacciatore
Eric aveva sette anni quando sua padre lo portò a caccia la
prima volta, lo ricordava bene.
Ricordava il manto di neve che copriva la landa, gli alberi alti e
spogli che sembravano disegnati di nero sullo sfondo bianco. Ricordava
la lana che pizzicava il suo collo, il segno rosso sotto il mento di
suo padre, poggiato per ore sul legno del fucile.
«Ci vuole pazienza, Eric, pazienza e calma.» Lo
educò con rigore ed Eric annuì.
Sentiva la neve bagnare la sua pancia, gli abiti che sua madre aveva
cucito con le poche stoffe che era riuscita a racimolare.
I guanti avevano troppi buchi per impedire al freddo di gelare le dita
ed Eric le avvicinò alla bocca e alitò
più volte. Suo padre lo guardò severo e lui
lasciò che il freddo di dicembre congelasse la pelle senza
più scaldarla.
Da dietro al tronco umido gli occhi di suo padre tornarono a osservare
ciò che a Eric sembrava solo un paesaggio sterile e vuoto.
Cosa avrebbero cacciato? Cosa c'era da cacciare in quel freddo?
Voleva tornare a casa, voleva dormire accanto al fuoco con il profumo
dello stufato, ma non avrebbero avuto uno stufato se suo padre non
avesse trovato della selvaggina.
Sentì il colpo e si portò le mani alle orecchie
tremando.
«Andiamo, figliolo.» Non avvertì neanche
la mano sulla sua piccola spalla.
Aprì gli occhi e vide il corpo senza vita di un alce.
Grande, immenso, steso immobile contro il tappeto nevoso.
Eric non seppe da dove fosse uscito, come avesse fatto suo padre ad
abbatterlo.
Quella sera accanto al fuoco Eric non mangiò lo stufato.
*
A undici anni Eric uccise il suo primo coniglio.
*
Quando suo padre morì lasciandolo solo con sua madre, di
anni ne aveva diciassette.
Sapeva sarebbe giunto il momento di prendersi le
responsabilità della sua famiglia, non pensava giungesse
così presto. Non sperava così presto.
Ma la febbre era durata giorni e con tutte le pelli che aveva venduto,
non era riuscito ad acquistare le medicine necessarie e
così, un mattino di un grigio autunno, suo padre
spirò fra le lacrime di sua madre.
Eric non pianse, prese il fucile e quella sera tornò con un
grosso bottino. Scuoiò i conigli uno per uno e ne
cucinò le carni.
Sua madre pianse anche la notte.
Il giorno seguente gli consegnò una scatola di legno.
Eric l'aprì e capì solo allora che le lacrime non
erano per suo padre.
«Sei un Cacciatore» gli disse tirando su con il
naso.
Eric guardò il libro dalle pagine ingiallite,
guardò il paletto che brillava di un metallo che non aveva
mai avuto modo di vedere da così vicino, e prese la lettera
che portava la calligrafia di suo padre.
“Per Eric”.
«Sei un Cacciatore» ripeté sua madre
ancora una volta.
*
La prima volta che si era trovato le mani piene di sangue aveva urlato.
Aveva urlato bestemmie e dannazioni, aveva odiato suo padre.
Guardava quel viso farsi sempre più pallido senza rendersi
conto che stava piangendo, senza rendersi conto che tremava come un
moccioso.
Tirò via il paletto e lo lanciò lontano.
Il sangue bruciava sulla sua pelle, il tanfo era nauseante e
neanche l'acqua sembrava lavarlo via.
Urlò ancora.
*
La seconda volta andò meglio.
*
La centesima volta lo incontrò.
*
Alla taverna di Briston non era difficile trovare qualche preda. Eric
passava due sere a settimana lì, quando era una settimana
particolarmente negativa, anche tre.
Le femmine erano più facili da attirare. Bastava fingere di
ricambiare i loro sguardi, bastava sorridere a propria volta e
arrossire quando dicevano che aveva un bel viso.
Poi veniva naturale uscire e andare dietro al vicolo, era semplice
lasciare che lo spingessero contro il muro. Tirare fuori il paletto e
affondarlo nel loro bel seno prosperoso era solo l'ultimo atto.
Quella sera era il turno di una moretta dagli occhi nerissimi, dalle
labbra rosse e dalla voce suadente.
Quando la vide contorcersi al suolo e poi smettere di dimenarsi si
avvicinò per riprendere la sua arma e fu allora che lo
sentì: un battito di mani, secco, a intervalli regolari, un
rumore sordo che ricordava in modo inquietante il dondolare di una
campana.
«Lascia che mi congratuli con te, ragazzo. La tua tecnica
è sublime.»
Alzò lo sguardo sul muro di mattoni grezzi alla sua destra e
strinse forte le dita sull'argento.
Occhi spenti eppure accecanti, pelle pallidissima e una corona informe
di capelli neri.
«Scendi da quel muro così ti faccio assaggiare la
mia tecnica sulla pelle, bestia.»
Si sarebbe aspettato la solita risata stridula, di quelle che gli
facevano rivoltare lo stomaco, perché quelli erano animali
arroganti e stupidi, troppo pieni di sé per capire quanto
pericolosa fosse la superbia.
Degni figli del loro padre.
«Sono diverse notti che ti guardo.» E invece quello
scese sul serio.
Non sorrise, non rise.
Fece solo pochi passi ed Eric serrò la mascella e le
falangi. «Sei troppo giovane per essere un Cacciatore,
ragazzo.»
«Non troppo per piantarti questo nel petto.»
«Allora fallo, lascia che mi goda lo spettacolo dalla prima
fila, Cacciatore.»
Ed Eric lo fece, si avventò con ferocia su di lui, lo
afferrò al collo e lo spinse a terra. Ghignò
vittorioso.
Il paletto brillò alla luce della luna, ma quando lo
piantò nel suo petto, Eric colpì solo il suolo.
Vuoto. La sua mano non stringeva nulla.
«Ma che-»
Poi fu solo un dolore alla schiena e il sapore ferroso del sangue in
bocca.
Fu solo una voce all'orecchio. «Sei troppo giovane,
ragazzino.»
Riuscì a trascinarsi fino a casa. Fu sua madre, come sempre,
a curargli la ferita alla schiena.
«Devi stare più attento, Eric. Poteva ucciderti
quell'animale.»
Tutto ciò che riusciva a chiedersi era perché non
l'avesse fatto.
*
Nonostante lo conoscesse ormai a memoria, capitava che durante il
giorno, quando si riposava sotto l'ombra di una quercia, Eric leggesse
il diario di suo padre, il diario di un Cacciatore.
Anche lui avrebbe dovuto iniziare a scriverne uno perché,
come aveva letto, era dovere di ogni Cacciatore far conoscere al suo
successore ciò che aveva imparato nella sua vita,
ciò che lo aveva aiutato nella sua missione, ciò
che aveva sbagliato così che potesse essere di monito a chi
lo avesse letto in futuro.
Suo padre scriveva che ogni cacciatore deve avere un successore.
“Ogni
Cacciatore che abbia un figlio maschio deve fare di
quel figlio maschio un Cacciatore. Colui che non avrà la
benedizione di una prole, dovrà saper scegliere un giovane
coraggioso a cui tramandare il suo compito. Così
è stato comandato da San Michele e così
dovrà sempre essere.”
Eric si disse che non avrebbe mai avuto figli, che non avrebbe mai
scritto un diario perché non l'avrebbe dovuto lasciare a
nessuno.
Diciotto anni. Era questa la data, al compimento del diciottesimo
compleanno, suo padre gli avrebbe consegnato quella scatola e gli
avrebbe insegnato davvero cosa voleva dire cacciare.
Ma suo padre era morto prima di quel momento e tutto ciò che
Eric sapeva di quel suo nuovo mondo erano frasi scritte in un diario e
in una lettera.
“Eric, figlio
mio, se leggerai queste parole vorrà
dire che non ho avuto modo di parlarti di persona.”
Così iniziava.
“So che saprai
rendermi orgoglioso di te.” E
così terminava.
Ma la frase che Eric leggeva e su cui ogni volta ingoiava un rospo di
rabbia era: “Sii
onorato della tua missione.”
Eric non cacciava perché glielo aveva detto un padre morto
in una lettera, o perché sua madre in lacrime gli aveva
consegnato una cassetta contenente uno spaventoso segreto.
Cacciava perché era l'unica cosa che sapesse fare, era
l'unica cosa che gli era stata insegnata.
Che fossero conigli, o alci, o bestie venute dall'inferno, non
importava.
Eric era solo un cacciatore, nulla di più.
Avrebbe passato la vita ad esserlo, e forse un giorno sarebbe diventato
una preda.
Un giorno lontano, pensò sotto l'ombra di una quercia.
*
Quel giorno arrivò prima del previsto.
*
Erano in due, due uomini.
Uno era il garzone di un barbiere, l'altro aveva l'aspetto di un
signorotto, ben vestito e tutto profumato.
Riuscì a scansare il gancio di uno colpendolo con un calcio
dritto allo stomaco. Si voltò per ritrovarsi le mani del
garzone che lo stringevano al collo.
I denti aguzzi scintillavano a pochi centimetri dalla sua faccia. Il
disgusto era così forte che avrebbe potuto vomitare.
I muscoli si tesero mentre gli tirava una testata.
L'altro alle sue spalle si era alzato e lo aveva spinto con il viso
contro il muro.
«Devi avere un buon sapore, Cacciatore... Non ne ho mai
assaggiato uno.»
Il paletto scivolò dall'avambraccio. Si voltò e
colpì la bestia dritto al cuore. I suoi occhi si sgranarono
e un urlo lasciò la sua gola.
«Sebastian! Lurido mortale!» Quando vide il garzone
scagliarsi contro di lui spinse via il corpo dell'altro animale e
lanciò il paletto contro il suo.
Un tonfo, un altro urlo.
Ora erano due i corpi a terra.
Poggiò le mani sulle ginocchia prendendo fiato. Era stato
uno sciocco a lasciarsi seguire da entrambi.
Non si era accorto del garzone, credendo fosse solo il signore ben
vestito la preda della serata.
Si accasciò al muro continuando a respirare, deciso a
recuperare la sua arma se nonché vide con la coda
dell'occhio una nuova ombra alla sua sinistra.
Scrutò il marciapiede spoglio illuminato dai fiochi
lampioni.
Non un suono, non un rumore.
Cercò qualcuno, qualcosa,
ma non trovò nessuno.
Quando tornò con gli occhi sui due corpi il suo cuore prese
a galoppare forte: il suo paletto d'argento non era più dove
lo aveva lasciato.
«È un'arma affascinante.» Riconobbe
all'istante quella voce e la figura nascosta dietro a una carrozza. Era
passato un pugno di anni dalla prima e unica volta in cui l'aveva
incontrato. «La maggior parte dei cacciatori usa legno di
frassino. Solo i membri di una Congrega hanno dei paletti d'argento, e
questo è alquanto particolare...»
Cercò di regolare il battito mentre guardava i suoi occhi
scorrere sul freddo metallo stretto fra le pallide dita.
Non aveva altro con sé a parte la sua arma, se quell'animale
lo avesse attaccato in quel momento sarebbe stata la fine.
«Ne conviene che tu sei uno di loro, dico bene,
ragazzino?» Lo guardò ed Eric si chiese se avesse
notato il fremito di paura che gli aveva attraversato la schiena.
Aveva capito quella prima sera che non era come gli altri, che forse
era più pericoloso. Pericoloso perché non
riusciva a capiva cosa gli passasse per la testa.
Quelle bestie erano facili da decifrare: bramavano sangue e
commettevano imprudenze e ingenuità quando si presentava
loro la possibilità di averne.
«Un giovane membro della congrega. Di quale? Sei uno delle
Tre Punte? O dei Fratelli della Fede?...» Le sue labbra
sottili si piegarono all'insù ed Eric deglutì.
«Hai perso la lingua o non sai minimamente di cosa sto
parlando?»
«No, è che non spreco parole con un animale come
te.»
Il coraggio del verbo
quando manca quello delle azioni, così
scriveva suo padre. Cercò di ricordare altri insegnamenti
lasciati sui fogli gialli, ma tutto ciò che riusciva a fare
era cercare di non respirare più forte.
«Mi credi un animale... È per questo che mi
cacci, giusto?» L'essere fece qualche passo verso di lui
facendo saltare nel palmo della mano il paletto. «Ma se fossi
io a cacciare te... Allora saresti tu l'animale, non è
così?»
Ormai gli era pericolosamente vicino. Non aveva armi, non aveva idee.
Era solo un ragazzino spaventato che malediva il giorno in cui sua
madre gli aveva mostrato quella cassa.
«Vuoi cacciarmi, quindi?» chiese e sentì
la sua stessa voce tremare. Anche l'altro se ne accorse e
ghignò appena.
Le spalle di Eric incontrarono il muro quando gli fu definitivamente di
fronte.
«Saresti una splendida preda, non lo metto in
dubbio.» Il freddo del paletto percorse la sua guancia, poi
il suo collo finché non lo sentì pungere contro
il petto. «Fa male, lo sai? Sentirlo entrare nella carne e
aprirti in due... Non è una fine piacevole... La vuoi
provare, Cacciatore?»
«Non ho paura di morire.»
Le sue labbra furono così vicine che avrebbe voluto urlare.
«Sì che ce l'hai.» Sentì il
suo fiato caldo contro la bocca e ingoiò un senso di
disgusto. «Riesco a sentirla, la tua paura.» Di
nuovo l'argento conto la guancia. «È
inebriante.»
Non riusciva a spostare lo sguardo dal suo, gelido eppure profondo come
l'oceano. Sapeva che quelli della sua razza potevano avere
capacità particolari, capacità per manipolare e
soggiogare gli umani. Si chiese se fosse per questo che non aveva
ancora cercato di spingerlo via. Forse non era paura, non era il
terrore a bloccargli gambe e braccia, era solo un trucco.
Lo era?
«Qual è il tuo nome, giovane Cacciatore?»
«Perché dovrei dirtelo?»
Provò a fingere un sorriso beffardo, non seppe se ci
riuscì, sentì solo il caldo di una mano
contrastare con il freddo del paletto. Sentì le sue dita
sfiorargli il viso e poi le labbra.
Il terrore crebbe.
«Perché stai per morire e voglio sapere su quale
lapide dovrò portare un fiore quando ricorrerà
l'anniversario di questa notte.»
In quell'istante pensò a sua madre, vide i suoi occhi in
lacrime e la solitudine della loro casa.
«I-io...»
Stava tremando? In realtà non lo voleva sapere.
«Dimmi il tuo nome e ti lascio andare.»
Non gli credette. Quei mostri non avevano umanità e quindi
neanche nobiltà. Non avrebbe mai mantenuto la parola. Lo
avrebbe solo deriso e poi lo avrebbe ucciso con il suo stesso paletto,
con il paletto di suo padre.
Cercò nel fondo delle viscere l'ultimo brandello di
coraggio. Si sporse in avanti fin quasi a sfiorargli le labbra e
sorrise: «Vai all'inferno, mostro.»
Ciò che successe dopo sembrò ancora
più irreale.
Il paletto non gli perforò il petto, ma gli
riempì il palmo.
L'essere si allontanò di qualche passo con un ghigno
indecifrabile.
Eric si guardò palesemente confuso la mano di nuovo armata.
«Adam.» Quando parlò di nuovo
tornò con lo sguardo su di lui. «Nel caso volessi
sapere il nome di chi ti ha graziato, giovane Cacciatore.»
Avrebbe voluto rispondere qualcosa, ringhiargli che erano tutti uguali,
che non avevano nomi, erano solo bestie infernali da rispedire al
mittente.
Ma non disse nulla, lo guardò attonito finché non
lo vide sparire nelle pieghe della notte.
*
La Congrega dei Figli della Neve.
Sull'ultima pagina del diario, Eric trovò un simbolo. Non
gli aveva dato importanza fino a quella notte, finché gli
occhi di Adam non lo avevano inchiodato al muro e nuove
verità non gli avevano violato le orecchie.
Non c'era scritto nulla sulla Congrega né sulle altre, ma il
simbolo di un fiocco di neve ne richiamava il nome.
Scoprì il resto grazie a Padre Jonathan, che lo aveva
cercato un mattino di primavera.
Aveva bussato alla sua porta, coperto da un mantello marrone, con il
viso tondo e gentile e una bibbia stretta nella mano.
Sua madre aveva avuto le lacrime sospese sulle ciglia mentre lo faceva
entrare in casa.
Eric era accanto al fuoco a scuoiare l'ennesima lepre.
«Sei il ritratto di tuo padre.» Fu la prima frase
che gli rivolse.
«Perché adesso?» In fondo erano ormai
sei anni che era un cacciatore, eppure quell'uomo di chiesa con mille
segreti da svelargli aveva bussato con più di un lustro di
ritardo.
«Perché adesso è necessario che tu
sappia tutto, Eric.»
«So abbastanza, e ora puoi anche andartene, prete.»
Il coltello si era conficcato nel legno del tavolo con ferocia eppure
Padre Jonathan non aveva mostrato turbamento.
«Identico a lui non solo nell'aspetto...» Aveva
sorriso, aveva fatto un cenno con il capo. «La Congrega dei
Figli della Neve. È il nobile ordine a cui apparteneva tuo
padre.»
«Di che stai parlando?» La voce di Adam
risuonò nella sua testa, e si sentì nudo e
spaventato a pensare che quella bestia immonda conoscesse la sua vita
meglio di quanto non la conoscesse lui stesso.
«Dieci Congreghe Sacre, dieci ordini a cui giurano
fedeltà tutti i
cacciatori sparsi per questo mondo. Dieci Congreghe, perché
dieci erano gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele al termine
della biblica lotta.»
Assorbì ogni parola come fosse pece che gli scendeva sulla
pelle, ardeva e non andava via.
«Perché non c'è scritto nel diario?
Perché mio padre-»
«Lui lasciò la Congrega prima che
nascesti.»
Sentì il pianto sommesso di sua madre, ma non
riuscì a spostare lo sguardo dal viso del prete, da quel
viso che sembrava sereno in maniera inquietante.
«Perché?» La domanda era debole e
incerta, eppure abbandonò le sue labbra comunque.
«Perché essere un confratello della Congrega
è un onore non privo di obblighi.»
«Quali obblighi?»
Padre Jonathan si alzò dalla sedia e prese la sua bibbia.
«Tuo padre era un grande Cacciatore, uno dei più
abili e dei più coraggiosi e-»
«Quali obblighi? Perché sei qui? Cosa devo sapere
sul serio?» ringhiò sbattendo le mani sul tavolo.
Il pianto di sua madre si fermò, ma forse lo aveva solo
soffocato con una mano.
Il religioso prese un respiro e annuì. «Dieci sono
gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele come dieci sono quelli
che asciugarono le lacrime di Lucifero. Dieci Congreghe per dieci
Casate. Un Mastro per un Sire.»
Non capiva, era un fiume informe di notizie che non riusciva ad
assimilare. Non fu necessario porre domande, le risposte arrivarono
tutte.
«Tuo padre era un Mastro, il Mastro dei Figli della Neve.
Abbandonò il suo compito per crescerti, per proteggerti
dalla verità finché non saresti stato pronto ad
affrontarla. Purtroppo il destino ha voluto che non fosse lui a
educarti a questa missione, ma è giunto il momento che tu
sappia che coloro che hai affrontato finora sono niente rispetto ai
demoni che li guidano. E in cima a tutti ci sono i Sire delle Casate di
Lucifero.»
«Un Mastro per un Sire...» sospirò
fissando il tavolo. «Che vuol dire?»
Quando tornò a guardare Padre Jonathan vi trovò
un sorriso.
«Significa che la tua intera vita sarà devota alla
ricerca e all'uccisione di quel Sire e solo a quel punto l'intera
Casata sarà sconfitta. Tuo padre non riuscì a
tenere sulle spalle il suo fardello e non gliene faccio una colpa, ma
tu, Eric, hai il dovere di adempiere a quel compito eluso non per paura
ma per troppo amore. Hai il dovere di trovare quel Sire prima che sia
lui a trovare te. Ecco perché sono qui, figliolo.»
Il suo cuore iniziò a battere a un ritmo stranamente
regolare, avvertì i respiri scendere profondi fin dentro
alle ossa e poi abbandonare la sua gola carichi di certezze.
Una, la più forte di tutte lasciò le sue labbra
con ironica sicurezza. «Sei in ritardo, prete.»
*
Eric iniziò a spuntare paletti di frassino,
iniziò a nasconderli negli stivali, nella cintura, sotto al
cuscino, nella testa dell'ascia con cui spaccava la legna.
Iniziò ad ascoltare i passi silenziosi che lo seguivano
quando andava a caccia.
Inizio a sentire il profumo della Morte ogni volta che gli aleggiava
intorno.
Iniziò sempre più a bramare il tramonto.
Sapeva che i passi si sarebbero presto arrestati, che la Morte lo
avrebbe fronteggiato spoglia di una qualunque maschera d'ombra.
Sapeva che presto, una di quelle notti, si sarebbe ritrovato di fronte
di nuovo quegli occhi.
*
E la notte giunse.
Giunse precisamente un anno dopo la sua grazia.
*
Stava tornando verso casa. Mancava poco all'alba e il cielo di un tenue
viola era maestosamente limpido sulla sua testa.
Una schiera di alberi spogli costeggiava il sentiero che percorreva
ormai da anni, il sentiero che divideva la sua dimora dal villaggio, la
sua pace dal suo inferno.
Sua madre lo stava aspettando con le pezze immerse nell'acqua calda,
con le radici di malva e il fondo di un vecchio whisky.
La spalla bruciava, bruciava terribilmente e forse quel whisky sarebbe
stato costretto a buttarlo giù tutto.
Si scostò la maglia e guardò stizzito lo squarcio
che tagliava di netto la sua pelle, il sangue si era arrestato ma
ciò non voleva dire che il peggio fosse passato.
Un'infezione era possibile e curarla avrebbe portato via denaro e tempo
e lui non voleva restare una sola notte nel suo letto.
Una notte senza caccia era una notte non vissuta.
Si era spesso chiesto anche da bambino perché non bramasse
il sonno come gli altri, perché dormire sembrava
così superfluo, perché gli bastava chiudere poche
ore gli occhi anche su una scomoda panca di legno per sentirsi
rigenerato.
Perché era un Cacciatore.
La risposta era giunta anni più tardi fra le pagine di un
vecchio diario.
Ricoprì la ferita e distese i muscoli del collo. Quei cinque
animali lo avevano letteralmente sfinito.
Aveva trovato sempre più utile l'utilizzo dei paletti di
frassino: erano leggeri, maneggevoli e soprattutto non lo obbligavano a
recuperare l'arma ogni volta.
Fece un passo, poi un altro e quando udì lo spezzarsi di un
ramo alle sue spalle si fermò.
Prese un profondo respiro e decise di non badare alla serata piuttosto
sfavorevole, qualcosa nella sua testa gli suggeriva che era per questo
che si era fatto vivo solo allora.
«Sei ferito.» All'udire la sua voce ebbe un breve
brivido. Era davvero lì.
«Sono i rischi del mestiere» sibilò
voltandosi lentamente. «Ci si può far
male.»
Sembrava non fosse passato un giorno dall'ultima volta. Indossava la
stessa camicia candida, la stessa giacca di un rosso troppo acceso, gli
stessi pantaloni nerissimi e la stessa immutata luce negli occhi.
Per quanto pochi fossero gli anni scivolati via da quando si erano
incontrati la prima volta, Eric sentiva di avere poco di quel ragazzino
arrogante che aveva creduto di ucciderlo al primo colpo, ancora meno di
quello che un anno prima si era lasciato mettere con le spalle al muro.
Aveva una leggera barba adesso, i capelli più lunghi e
qualche ferita di più a ricordargli cosa fosse.
«Ho notato che hai abbandonato l'argento... È un
vero peccato.» Seguì guardingo i suoi passi che lo
portavano ad avvicinarsi a lui.
«Legno o argento non ha importanza, entrambi ti entrano nella
carne e ti aprono in due... Non è così che hai
detto?»
Sorrise. Un sorriso debole e appena accennato. Un sorriso che sapeva
essere terrificante nella sua leggerezza.
«A dire il vero non so cosa si provi.»
«Non ancora.»
Stavolta il sorriso si allargò ed Eric avvertì il
sangue pompare nei muscoli forte e deciso.
Era pronto.
«Credi davvero di potermi uccidere, Cacciatore?»
Ormai erano solo pochi metri che li dividevano.
«Perché non dovrei? Forse perché sei un
Sire?»
Non scorse l'ombra di alcuna sorpresa sul suo viso.
«Oh, bene... facciamo progressi. È stato il tuo
Mastro a informarti?»
La sua gola lasciò andare una risata che risuonò
beffarda alle sue stesse orecchie.
«Mi segui come un'ombra da mesi e ancora non l'hai
capito.»
Un solo unico passo. L'ennesimo sorriso. «Tu sei un Mastro,
lo so. Il figlio di Victor.»
Eric, letteralmente smise di respirare. Tutta la sicurezza
defluì dal suo corpo come il colorito dalla pelle, era
più che certo che in quel momento lui e Adam avessero
praticamente lo stesso viso pallido.
«Tu sai-?» La domanda gli morì in gola
non appena le dita di quella bestia si avvolsero attorno al suo collo.
Sentì il battito aumentare repentino e la testa far male.
«Sei lo stesso ragazzino di un anno fa, Eric, lo stesso
ragazzino spaventato e debole.» L'aria mancava sempre di
più e si ritrovò ad accasciarsi sulle sue stesse
ginocchia. Le mani strette attorno a quel polso e gli occhi a
implorare. Pietà, morte.
Non sapeva cosa vi giacesse realmente sul fondo.
«Sei lo stesso ragazzino per cui Victor abbandonò
la sua battaglia venti anni fa.» Poi l'aria tornò
a riempirgli i polmoni quando si sentì gettare senza troppi
complimenti a terra. Tossì tastandosi la gola dolente e
seguì con lo sguardo ormai annebbiato i suoi passi.
«Come avrei potuto non riconoscere il figlio di Victor? Sei
la sua copia, Eric.»
A sentirgli pronunciare il suo nome quel breve respiro appena ritrovato
si smorzò.
«Come...»
Come fai a conoscere il
mio nome? Come sai chi sono?
Padre Jonathan gli aveva detto che suo padre aveva abbandonato l'ordine
e la sua stessa patria per poterlo crescere al sicuro da quel mondo di
tenebre. Nessuno, neanche i suoi confratelli, sapeva dove fosse e che
vita stesse vivendo ora. Nessuno sapeva avesse un figlio di nome Eric.
Ma Adam sapeva. Sapeva chi era, l'aveva sempre saputo anche quella
prima notte.
Perché mi hai
lasciato vivere?
Ogni domanda restò muta ad aleggiare nel suo sguardo.
Adam le lesse tutte, Eric lo capì dal sorriso sulle sue
labbra.
«Avevi solo un paio di anni. Eri piccolo e gracile e giocavi
sulle sponde di un lago vicino casa tua...»
Il cuore gli pulsava forte nelle tempie, doloroso e incontrollato
mentre stringeva nel pugno della mano la terra umida su cui si
ritrovava in ginocchio. Adam gli si avvicinò e si
chinò. «Victor mi pregò, mi
supplicò di non farti del male. Non lo avevo mai visto
supplicare nessuno, non Victor, non il Mastro della Congrega dei Figli
della Neve, eppure ti teneva stretto fra le braccia con le lacrime a
bagnargli il volto... Patetico.»
«Non è vero» sospirò cercando
nelle sua memoria quegli occhi, quel viso, quel momento. Cercando senza
trovarlo, il pianto di suo padre.
Suo padre non aveva mai pianto, Eric non lo aveva mai visto piangere
perché piangere non era da uomini, era da deboli. Ricordava
la forza di suo padre, il coraggio, la severità ma anche la
pazienza con cui gli aveva insegnato a caricare e pulire un fucile, a
saper scegliere un buon punto per la vedetta e il momento perfetto per
scagliare il colpo.
No, quell'essere mentiva, stava impiantando semi malati nella sua testa.
Non era vero, non poteva essere vero.
Adam scosse la testa e si alzò dandogli le spalle.
«Sei degno di Victor, in te scorre lo stesso sangue da
codardo, Eric.»
«Non osare neanche pronunciare il suo nome!»
ringhiò cercando la forza di mettersi in piedi. Ci
riuscì traballando sulle sue stesse gambe. «Se mio
padre non è riuscito a ucciderti, lurida bestia, stai pur
certo che suo figlio completerà l'opera.»
Ancora gli dava la schiena, con i capelli a sfiorargli le spalle che si
muovevano appena. L'ombra della notte andava sparendo e ormai l'alba
era prossima.
Eric sapeva cosa accadeva quando sorgeva il sole, era conscio che i
raggi del giorno avevano lo stesso effetto di un paletto, e allora
perché...
«Pensava fossi lì per te...» Poi si
voltò e un primo raggio gli illuminò il volto.
«Non era così, ma ora sì, ora sono qui
per te, Eric.»
Eric corrucciò la fronte quasi non prestando più
attenzione alle sue parole. Guardò l'arancio scaldargli la
pelle e far diventare i suoi occhi pericolose gemme chiare.
Perché non bruciava? Perché non si riduceva in
polvere urlando come la bestia che era?
Chi sei?
Diede uno sguardo confuso al sole dietro le colline e poi
tornò di nuovo al suo volto.
Non lo trovò.
*
Era tornato all'alba tremando, con le mani e gli abiti sporchi di
terra, con la vita che quasi aveva abbandonato la sua carne.
Si era seduto al tavolo e aveva bisbigliato un nome: Adam.
Sua madre lo aveva guardato e aveva abbassato il capo.
«È tornato.»
Eric non sapeva da dove nacque quel sorriso. «Non
è mai andato via.»
Aveva continuato a tremare finché le braccia magre non gli
strinsero le spalle.
Poggiò la testa contro il suo petto e lasciò che
gli accarezzasse i capelli come faceva quando era un bambino.
Un bambino piccolo e
gracile.
Avrebbe voluto piangere; sua madre lo fece per lui.
*
Sotto la pioggia di un venerdì di gennaio, Eric
poggiò un fiore rosso sulla croce di legno.
Non versò una lacrima.
Guardò l'altra croce di faggio accanto, più
vecchia, più malconcia e deglutì mentre l'acqua
gli bagnava i capelli e i vestiti.
«Lo prenderò, padre.»
Non aveva più nulla da proteggere, adesso. Aveva solo
qualcuno da distruggere.
Aveva solo una missione.
«Lo prenderò.»
*
Due occhi guardarono il giovane posare il fiore sulla croce.
Ascoltò le sue parole.
Le labbra sorrisero.
***
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