Spike
Fuori
pioveva. Come sempre, del resto. Vivere nel Regno Unito significava
avere a che fare con la pioggia quasi giornalmente, tutto l'anno.
Ciò
che era
veramente strano, però, era che stesse piovendo dentro di lui;
nonostante seguisse con gli occhi i tergicristalli che ondeggiavano
sul parabrezza, sperando che spazzassero via dalla sua anima tutto
quello schifo di malumore e facessero ritornare un po' di sole, non
riusciva a provare un minimo di sollievo. Lanciò
un'occhiata
fugace al sedile del passeggero: Leah era lì, con i pugni stretti
sulle cosce e gli occhi castani che guardavano l'asfalto scorrere
veloce fuori dal finestrino.
«Ti
prego, dimmi di nuovo perchè devi
proprio andarci» Spike
ingranò nervosamente
la terza mentre la macchina saliva di giri. Cercava di andare piano,
il più piano
possibile, per godersi appieno quegli ultimi istanti con lei.
Leah
sbuffò guardando
il tettuccio di quella Mini scassata: «È la
mia grande opportunità»
«Questo
me l'hai già detto
un sacco di volte».
Spike parcheggiò la
macchina vicino al Terminal 4. «Ma
perchè proprio
Lione?».
La
ragazza sbuffò di
nuovo e tentò di
scendere dall'auto, ma Spike la bloccò
per un
polso; Leah arricciò le
labbra, indispettita: «Perchè
è
l'unica
università dove
posso veramente specializzarmi in ciò
che mi
piace di più».
Lo
guardava con gli occhi che gli urlavano spazientiti: “Te
l'ho già spiegato
un sacco di volte, perchè ti
ostini a non capire?”.
Ma lì non
era questione di non capire; Lione non era attaccata a Londra. Lione
era in Francia, lontano, oltre il mare, giù
a sud.
«E
poi puoi venire a trovarmi tutte le volte che vuoi! Basta prendere
l'aereo» gli
aveva urlato quelle parole mentre scendeva dall'abitacolo e andava a
prendersi la valigia nel bagagliaio.
Spike
guardò i
suoi capelli color mogano e lisci svolazzare nell'aria umida e si
sfregò le
palpebre: sei
tu quella che non capisce.
Scese nella pioggia a bagnarsi la chioma castana scura, dopo aver
picchiato i palmi sul volante: «Qui
non è questione
di prendere l'aereo per passare la Manica»
«Senti»
Leah sbuffò
caricandosi
in spalla lo zaino pesante «se
sei diventato improvvisamente aerofobico, sappi che puoi prendere il
treno».
Fece
per incamminarsi verso l'entrata del terminal, ma Spike le vomitò
addosso
tutta la rabbia che aveva accumulato in corpo nelle tre settimane
precedenti: «Porca
puttana, non fare orecchie da mercante e ascoltami! Lo sai che non
sono aerofobico, non inventarti scusanti del cazzo».
Si bloccò per
un attimo, prendendo fiato e preparandosi psicologicamente per le
parole importanti che stava per pronunciare: «Non
voglio che tu vada lontana da me».
Leah
lo guardò dritto
negli occhi blu sotto la pioggia battente: «Tu
cosa provi per me?».
Spike
si avvicinò a
lei, le prese la mano e se la portò
al
cuore: «Ti
amo. Non dimenticarlo».
Con il naso le accarezzò il
profilo e le baciò le
labbra bagnate di pioggia.
Leah
si ritrasse riluttante: «E
allora, proprio perchè mi
ami, dovresti lasciarmi fare ciò
che mi
piace di più. E poi sono solo sei mesi; passeranno in fretta».
Spike
annuì in
silenzio, mentre il suo sguardo cadeva verso il basso, sulle loro
scarpe; i suoi stivali da cowboy e quelle scarpine verde scuro che
tanto gli piacevano. Era l'ultima volta che li avrebbe visti insieme;
erano la cosa più carina
da osservare quando si alzava per andare in bagno dopo aver fatto
l'amore con lei. Guardava i piedi del letto e le scarpe verdi di Leah
erano sempre, puntualmente, appoggiate sopra il gambale dei suoi
stivali. Per un secondo, la vista gli si appannò
e fece
fatica a prendere fiato: «Mi
manchi già adesso,
che sei ancora accanto a me».
Leah
sorrise; il suo ragazzo voleva apparire sempre sicuro di sè
e
spigliato, ma sotto nascondeva un animo sorprendentemente tenero. Lo
strinse forte ed immerse il naso nella sua guancia profumata di
dopobarba: «Anche
tu mi mancherai tanto. Sei davvero la cosa più
importante
che ho».
Si distaccò un
attimo per guardarlo negli occhi, quei splendidi occhi blu che
l'avevano ipnotizzata dal primo istante che l'aveva visto; sentì
le
proprie corde vocali annodarsi: «Ti
amo, Jonathan».
Jonathan...
solo sua madre e sua sorella lo chiamavano ancora così; e,
naturalmente, anche Leah nei momenti di intimità.
E solo dio sapeva perchè,
quando lei pronunciava il suo nome di battesimo, gli partiva il cuore
a mille. La strinse di nuovo al petto, baciandola con passione e
cercando di nascondere una lacrima che, furtiva, gli era scivolata
fuori dalla palpebra chiusa, sotto una ciocca ribelle che scappava
dalla bandana blu scuro. Con la punta della lingua giocò
con lei
e le accarezzò le
labbra, per imprimere al meglio nella propria memoria quel sapore che
gli sarebbe mancato troppo a lungo.
Poi...
Poi
lei si staccò dal
suo viso e lo prese per mano in silenzio, trascinandolo dentro
l'aeroporto. Spike assistiva al distacco come se fosse stato
rinchiuso in una bolla di sapone; sembrava che lei si muovesse a
rallentatore, in silenzio, ma nulla poteva fermare quell'inesorabile
allontanamento. Solo quando lei lo salutò
da
lontano sventolando il passaporto, si rese conto di essere veramente
solo. Avrebbe voluto bloccarla, impedirle in tutti i modi di prendere
l'aereo; oppure gli sarebbe piaciuto comprare su due piedi un
biglietto di sola andata per il volo per Lione, magari sul sedile di
fianco a lei. Sì,
ma con che soldi?
Sospirò
abbassando
il capo, sentendo la consapevolezza gravargli sulle spalle. Sei
solo; hai gli amici, ma ti manca lei.
Aveva chiesto a Leah di mollarlo prima di partire; sarebbe stato meno
doloroso che vivere a distanza. Ma lei si era rifiutata, gli aveva
detto che lo amava con tutto il cuore e che avrebbe preferito che lui
ci fosse sempre stato, anche se per sei mesi l'avrebbe solo sentito
per telefono. Guardò il
tabellone dei voli in partenza: l'aeromobile Air France per Lione
saliva verso l'alto troppo in fretta. She's
gone...
Diede
un calcio ad un'etichetta persa da qualche passeggero frettoloso e si
incamminò verso
la Mini con lo sguardo perso nel vuoto. Era così
fuori
dal mondo che urtò un
uomo d'affari senza volerlo, facendogli rovesciare a terra una
cartelletta piena di documenti che stringeva gelosamente sotto il
braccio. L'uomo, calvo e grassoccio, gli diede del drogato e del
tossico, dato
che con quei capelli e quella faccia non puoi essere altro che uno di
loro; Spike
nemmeno si girò per
mandarlo al diavolo, al contrario, mantenendo gli occhi blu fissi
sulle piastrelle, si scusò in
modo molto timido e lo aiutò a
raggruppare i fogli in fretta e furia. Guardò
l'uomo
sparire nella folla borbottando, seguendo con le sue pupille vuote
l'oscillare ritmico dell'impermeabile che indossava, passando rasente
la libreria del Terminal 4. E lì lo
vide, che beffardo lo osservava da dietro il vetro, con la sua
copertina candida decorata con disegni bimbeschi. Quel libro che con
le sue frasi ad effetto aveva ammaliato la sua Leah e la stava
allontanando da lui; guarda caso, l'autore dava anche il nome
all'aeroporto dove lei, un paio d'ore dopo, sarebbe atterrata.
Antoine
De Saint-Exupéry:
Il Piccolo Principe.
Lo
stronzo francese che le aveva occupato il cervello.
Senza
dare nell'occhio, entrò nella
libreria, fece un giro fra gli scaffali con le mani in tasca, poi,
molto discretamente, rubò una
copia di quel libro terribile. Salì
in
macchina ed uscì dal
parcheggio dell'aeroporto, diretto verso
un posto dove nessuno l'avrebbe mai visto.
Passati circa dieci minuti svoltò
in una
piccola stradina poco dopo Hounslow West; posteggiò
la Mini
attaccata al marciapiede e si mise in mezzo alla strada. Con la
pioggia che gli appiccicava i capelli alla faccia, estrasse
dall'interno della giacca il libro, sentendo la rabbia montare in
lui. Aprì una
pagina a caso e lesse la prima frase che vide: "Se vuoi un
amico, addomesticami".
Le
lacrime gli salirono inesorabilmente agli occhi e le viscere gli si
annodarono: con
tutto quello che potevo trovare, proprio la prima frase che lei mi ha
detto per conquistarmi dovevo leggere?
Gettò
il
libro a terra e corse nell'abitacolo della Mini a prendere le sue
Lucky Strike e l'accendino; era confuso, solo, amareggiato, triste ed
incazzato. Doveva assolutamente fumare. Diede un paio di colpi a
vuoto, poi la pietra focaia scintillò
ed
accese una debole fiammella arancio; Spike diede due aspirate nervose
dal filtro, mordendosi le labbra ogni volta, prima di espirare il
fumo grigio in una lunga nuvola, e sentendo il sapore salato delle
proprie lacrime mescolarsi a quello della pioggia. Fissò
il
libro per un'ultima volta con gli occhi appannati, poi, stringendo la
sigaretta fra gli incisivi, si inginocchiò
ed
accese l'accendino. Fortunatamente
questa merda non è ancora
inzuppata. Lentamente,
le pagine presero fuoco, una dopo l'altra. Stette per un attimo a
guardare l'inchiostro sciogliersi nell'umidità,
poi accese il motore e tornò al
suo appartamento, dove si scaraventò
sul
divano e si addormentò.
Sinceramente
non so perchè mi sia messa a scrivere una nuova storia; come potete
vedere, può essere sia un capitolo autoconclusivo, così, solo
perchè avevo voglia di animare un po' Spike Gray, oppure può essere
benissimo una storia che può andare avanti con altri capitoli. Non
saranno lunghi come al mio solito (credo).
Se
state leggendo queste poche righe, vi ringrazio; se volete lasciare
una recensione, vi ringrazio ancor di più. Bella o brutta che sia
non ha importanza; ciò che è veramente importante è che voi mi
diate qualche consiglio per migliorarmi.
Se
la storia andrà avanti, conoscerete meglio il mondo dei Quireboys (e
credo che ci sarà anche un cameo di Tyla... d'altra parte, nella
vita reale, lui e Spike sono molto amici), sennò... va bene così.
Questa
storia è stata ispirata essenzialmente da due persone: la prima ha
ispirato il personaggio di Leah (un uomo... che qui è diventato una
donna; uau) e solo Twin potrebbe capire a chi mi riferisco; la
seconda è, ovviamente, Spike Gray con il quale (per colpa del mio
ragazzo) ho un autografo e una foto in sospeso.
Vediamo
un po' come va a finire... see you soon (spero)
Ellie
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