Jean osservò il corpo martoriato del proprio migliore
amico bruciare in mezzo a decine di altri corpi.
'Siamo
fortunati.', mormorò Connie, sistemandosi la benda attorno
alla bocca. 'Se Marco sapesse che siamo vivi, non ce ne vorrebbe.'
Jean
annuì distrattamente. Non era nuovo alle violenze, ai
cadaveri, ai bubboni, alla mano nera che si portava via i tuoi cari;
nessuno di loro lo era, in quel periodo, ma non avrebbe mai pensato
che la peste si sarebbe portata via anche Marco, Marco che era sempre
sorridente e allegro, che cercava di porre fine alle loro monellate.
Marco
che era morto a soli undici anni.
Jean
strinse i denti, sentendo le lacrime salirgli agli occhi. Aveva
impresso davanti agli occhi il momento in cui uno dei pochi dottori
rimasti vivi in città, il tedesco Dottor Jaeger, aveva
adagiato Marco su uno dei tavoli dell'improvvisato ospedale. Era
febbricitante, e quando il Dr. Jaeger aveva spostato il sudario che
Marco aveva iniziato a portare sul volto da qualche giorno a quella
parte, rivelando le tumefazioni della peste, Jean era svenuto.
Al
suo risveglio si trovava nella casa di Antonio, l'uomo che li aveva
presi sotto la propria protezione da che Jean avesse memoria. Connie
piangeva in un angolo vicino al fuoco.
'Gli
ha tagliato la faccia...', aveva singhiozzato. 'Quel diavolo di
dottore gli ha infilato qualcosa nel braccio e gli ha tagliato la
faccia...'
'Sta
zitto, Connie.', lo aveva rimbeccato Sasha, sconvolta. 'Tu e la tua
maledetta lingua da inglese.'
Jean
era rimasto sdraiato, lo sguardo rivolto al soffitto, cercando di non
pensare al volto di Marco distrutto dalla peste, al volto di Marco
che si divideva a metà.
Non
ci era riuscito.
*
'Jean,
tu hai idea di quanto sia cinquantamila?'
Jean
appoggiò i mattoni bianchi accanto ai recipienti di
calcestruzzo e guardò Connie, asciugandosi il sudore sulla
fronte.
'No.',
rispose sincero. 'Perchè me lo chiedi?'
'Ho
sentito qualcuno dire che per la peste sono morte cinquantamila
persone.', affermò Connie. 'Dev'essere un sacco.'
Davanti
agli occhi di Jean si formò l'immagine delle pire che avevano
illuminato a giorno il sestiere anche nelle ore più buie della notte, fino a qualche settimana prima. La cenere cadeva ancora, più
lenta e rada in quel momento, ma cadeva. Fu assalito da un pensiero
improvviso, malato.
(Stiamo
respirando cadaveri.)
'Non
mi piacciono questi discorsi, Connie.', esclamò. Lui e Connie,
come gran parte dei ragazzini ancora vivi del sestiere di Dorsoduro,
erano stati impiegati per la costruzione della Chiesa del Redentore,
nella Giudecca, chiesa che secondo il Doge sarebbe stata un
ringraziamento a Dio per aver liberato Venezia dalla peste.
(Dovremmo
ringraziare Dio anche dei cinquantamila morti.)
Un
nitrito e l'avvicinarsi di una carrozza tolse a Connie la possibilità
di replicare; il carretto di un cerusico si era fermato a pochi metri
da loro, e da esso scese il Dr. Jaeger, che andò a sistemarsi
sul volto la maschera tipica dei cerusici, atto ad evitare che
venissero contagiati dalle malattie su cui andavano ad operare. Il
dottore era un uomo diplomato e istruito, ma questo non gli impediva
di sporcarsi le mani con strumenti chirurgici per il bene dei propri
concittadini. I lavori vennero interrotti mentre il Dr. Jaeger apriva
i bancali del carretto e vi sistemava sopra le erbe, le fiale e gli
aghi che erano la sua arma.
'Andiamo,
Jean.'.
Connie
si avviò prima di lui verso il carretto del cerusico. Jean lo
seguì poco dopo, moscio e poco incline ad avvicinarsi all'uomo
che, per quanto fosse meritevole di aver salvato molti di loro era
anche colpevole della morte di Marco.
(Era
un ragazzo così buono.)
'Altro
che Chiesa del Redentore, dottore, dovrebbero intitolare a voi questa
chiesa!'
Il
dottor Jaeger conservava poco del suo originale accento germanico; si
era trasferito a Venezia da molti anni, ormai, e aveva preso moglie
proprio a Venezia. Sorrise all'uomo che aveva parlato,
controllandogli gli occhi con un vetro speciale.
'Esagerate,
Mastro Hannes.', sorrise. 'Faccio solo il mio dovere.'
Jean
sentì il sangue ribollirgli nelle vene. 'È vostro
dovere tagliare a metà giovani innocenti, dottor Jaeger?'
Seguirono
lunghi attimi di imbarazzante, attonito silenzio; attimi in cui Jean,
per quanto in imbarazzo, non riuscì a pentirsi dell'aver
urlato quella frase davanti a tutti coloro che lo stavano fissando.
Il
dottor Jaeger si alzò in piedi e si levò la maschera
per osservarlo meglio. Jean arrossì.
'Tu
sei uno dei protetti di De Magianis, non è così?'
'E
lei è un assassino.'
Qualcuno
mormorò parole di sdegno; il dottore fece un passo avanti e
alzò una mano. Jean si ritrasse istintivamente, convinto che
l'uomo gli avrebbe mollato un ceffone per intimargli di tacere.
La
mano del dottor Jaeger si posò tranquilla e amorevole sulla
sua testa.
Jean
rimase immobile mentre il dottore si abbassava per poterlo guardare
negli occhi.
'Dimmi,
qual è il tuo nome?'
'...Jean.'
'Jean,
tu sai chi siano i tuoi genitori?'
Jean
ci pensò su un attimo. Di suo padre non sapeva quasi niente,
mentre sua madre era morta quando lui era molto, molto piccolo. 'No,
dottor Jaeger.'
'E
sei consapevole di quanta gente quest'epidemia si sia portata via?'
Jean
ricordò le parole di Connie. 'Cinquantamila persone.', ripeté,
nonostante non avesse la minima idea della reale portata di quel
numero.
Il
dottor Jaeger annuì. 'Circa cinquantamila, sì. Un terzo
degli abitanti della laguna. Compresa mia moglie Carla.'
Jean
rabbrividì all'improvviso, guardando verso il carretto del
dottore. Non conosceva Carla Jaeger, ma suo figlio, Eren, era uno
scapestrato ragazzino coi capelli scuri che in genere accompagnava il
padre nelle sue visite, approfittandone per scappare e andare a fare
a botte con i ragazzini delle calle. Più di una volta Jean e
Eren si erano picchiati per il semplice gusto di farlo, o si erano
sfidati tra le grida e gli applausi degli altri ragazzi.
A
Jean venne in mente solo in quel momento che quel giorno Eren non era
sceso dal carretto, non aveva aiutato il padre a sistemare i
medicinali per poi correre via ridendo. Si voltò verso il
dottore.
'Dottor
Jaeger, Eren...'
'Eren
sta bene. È a casa, a prendersi cura di Mikasa. Sai chi è
Mikasa?'
A
Jean quel nome suonò esotico, il più strano che avesse
mai sentito. 'No.'
'Mikasa
è figlia di un mio caro amico e di una donna proveniente dalla
lontana Asia. Entrambi i suoi genitori sono morti, vittime della
peste. Mikasa è sotto la mia custodia, ora. È un
orfana, come lo sei tu, come lo era la persona che immagino tu mi
stia incolpando di avere ucciso.', a questo punto, il dottor Jeager
si alzò in piedi e alzò la voce. 'In queste ore buie
dobbiamo rimanere uniti. Io ho potuto offrire alloggio a una bambina,
ma molti di noi si trovano spaesati, soli, abbandonati. Dobbiamo
avvicinarci e saperci perdonare.'
Dette
queste parole, il dottor Jaeger rivolse a Jean un ultimo sorriso, per
poi tornare al suo lavoro. Quando fu il suo turno di far controllare
al medico che il suo corpo non portasse addosso i sintomi della morte
nera, Jean rimase in silenzio; fu Grisha Jaeger a prendere parola.
'Jean
è un nome francese. Hai origini francesi, Jean?'
Lui
annuì, poi scosse la testa. 'Mia madre mi raccontava di mio
padre, un commerciante di vini di Marsiglia. Lei era di una città
chiamata Monaco di Baviera. Fu lui a portare me e la mamma qui a
Venezia, per poi abbandonarci. Aveva già un'altra famiglia.'
Il
dottor Jaeger annuì. 'Capisco. Non dev'essere stato facile per
la tua mamma. Hai un nome molto religioso, sai? Jean significa 'Dio è
grazioso' in francese. Sei cristiano, Jean?'
(Non
più.)
'Mia
madre lo era molto.', rispose sinceramente. Aveva ricordi molto vaghi
di lei; il profumo dei suoi capelli, le sue mani che ripetevano il
gesto della croce, le lacrime quando parlava dell'uomo che aveva
amato.
'Allora,',
concluse Grisha. 'Che ne dici se ti trovassi un cognome? È
importante averne uno, sai? Ti da un senso di appartenenza. Che ne
dici di Krishtein? Significa “cristiano” in tedesco.'
E
per quanto Marco stesse ancora bruciando tra la cenere e nella sua
anima, Jean si sentì per qualche attimo felice.