I close my eyes and see pretty
colors
Dietro le quinte
Mark tampona il proprio sudore con un piccolo asciugamano.
“Non so se l’avete
notato, ma là fuori c’è un tavolo con un sacco di gadgets…
Se potete, dateci un’occhiata; tra poco arriverà anche Mark, che sarà lieto di
poter firmare autografi, stringere mani o anche semplicemente scambiare due
chiacchiere veloci con voi… Ci contiamo, grazie ancora!” sono le parole che
quel gran bastardo di Jeff ha appena rivolto al pubblico.
Gliel’ha sempre
detto che, prima o poi, lo assumerà per fargli intrattenere quelle relazioni
sociali che lui stesso non riesce a tessere da ormai mezzo secolo ma, ogni
volta che Mark rilancia quest’idea, il chitarrista si limita a fare spallucce e
rivolgergli un sorrisone dei suoi.
Lieto?
Sono semplicemente al settimo cielo: non vedo l’ora di essere sballottato in
mezzo a tutti ‘sti stronzi…
Quando lo vengono a
prendere, Mark si è già cacciato in testa un insulso berretto grigio e dipinto
sul volto la miglior espressione scazzata di cui possa disporre, sperando che
questa possa essere un suggerimento velato
per tutta la gente che sta per incontrare.
Peccato
che non lo recepiscano.
Ma in fondo lo
sapeva: che cazzo ci si può aspettare da
una mandria di persone che non riescono nemmeno a inserire la vibrazione nel
cellulare o che ululano il suo nome ogni due minuti?
Mark sguscia rapido
oltre il banchetto ricolmo di magliette, statuine e vinili e si accomoda alla
propria postazione, togliendo il tappo al pennarello e immaginando per un
secondo che questo sia un coltellaccio da macellaio.
Dopodiché sospira
tra sé e sé e si appresta a fare il proprio lavoro: firma pile di gadgets a testa bassa (valore medio degli acquisti:
settanta euro, c’è pure gente che ha lasciato giù cento sacchi), finge di
ascoltare i pipponi encomiastici e disgustosamente
stantii delle fighette che gli miagolano di fronte, si ostina a mantenere
incollata sul volto l’espressione arcigna e leggermente inquietante che ormai è
diventata il suo marchio di fabbrica.
Non che in queste
circostanze serva a granché, eh: più passa il tempo, più gli sfilano davanti
persone che forse non hanno ancora capito di non avere a che fare con un tizio
solare come quel gran dritto di McCready.
Le ultime parole
famose: improvvisamente di fronte a lui si materializza un tizio sulla
quarantina d’anni, che gli allunga rapidamente il vinile di Imitations e un altro cd e che gli scatta subito una foto a tradimento – amico, qui non ci siamo proprio.
Mark si morde la
lingua e si concentra sulla linea lasciata dall’inchiostro e, solo quando alza
il capo per restituirgli le cianfrusaglie, si accorge della scenetta
raccapricciante che si sta svolgendo a pochi centimetri da lui: il bodyguard ha
in mano l’iPhone della fighetta che, a sua volta, si
è allungato sul bancone con un sorriso falsissimo e i pollici alzati, pronto
per l’ultimo scatto da pubblicare su quella cagata di Instaqualcosa
o come cazzo si chiama.
A Mark viene
naturale ignorare l’obiettivo del cellulare e rivolgere al tizio un’occhiata
colma di perplessità, ribrezzo e pena per l’idiozia di cui questi si sta
facendo portavoce, e quasi gli sembra di aver sentito una risata in sottofondo.
Che
qualcun altro, come lui, abbia notato la deficienza del tizio e abbia potuto
ridere senza suscitare un caso diplomatico?
Finalmente il
rompiballe se n’è andato – oltretutto aveva pure un berretto più merdoso del
suo – e Mark può far finta di concentrarsi su chi viene dopo di lui: ha il capo
chino e non vuole saperne di alzarlo manco per l’anticamera, ma il timido “hi” che
annuncia il cambio di scocciatore gli fa quasi percepire una tregua dal mal di
testa e dal nervoso che si sta trascinando appresso.
Quasi
senza accorgersene, contraccambia il saluto.
Quando poi sul
tavolo compare il biglietto del concerto – il biglietto, capite, non cento euro
di merchandising appena comprato in fretta e furia! – sente perfino di poter
provare un moto d’affetto per quella prima persona normale che gli è capitata
davanti.
Mentre firma velocemente il pezzo di carta, la sente mormorare “thank you so much”
e finalmente si decide ad alzare il capo: la prima cosa che i suoi occhi
incrociano è un grande maglione a righe rosse, un maglione così terribilmente
familiare, e capisce immediatamente che la figura fasciata da quel tessuto a
strisce forse sa davvero chi ha davanti a sé.
Punta i suoi occhi
in quelli della ragazzetta e ribatte con un “it was a pleasure”, frase che sa di
non aver detto a cuor leggero: lo pensa per davvero, perlomeno lei non gli ha
rotto i coglioni come tutti gli altri.
Dopodiché, quasi intenerito per l’espressione del suo volto, per l’entusiasmo
genuino che è riuscito a percepire dai gesti nervosi e dal filo di voce che le
è uscito flebilmente di bocca, Mark sente le proprie labbra piegarsi: è il
primo vero sorriso della serata, e lui stesso sa che anche la ragazzetta capirà
di aver appena realizzato un piccolo miracolo.
Per tutta risposta quella contraccambia il sorriso – il volto praticamente
illuminato e le guance rosse – e, dopo un attimo, è già bella che sgusciata
via.
Alla vista
dell’ennesima vagonata di vinili da autografare, Mark riacquista il proprio
proverbiale aplomb: in cuor suo sa di dover ringraziare quel tipino dagli occhi
grandi e scuri per avergli ricordato come lui stesso fosse un tempo – semplice,
sincero e senza fronzoli – e come si faccia a sorridere… e sa anche che, quando
chiuderà gli occhi, non potrà far altro che vedere dei bellissimi colori: il rosso e il nero.
Angolo
autrice.
Sull’ondata di feels vari e bombardamento d’ormoni (e, soprattutto, sotto
la spinta significativa della mia dittatrice preferita AKA Kip),
reduce dal meraviglioso concerto che Mark Lanegan ha
tenuto a Mestre ieri sera, ho deciso di trasformare i miei deliri post-live in
qualcosa di più… concreto.
So che questa fanfiction suonerà melensa e bla bla bla e di concreto
forse alla fin fine non c’è un cazzo (e mi devo pure scusare per aver osato
carpire i pensieri che possono essere frullati nella testolina di Mark: ah,
caro, se ieri sera avessi saputo che ne avrei tirato fuori ‘sto abominio, col
cazzo che m’avresti sorriso!) però ci tenevo ad esternare tutti i feelings che
sto provando da un po’ di ore a questa parte: ho rischiato d’implodere svariate
volte, questa ff non è altro che un’innocentissima valvola di sfogo.
Beh, che altro
dire?
-Tutte le cose
narrate in questa storia (eccezion fatta per i pensieri di Mark – “e ‘sti cazzi!”
direte voi) sono successe veramente: credo che Mark sia sì burbero, ma ieri
sera mi ha dato la conferma di essere anche un uomo fantastico.
-Gli insulti vari
nei confronti del pubblico sono semplicemente le mie considerazioni: ho incrociato
un sacco di gente cafona e spiacevole che però, per fortuna, non mi ha guastato
la gioia di aver preso parte al concerto o/
… ovviamente la
ragazzetta dal maglione alla Cart Cobbeìn sono io: ebbene
sì, ho fatto la bastardata d’indossare una cosa del genere e, a quanto pare, ha
fatto effetto :D
(e sì, ho anche
riso per la figura dimmerda dell’idiota prima di me
UHUHUHU)
-Jeff è Jeff Fielder, strabiliante chitarrista che sta seguendo Mark in
tournée.
- Il titolo della fanfiction è un verso tratto da Pretty Colors, un brano di Frank Sinatra che Lanegan
ha reinciso per il suo album di cover intitolato Imitations.
Non voglio
soffermarmi ulteriormente sul sorriso di Mark – ho già delirato sul tale
argomento con mezzo mondo, e di questo mi scuso profondamente – e vi lascio
limitandomi semplicemente a dire che sia l’ottava meraviglia del mondo.
QUEST’UOMO E’ L’OTTAVA
MERAVIGLIA DEL MONDO, STOP.
Non posso far altro
che salutarvi e sparire via: ho iTunes con l’intera
discografia di Mark che mi aspettano, bye! :D
Dazed;