Questi
personaggi non mi appartengono, sono di proprietà di Hajime
Isayama. Questa storia è scritta senza scopo di lucro.
Marchin on
There’s so
many wars we fought
There’s so
many things we’re not
But with what we have
I promise you that
We’re marchin
on
[Ci sono
così tante guerre che abbiamo combattuto/ Ci sono
così tante cose che noi non siamo/ Ma con quello che
abbiamo/ Ti prometto che/ Continueremo a marciare]
Cinquantasettesima
spedizione fuori dalle mura.
Il caporale Rivaille guardò con aria critica il fascicolo che
conteneva il rapporto dettagliato dell’ultima missione.
Era troppo
voluminoso, quel plico.
Non ne aveva
mai visto uno con così tante pagine.
Sembrava un
fottuto manuale dell’accademia, di quelli inutili e pieni di
paroloni altisonanti.
Lo strinse tra
le mani e lo soppesò; sentì le braccia stanche,
come se quell’incartamento pesasse quanto un macigno.
Sospirò
sommessamente e spostò lo sguardo sulla tazza dai bordi
scheggiati, da sempre la sua preferita.
Dal suo
interno salivano, in leggere volute verso l’alto, i fumi del
caffè caldo, proiettando sottili ombre alla luce della
tremolante fiamma di una candela.
Il tempo al di
fuori era coperto, ventoso, incerto e mutevole. Rispecchiava alla
perfezione lo stato instabile del suo animo.
Sbuffò.
Lui non era un meteoropatico e non credeva a tutta quella marea di
stronzate.
Rifocalizzò
la sua attenzione sulla tazza.
Non aveva
voglia di bere quel caffè, gli sembrava scialbo, privo di
aroma.
Nonostante
queste considerazioni, però, afferrò ugualmente
il bordo della tazza e schiuse le labbra.
Come aveva
ipotizzato, quella roba era totalmente insapore. L’unico
effetto che ne ricavò fu un calore invadente e sgradevole,
che si irradiava dalla lingua fino a raggiungere lo stomaco.
Bruciava, quel
caffè.
Bruciava di
sconfitta e di delusione, di frustrazione e rimorso.
Il caporale
Levi abbandonò la tazza nervoso, si infilò la
mantella con le ali della libertà, prese sottobraccio il
rapporto e si diresse verso l’ufficio del suo superiore.
Per i corridoi
del quartiere generale non si udiva alcun rumore. Tutti erano nelle
camerate o in infermeria, ognuno chiuso in se stesso, perso a fare i
conti con la propria coscienza e a combattere i propri demoni.
Anche Levi
sapeva dello scotto da dover pagare per le proprie colpe.
Il dossier era
un fardello insostenibile tra le sue mani.
Pesava
così tanto perché conteneva troppi errori: i suoi.
Era un
fascicolo fatto di risate che non avrebbe più udito,
vaneggiamenti senza senso che non avrebbe più ascoltato,
profumo di caffè appena versato che non avrebbe
più annusato.
Rinchiuse quei
pensieri in un angolo della mente e bussò con forza contro
la porta di legno pesante.
“Avanti.”
Annunciò la voce all’interno.
Rivaille
entrò nell’ufficio del comandante Smith.
L’ambiente
era essenziale e spartano, senza suppellettili o altri oggetti frivoli,
ad eccezione per l’unica cornice con la nomina a Capitano, ed
una vecchia fotografia ormai sbiadita.
Chi erano
quelle persone, Levi non l’aveva mai chiesto.
Forse i
genitori, forse vecchi amici.
Con un buon
margine di scarto riteneva che, molto probabilmente, erano andati a
mettere le spalle al fresco.
Per un istante
si vergognò di quel pensiero così cinico, scosse
il capo per scacciarlo e si ricompose.
“Rivaille,
cosa ti porta qui?” chiese il capitano fissandolo con i
grandi occhi chiari.
“Ho
il rapporto sulla missione.” Annoiato gettò il
volume che cadde sul tavolo con un tonfo sordo.
Smith fece
saettare lo sguardo verso il caporale, e si stese contro la sedia
dall’alto schienale.
“Siediti,
Rivaille.” Con un cenno della mano gli indicò il
posto di fronte a lui.
“In
realtà ho ancora alcune cose da sbrigare, preferirei
rimandare questo incontro.” Mentì cercando di
essere convincente. In realtà voleva solo stare un
po’ per conto suo.
“Non
era un invito, il mio.” Affermò categorico il
capitano.
A malincuore
si sedette.
Si fissarono
per un attimo in un silenzio pesante.
“Allora,
cosa vuoi Erwin? Se mi hai ordinato di rimanere ci sarà una
ragione.” Fece Rivaille, ed al capitano non sfuggì
il tono sarcastico con il quale aveva calcato il verbo ordinare.
“Vorrei
solo sapere come stai.”
Levi fu
sorpreso da quella richiesta. Batté un paio di volte le
palpebre, ma appena ebbe razionalizzato sentì il fastidio
invaderlo. Provò a dissimulare il tutto con la nota
impassibilità che lo contraddistingueva.
“Come
vuoi che stia? Sto benissimo.” Replicò asciutto.
Erwin
sospirò.
“Pensavo
che potessi risparmiarmi questa penosa recita. Lo so che sei
arrabbiato, dovremmo parlarne ed affrontare la cosa.”
Levi si
infastidì ancora di più.
“Ascolta,
ringrazia di essere un mio superiore, altrimenti ti avrei
già tirato un pugno su quel grugno che ti ritrovi. Non
abbiamo nulla di cui discutere, perché non la pianti di
darmi il tormento e ti trovi qualcos’altro da
fare?” disse tutto d’un fiato, cosa strana per lui,
che non era solito essere così comunicativo.
“La
missione, Levi. Come stai affrontando la perdita della tua squadra.
Questo mi preme sapere.” Spiegò Smith con pazienza.
Rivaille lo
scrutò in volto e non poté fare a meno di far
salire la sua rabbia a livelli critici. Il capitano era così
pacato, così tranquillo e lo trattava con una tale
condiscendenza che...
No.
Non era
condiscendenza, quella.
Era qualcosa
di molto peggio: era pietà.
Pietà
per un soldato che, dopo aver perso la schiera di uomini più
fidati, era rimasto solo.
“Sono
morti, Erwin. Ma non c’è bisogno che te lo dica
io, lo sapevi già, no? È anche messo nero su
bianco in quello stramaledetto rapporto che mi hai fatto
stilare.”
“Non
mi interessa quello che c’è scritto sul rapporto,
voglio sentire le parole uscire dalla tua bocca.”
Levi
incrociò le braccia e lo guardò con aria di sfida.
“Comincio
ad essere molto seccato.”
“Credi
che questo cambi qualcosa?” rispose di rimando
l’altro.
“In
effetti no. Non cambia il fatto che siano tutti morti e che nessuno di
loro tornerà indietro.” Replicò secco
il caporale.
Nella stanza
si materializzò una barriera fatta di silenzio e tensione.
“Io
lo so.” Esordì Smith. “Io so cosa
provi.”
Rivaille
inarcò un sopracciglio, scettico.
“Non
credo che tu capisca neanche lontanamente.”
“Come
pensavo.” Erwin prese un respiro e poi continuò.
“Tu dai la colpa a me.”
Levi lo
guardò attonito, per la seconda volta nel giro di poco. Ma
presto quello sbigottimento venne sostituito da rabbia e risentimento.
Era davvero
convinto di sapere cosa provasse? Gliel’avrebbe detto chiaro
e tondo, avrebbe messo il punto a quella scomoda conversazione.
“Io
non do la colpa a te, Erwin. Non uscirai come un povero martire da
questa storia.” Il tono di voce freddo e astioso del caporale
non piacque per niente al capitano.
“Cos…”
“Non
do la responsabilità a te, ma a me stesso.” Lo
interruppe brusco. “Ti ho concesso fiducia e guarda il
risultato: i miei uomini sono morti e non ho nemmeno potuto riportare i
loro corpi a casa. Se c'è qualcuno da colpevolizzare qui,
sono io.”
Smith non
riuscì a sostenere lo sguardo penetrante di Rivaille.
C’era un motivo se lo definivano: “Il
più forte dell’umanità”. Levi non avrebbe
impedito alle circostanze di paralizzarlo, avrebbe sempre continuato a
combattere.
“Ho
convinto quel marmocchio a non trasformarsi per pararci il culo, a
contare su di noi. Sarei dovuto essere lì con la mia squadra
ed aiutarli, non andare a fare rifornimento. Non sarei dovuto arrivare
dopo ed assistere allo spettacolo dei loro corpi devastati che
giacevano scomposti sull'erba della foresta. Avrei dovuto dare retta al
mio istinto e far fuori quella maledetta figlia di puttana quando ne
avevo l'occasione, senza permettere a te e ad Hanji di giocare agli
scienziati pazzi in questa guerra. L’unico titano buono,
è un titano morto.” Scandì le parole
con un’inclinazione carica di acredine, accompagnata da
un’occhiata truce.
“Sai
bene cosa vuol dire essere in una squadra ed obbedire agli ordini. I
miei ordini. L’abbiamo fatto per far vincere
l'umanità! Per portarci un passo avanti nella lotta ai
giganti! I sacrifici, Rivaille, sono necessari. Lo sapevi in passato,
lo sai adesso e lo saprai sempre. Prima lo accetti, prima riuscirai a
perdonare te stesso…” prese un respiro e
continuò, stavolta a fil di voce
“…e a perdonare me.”
Levi strinse i
pugni, voltò la testa e decise che sarebbe andato via da
quella stanza soffocante.
“Sei
davvero un patetico pallone gonfiato...ne ho abbastanza, vado
via.”
Gli diede le
spalle e risoluto aprì la porta, richiudendosela dietro con
violenza.
Dopo
l’uscita di scena di Rivaille, Erwin si alzò e
andò verso la finestra. Posò i palmi sul vetro e
abbassò il capo, afflitto.
Poco dopo
udì un sommesso bussare alla porta, seguito da una figura
che si rivelò essere Hanji. La donna vide il capitano in
piedi, che le dava le spalle rivolto con lo sguardo fuori dalla
finestra.
“Come
è andata?” chiese titubante.
“Non
bene.” Fu la risposta lapidaria dell’uomo.
L’amaro nella sua voce colpì Hanji, che gli si
avvicinò e gli pose delicata una mano sulla spalla.
“Vedrai
che gli passerà. È normale che adesso provi
rabbia, dolore, ma sai che non lo perderai. Lui è dalla
nostra parte, vuole sconfiggere i giganti tanto quanto lo desideriamo
noi, e adesso è ancora più motivato.”
“Io
non temo di perdere il soldato, Hanji. Io ho paura di perdere
l’uomo e l’amico.”
La caposquadra
comprese a fondo i sentimenti del capitano e provò un forte
senso di impotenza.
“Il
tempo riuscirà a guarire le sue ferite, anche quelle
profonde come la perdita dei suoi amici.”
Erwin la
guardò e stirò le labbra in un debole sorriso
senza allegria.
“Il
tempo, Hanji, è l'unica cosa che noi non abbiamo.”
*
Quando Levi
rientrò nella sua stanza, era arrabbiato.
Misurava la
camera a grandi passi, alla stregua di una tigre in gabbia, e non
sapeva come mettere a tacere l’insistente voce che gridava
nella sua testa e che lo spronava a fare qualcosa.
Qualsiasi cosa.
Improvvisamente,
quasi a volerlo aiutare, il cervello gli fece balenare dinanzi agli
occhi la conversazione avuta con Eren nella foresta, mentre correvano a
cavallo.
“La
differenza di giudizio tra te e noi è dovuta alle diverse
regole che vengono dalle esperienze passate, ma non devi fare
affidamento su una cosa del genere. Fai la tua scelta: crederai in te
stesso o ti fiderai di me, di loro e della Legione Esplorativa al
completo? Non so che opzione dovresti scegliere. Non potrei mai
aiutarti a farlo. Non importa quale criterio di scelta ti
porterà a decidere, nessuno potrà dirti se
è giusto o sbagliato finché non arrivi ad una
qualche conclusione, che sarà il risultato della tua
decisione. L’unica cosa che ci è permessa,
è di credere che non rimpiangeremo la nostra
scelta.”(*)
Seppe quindi
cosa fare.
*
Le strade
erano buie e deserte. Arrivare al muro non risultò
un’impresa difficile, non per uno come lui. Nella sua vita
passata si era adattato in fretta alle circostanze, era diventato
scattante, rapido, acuto. Grazie all’equipaggiamento per la
manovra tridimensionale riuscì a trovare appigli nel muro e
ad arrampicarsi fino in cima. Aggirò le sentinelle di
guardia con facilità e, con la stessa agilità
mostrata in precedenza, si calò fuori dalle mura.
Di notte dei
giganti non c’era nemmeno l’ombra, quelle immonde
bestie si nutrivano solo di luce solare.
Prese a
correre per allontanarsi velocemente dal muro.
Aveva tempo
fino all’alba per svolgere la sua missione e non aveva dubbi
che ci sarebbe riuscito.
Corse fino a
perdere il fiato dai polmoni, sentire i muscoli delle gambe bruciare e
il fianco sinistro dolere.
Ricordava la
strada con una precisione sconcertante, il posto in cui giacevano i
corpi della sua squadra.
Con la sola
luce bianca della luna, Levi arrivò nel luogo in cui si
trovavano.
Ancora
ansimante per la corsa, si fermò ad osservare quello che
restava dei suoi uomini: Gunther era ancora legato al filo della
manovra tridimensionale che lo rendeva simile ad una macabra marionetta
i cui fili erano stati recisi.
Recisi come la
sua gola.
Di Erd non
restava altro che un mezzobusto dilaniato. Auruo giaceva con il viso
sull’erba, ma anche nella morte serbava la grandezza di un
guerriero indomito. Sembrava stesse semplicemente riposando dopo una
battaglia.
E Petra.
Vederla in
quello stato gli fece stringere ogni fibra del suo essere.
Era stata
messa in ginocchio, contro una corteggia dura e gigantesca, con le
labbra dischiuse, il viso coperto da sangue incrostato e le braccia che
pendevano inermi.
Si
avvicinò per primo a lei, la gentile, dolce Petra Ral.
Con la
complicità della notte il sangue rappreso appariva nero come
la pece, rendendogli quel compito meno gravoso.
Si
abbassò al suo livello e, per la prima volta, la strinse tra
le braccia.
Era fredda,
Petra. Gelida come la neve d’inverno.
I suoi capelli
si erano spenti, la vivacità e la cortesia avevano
abbandonato i suoi occhi luminosi. Il suo volto era pallido e non
sarebbe più arrossito di rabbia o di imbarazzo.
Era
così fragile, Petra. Ridotta ad un piccolo ammasso di ossa
frantumate e lividi, una bambola di pezza inerte ed indifesa.
Levi si
sentì sollevato del fatto che suo padre non
l’avesse vista in quello stato.
Che nessuno
delle famiglie dei suoi uomini li avesse visti come erano adesso.
Dovevano
conservarne un bel ricordo.
Il caporale
sollevò la ragazza tra le braccia e la depose al centro
della radura e recuperò poi tutti gli altri componenti del
team.
Con un
coltellino tagliò loro una ciocca di capelli, che avvolse
con cura in un fazzoletto, e le ali della libertà dalle
divise.
“Queste
ali finte non vi servono più. Ne avete di vere
adesso.” Disse con amarezza.
Prese poi una
bottiglia che portava con sé e ne versò il
contenuto sui corpi, dopodiché estrasse dalla tasca una
scatola di fiammiferi e ne accese uno.
“Grazie
per essere stati la mia squadra e per aver avuto fiducia in
me.”
Gettò
il fiammifero ed il liquido infiammabile si incendiò
velocemente.
Levi rimase a
guardare il diffondersi del fumo ed il fuoco che inghiottiva i suoi
uomini.
Il rimorso lo
cullò come un padre sadico e crudele.
Dopo un lasso
di tempo che parve essere infinito, si voltò e riprese a
correre verso la città.
*
Quando rimise
piede sull’acciottolato della strada, mancava ormai poco
all’alba. Si incamminò piano verso il quartier
generale, pensando al fatto che, una volta giorno, sarebbe andato dalle
famiglie dei suoi uomini a consegnare lo stendardo che aveva riportato
dalla foresta.
Fu
però una figura ad attirare la sua attenzione: un uomo
anziano che camminava mesto per la strada. Lo riconobbe subito.
“Signor
Ral, cosa fa in giro a quest’ora?”
L’uomo
si voltò con espressione quasi spaesata.
“Ah,
caporale Rivaille, è lei. Nulla, passeggiavo
perché non riuscivo a dormire. Quando chiudo gli occhi
rivedo solo il viso di mia figlia.” Affermò
addolorato.
Levi rimase in
silenzio, non trovando un modo per replicare.
“Vuole
venire un attimo a casa? Le offro qualcosa. Possiamo anche parlare un
po’, se le va.” Propose il padre di Petra
sorridendogli debolmente.
“Certo.
Devo anche consegnarle qualcosa che le appartiene.” Rispose
l’altro.
Camminarono
fino all’abitazione dei Ral, una casa modesta poco lontana da
lì. Il padre di Petra gli preparò una tazza di
caffè. Quando Levi lo assaggiò,
constatò che era proprio identico a quello che preparava la
figlia.
“Petra
era davvero onorata di far parte della sua squadra, lo sa?”
disse l’anziano prendendo posto accanto al caporale.
“Sì,
ne ero a conoscenza. A questo proposito…” si
interruppe ed estrasse dal fazzoletto la ciocca di capelli e il simbolo
della Legione. “…questi appartenevano a sua
figlia.”
L’uomo
li afferrò con mano tremante, e gli occhi gli si riempirono
di lacrime.
“Q-questi
sono, erano…” si corresse prontamente.
“…di Petra. Pensavo non potessi avere niente di
suo…Caporale, lei è andato
a…prenderli?”
“Sì.”
Alitò lui. “Se non l’ha notato sono
sporco di terra e puzzo di fumo.” Brontolò e la
cosa fece sorridere il padre della ragazza.
“Non
ci avevo fatto caso, ma adesso che me lo fa notare sì,
è così.”
Nella pausa
che ne seguì, entrambi bevvero un sorso delle loro bevande.
“Sa,
il mio cruccio era davvero quello di non poterla onorare senza qualcosa
di speciale che le era appartenuto da seppellire. Ma ancora una volta
si è preso cura di lei. La ringrazio infinitamente,
caporale. So che Petra era la roccia della vostra squadra, un collante.
Faceva in modo da mostrarsi forte e compassionevole allo stesso tempo.
Voleva rendersi utile e non essere un peso per lei.”
“Le
assicuro che non lo era. Era una delle persone migliori che abbia mai
conosciuto.” Disse sincero.
L’uomo
ne convenne.
“Lo
era davvero. Per questo non mi sarei opposto se aveste deciso di
sposarvi.”
Quella
confessione inaspettata quasi fece andare di traverso il
caffè al caporale.
“Io…”
esordì senza sapere esattamente cosa dire. Non aveva mai
pensato a Petra in quel senso.
Con lei era
stato giusto, non carino.
Era stato
corretto, non galante.
Era stato
rispettoso, non dolce.
Era il suo
superiore, e lei una subordinata verso la quale nutriva stima e fiducia.
Rifletté
che forse, in altre circostanze, le cose avrebbero potuto prendere una
piega diversa. Ma non avrebbe mai avuto modo di saperlo.
“Ho
una richiesta da farle, caporale Rivaille.”
Levi gli fece
cenno di proseguire, e questi continuò.
“Faccia
in modo da mantenere vivi i sogni di mia figlia, quei sogni fatti di
memorie, immagini, speranze. Faccia sì che non sia morta
invano.” La voce era rotta di pianto, e le lacrime gli
rigavano le guance emaciate.
Di fronte alla
commozione di quel padre, il caporale fece appello ad ogni briciolo
della sua forza ed annuì con vigore.
“Farò
tutto ciò che posso, è una promessa.”
“Grazie,
davvero.”
“Ora
dovrei andare, ho delle altre cose da sbrigare.” Rivaille si
congedò, imboccando la porta.
“Certo,
ha ragione, sono stato un maleducato.”
Levi gli
agitò una mano davanti agli occhi, come a dire che la cosa
non aveva importanza.
Quando
uscì fuori, il cielo si stava lentamente rischiarando.
“Torni
a trovarmi quando vuole.”
“Grazie
per il caffè.” Replicò Levi con un
leggero movimento del capo.
“Ah,
e caporale, un’ultima cosa.”
Si
fermò e attese le parole dell’anziano.
“Noi
non seppelliamo mai i morti, non proprio. Li portiamo con noi.
È il prezzo della vita.” (**) L’uomo
strinse al cuore le ali della libertà con i capelli di Petra.
“L’unico
modo per andare avanti è andare avanti. Dire lo posso fare
anche quando sai che non puoi. (***) Vada avanti, tutti dobbiamo
farlo.”
Si
voltò e andò via.
*
Era quasi
arrivato al quartier generale quando si fermò ad ammirare
l’alba nascente.
Era da tempo
che non lo faceva.
La notte era
stata lunga ed il giorno si prospettava essere altrettanto lungo. Si
sedette sull’erba, -“Tanto
ormai sono già sporco.”
Pensò tra sé e sé -, e
restò a guardare.
Nel cielo
c’era uno spicchio di sole color bronzo luminoso, circondato
da nuvole picchiettate di tonalità calde di arancio, giallo,
rosso e rosa. Notò che quel sole risplendeva della stessa
sfumatura dei capelli di Petra quando erano toccati dal riverbero della
luce.
I suoi occhi
penetranti, cerchiati da quelle occhiaie sempre più
profonde, continuarono a fissare quello spettacolo, e la sua mente non
smise un attimo di rimuginare sugli ultimi avvenimenti.
Pensò che avrebbe dovuto fare un discorso diverso alle
reclute. Non uno dei discorsi di Smith sulla grandiosità
della loro legione o sui loro compiti.
Avrebbe dovuto
istruirli sul lato più oscuro dell’essere un
soldato:
“All’accademia
non ti insegnano cosa dire a qualcuno che sta morendo. Non ti insegnano
a leggere la mente del nemico. Non ti insegnano a dire ad un padre che
suo figlio non tornerà più. Non ti insegnano il
peggio che si debba sapere. Essere un soldato è come entrare
in un labirinto senza conoscere dove si trovi l’uscita.
È tutta una questione di scelte: uccidere o essere uccisi,
combattere o soccombere e, nell’incertezza, improvvisare,
procedere a tentoni. Quando si trova una via bloccata bisogna tornare
indietro e prenderne un’altra. E a volte, la via che sembra
più facile non è la più
giusta.”
Un raggio di
sole gli colpì occhi e lo distolse dai suoi pensieri. Si
alzò e, ignorando le condizioni disastrate dei suoi abiti,
si avviò verso l’entrata della base.
Nulla sarebbe
stato come prima, lo sapeva bene.
Ma lui non si
sarebbe arreso.
Avrebbe
combattuto per i sogni futuri, i compagni, le promesse alle quali era
legato.
E la luce
dell’alba non lo avrebbe mai abbandonato.
We’ll
have the days we break
And we’ll have
the scars to prove it
We’ll have the
bomb that we saved
And we’ll have
the heart
Not to lose it
One Republic –
Marchin on
[Avremo dei
giorni in cui ci (sentiremo) spezzati/ E avremo le cicatrici per
provarlo/ Avremo la bomba che abbiamo salvato/ E avremo il cuore/ Da
non perdere]
Note
(*) Questa parte è presa direttamente dal manga.
(**) Citazione
dalla serie Sleepy Hollow.
(***) Citazione di Stephen King.
***
Eccomi di
ritorno con la seconda one shot in questo fandom. Che dire, mi frullava
già da un po’ l’idea di scrivere
qualcosa su Rivaille, spero di essere riuscita a renderlo bene e a non
farlo andare eccessivamente OOC. In tal caso segnalatemelo, mi
servirà per l’avviso nella presentazione della
storia, e per correggere il tiro semmai decidessi di scrivere di nuovo
su di lui.
Sono stata
ispirata da due canzoni in particolare, ve le lascio qualora abbiate
voglia di ascoltarle: One
Republic - Marchin on e One
Republic - Mercy
Bene, a meno
che non venga presa da un “attacco di scrittura”,
chiudo il 2013 con questa storiella su un personaggio che mi ha molto
colpita e spero che presto la sua storia venga approfondita :D
Se la shot vi
è piaciuta, fatemi il regalino post natalizio di un vostro
parere, vi auguro in ogni caso un buon proseguimento di feste ed un
felice anno nuovo! Qualora voleste restare ancora in mia compagnia,
fatevi un giretto sulla mia pagina autore, non si sa mai che troviate
qualche altra storia interessante.
A presto e
grazie!
|