Prologo
Mansfield, Pennsylvania.
Nel retro della libreria, l’orologio segna le sette e
trentacinque minuti esatti. Gli scaffali sono in balia del caos:
scatole, scatoline e scatoloni, involucri di plastica trasparente,
plichi di documenti, raccoglitori di cartone. Sul ripiano vicino alla
finestra, un piccolo televisore bianco, con due grosse manopole,
ricorda che gli anni Ottanta sono esistiti davvero. Il televisore
è acceso. Il mezzobusto del telegiornale locale sta ripetendo la
notizia del giorno.
«La polizia è ancora sulle tracce dell’uomo che, tre
ore fa, ha rapinato una gioielleria di Williamsport ferendo in modo
grave il proprietario del negozio e un cliente. L’intervento
tempestivo di due poliziotti ha impedito all’uomo, già
noto alle forze dell’ordine per precedenti di traffico di droga,
di fuggire con la refurt—».
Jane spegne il televisore e sfila una grossa scatola dal ripiano
sottostante. Lo schermo nero riflette l'immagine di una ragazza molto
alta, con capelli color carota lunghi fin oltre le spalle, divisi in
una perfetta scriminatura centrale. Indossa una camicetta bianca, un
gufetto di bronzo come ciondolo e si muove con la scioltezza e la
rapidità di chi è ben abituato a lavorare in quel
posticino angusto, odoroso di lucido per legno e di inchiostro. Jane
appoggia la scatola sul tavolo, strappa la striscia di nastro adesivo e
solleva le due ali di cartone, ritrovandosi sotto al naso copie su
copie di un romanzo dal titolo: Il dolce bacio delle tenebre. Fresco di
stampa. Storia di una giornalista alle prime armi che si innamora
perdutamente e immancabilmente del centenario vampiro di turno.
L’immagine in copertina è così simile alla
locandina di Via col vento, in versione dark, che a Jane viene da
chiedersi chi e come sia riuscito a pubblicarla senza beccarsi
un'accusa di plagio.
«Jane, pensavo fossi già andata a casa».
È la voce gentile della signora Sternwood. Con il suo cardigan
color pesca e la sua collana di perle, la padrona del negozio è
comparsa silenziosamente sulla porta: è una donna di quasi
settanta anni, molto minuta e con dei capelli biondi, tinti, tagliati
corti. Gli occhi azzurri non hanno ancora preso la sfumatura opaca
della vecchiaia e Jane sa — perché l'ha vista in una
fotografia — che la signora Sternwood da giovane è stata
una gran bellezza, con un fascino alla Lauren Bacall, qualcosa che le
rughe e il tempo si sono inevitabilmente portati via.
Jane appoggia le lunghe mani affusolate sui bordi dello scatolone.
«Sistemo questi e vado». Non fa mai nulla per dissimulare
il suo marcato e pulito accento inglese.
«Tesoro, ogni mattina arrivi qui in anticipo e tutte le sere
rimani oltre l'orario del tuo turno». La signora Sternwood va
verso il tavolo e si ferma di fianco a Jane — che la supera in
altezza di tutta la testa e anche qualcosa di più. «Non
hai un fidanzato che si lamenta perché passi troppo tempo chiusa
qui dentro e troppo poco tempo con lui?»
Jane arriccia il naso e sbuffa un sorriso a labbra serrate. Non
è timidezza e nemmeno disagio. È l’espressione di
chi vuole scacciare con garbo un argomento noioso.
«Lo sa che non ho nessun fidanzato».
La signora Sternwood le sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Be', dovresti trovartene uno».
«Non è che ne senta particolarmente il bisogno. Se proprio
devo scegliere, preferisco di gran lunga i libri» butta lì
Jane e, di riflesso alla sua ammissione, abbassa lo sguardo sulla
scatola. Inarca un sopracciglio. «Ma magari non questi libri.
Dobbiamo proprio venderla certa roba?»
«È quello che la gente compra di questi tempi, cara. E
possono restare nella scatola fino a domani mattina. Su, va a casa, ci
penso io a chiudere il negozio».
E Jane obbedisce. Recupera giacca, borsa e sciarpa dall'appendiabiti a
muro. Quando ha finito di chiudere la doppia fila di bottoni, la stoffa
marrone della giacca lascia scoperti appena dieci centimetri della sua
gonnella nera a pieghe, cosparsa di una fitta fantasia floreale. Jane
sfila i capelli da sotto il colletto, drappeggia per bene la sciarpa
attorno alla gola e si sistema la borsa in spalla.
«A domani, signora Sternwood».
«A domani, cara».
* * *
La libreria — che in tutto conta due piccole sale — ha un
aspetto molto ordinato, al contrario del retro. Non c’è un
solo volume che non sia al posto giusto nella sezione giusta. Sopra al
bancone della cassa, non c’è un solo volantino
pubblicitario che sporga di un solo millimetro fuori dal proprio mazzo.
Eppure, nonostante tutta la pulizia e l'ordine, Jane, fin dal suo primo
giorno di lavoro, ha avuto la sgradevole impressione che nel negozio
aleggi qualcosa di tetro e soffocante. Forse è per via del legno
scuro e lucido degli scaffali, spaventosamente simile a quello di un
feretro. O forse è colpa di tutti quei soprammobili kitsch che
la signora Sternwood ci tiene ad avere lì. Vecchie lampade in
stile liberty e spettrali animaletti di vetro soffiato. Un carosello
che non gira mai e un carillon perennemente muto. Due bambole di
porcellana che si tengono per mano e un ritratto di donna: una pallida
sconosciuta dai capelli neri, chiusa in una blusa bianca dal colletto
alto, che scruta il negozio con uno sguardo serio e malinconico.
Con il tempo, però, Jane ha semplicemente imparato a non dare
peso a quella sensazione e ormai tutto nella piccola libreria —
dallo scricchiolio leggero delle assi di legno del pavimento, passando
per le decorazioni floreali della vecchia tappezzeria, fino al trillo
limpido del campanello sopra alla porta, che suona anche questa sera
non appena la ragazza esce dal negozio — le è diventato
piacevolmente familiare.
* * *
Alla luce degli eleganti lampioni in ferro battuto, la strada appare
deserta. Jane getta un'ultima occhiata all'esterno della libreria: il
negozio occupa il pian terreno di un edificio a tre piani, con la
facciata coperta di mattoni rossi disposti a spina di pesce. Ce ne sono
tanti di edifici così nel centro di Mansfield: pittoresche
costruzioni vittoriane, tirate su durante il diciannovesimo secolo,
tutte portici, colonnine e torrette. Sopra all'architrave della porta,
in una calligrafia fin troppo piena di riccioli e onde si leggono le
parole 'Sternwood Book Shop'. Ancora più in alto, le finestre
degli altri due piani sono buie. Lo sono sempre. Le stanze, là
sopra, sono disabitate.
Jane nasconde le mani nelle tasche e s'incammina svelta verso la
fermata dell’autobus, a due traverse di distanza. Il leggero
impattare dei suoi stivali neri sul liscio marciapiede è l'unico
suono udibile... fin quando un'automobile non sbuca dal fondo della
via. La vettura scivola veloce sull’asfalto, anticipata dal
fascio di luce dei fanali. Svolta all'incrocio e sparisce in un batter
d'occhio dalla visuale di Jane — che è di nuovo sola,
mentre passa davanti a un vicolo tra due edifici: uno spazio senza
illuminazione largo quel poco che basta per farci stare due bidoni
della spazzatura.
Ed è ora che qualcosa l'agguanta per un braccio e la trascina nel buio.
Jane non riesce nemmeno ad urlare. Prima lo strattone, poi l’urto
doloroso della sua schiena contro il muro, infine una mano premuta
sulla bocca e sul naso quasi le impedisce di respirare.
«Se ti agiti, ti sparo subito».
Una voce maschile ed affannata è tutto quello che Jane riesce a
cogliere del suo aggressore: un uomo grosso, ben più alto di
lei, con il cappuccio di una felpa tirato sul capo — e che le sta
puntando una pistola alla tempia, mentre la tiene bloccata contro il
muro, usando tutto il peso del proprio corpo. Jane ha istintivamente
stretto entrambe le mani attorno al polso dell'uomo, ma non osa
muoversi.
«Ecco cosa facciamo adesso» ansima l’uomo.
«Torniamo in quel negozietto dal quale ti ho vista uscire, va
bene? Tu cammini vicino a me. Piano e in silenzio. Se provi a scappare,
se provi ad urlare…» Spinge con forza la bocca della
pistola contro la tempia della ragazza. «Intesi?»
Jane muove la testa in un cenno di assenso appena percepibile.
Con un altro strattone, sono di nuovo sul marciapiede.
Jane fa come che le è stato detto. Cammina, senza aprir bocca e
senza opporre resistenza. Ha i lineamenti immobilizzati in
un'espressione vuota, da automa, ma le brucia le fronte e le sudano le
mani. Sta accadendo tutto così in fretta che, per un misero
attimo, ha l'impressione di essere nel pieno di brutto sogno ad occhi
aperti — mentre è sull’autobus, diretta a casa, come
ogni sera. A ricordarle che è tutto reale c'è la
stretta ferrea dell'uomo sul proprio braccio, appena sopra la gomito, e
la pistola premuta contro i reni.
* * *
La signora Sternwood non ha ancora sistemato l’incasso della
giornata. È davanti al bancone e sta raddrizzando un cartellino
che ricorda ai clienti i vantaggi di munirsi di una carta-soci. Quando
sente lo scampanellio della porta e vede la sua commessa rientrare,
accompagnata da uno sconosciuto incappucciato, ha una attimo di
sorpresa — che muta all’istante in terrore, quando
l’uomo mostra la pistola.
«Stai ferma lì!»
La signora Sternwood si è appena coperta la bocca con le mani.
Jane la vede guardare verso la telecamera di video sorveglianza, sopra
alla porta d'ingresso. Ed è ora che un improvviso fiotto di
rabbia scuote la ragazza dal torpore dello spavento: gran coraggio ci
vuole a sbraitare contro una povera vecchia quando si è un uomo
grande, grosso ed armato.
«Non puntarle la pistola contro».
Jane si stupisce del tono della sua voce, quasi fosse stata un'altra
donna a parlare. Non ha biascicato un'umida supplica da vittima e non
ha ringhiato come un animale in trappola. Ha dato un ordine, fermo e
deciso. Le sue parole ovviamente non sortiscono nessunissimo effetto
sul rapinatore, che intima a lei di stare zitta e alla signora
Sternwood di svuotare la cassa e mettere i soldi sul bancone. Ma,
anziché obbedire, la signora Sternwood scosta le mani dalla
bocca per sussurrare: «Oh, mio dio, ma io so chi sei. Sei quello
di cui parlano in televisione. Sei quello che ha rapinato la
gioielleria…»
Jane si volta di scatto.
L’uomo ha ancora il cappuccio sulla testa, ma qui,
all’interno del negozio perfettamente illuminato, niente gli
nasconde il profilo: labbra grosse, naso largo, fronte sporgente. La
signora Sternwood potrebbe avere ragione. Somiglia all'uomo nelle foto
segnaletiche mostrate nei notiziari.
«I soldi!» abbaia il rapinatore, agitando la pistola verso
la signora Sternwood, e ora stringe con tanta forza il braccio di Jane
che la ragazza non riesce a dissimulare una smorfia di dolore.
«V-va bene! Va bene! Ma lascia andare la ragazza, per favore.
Falla uscire» supplica l'anziana donna. È sull'orlo delle
lacrime.
Il rapinatore ha uno strano scatto: trema e ride piano. E Jane si
chiede se, oltre ad essere un criminale, non sia anche uno squilibrato.
«Oh, no, no. Lo so che mi stanno alle calcagna. Lei viene con me. Lei mi serve».
Come ostaggio.
Jane lo capisce. E deve averlo capito anche la signora Sternwood
— che a quelle parole diventa più pallida delle bambole di
porcellana, sul ripiano alle sue spalle.
E poi accade qualcosa che costringe perfino il rapinatore a distrarsi
dai suoi intenti: la luce del lampadario sfrigola e trema. Subito dopo,
di colpo, il negozio piomba nel buio. Resta solo il chiarore dei
lampioni della strada a disegnare le sagome dei mobili. Il rapinatore
non lascia la presa dal braccio di Jane. Impreca, la strattona verso di
sé, ma poi tutti restano immobili, confusi. La porta è
chiusa, le finestre sono chiuse, eppure sembra che qualcuno abbia
appeno aperto un passaggio sull’Antartide.
Fa freddissimo.
Così freddo che ogni respiro dei presenti si condensa in una nuvoletta di vapore.
Nel giro di un istante, Jane il respiro se lo sente morire in gola. Si
è resa conto con orrore di star vivendo un deja-vù e
questo la terrorizza più di qualsiasi criminale armato. Non ha
il tempo di dire nulla. Sente la presa del rapinatore allentarsi fino a
lasciarla andare completamente. Poi un tonfo e la luce torna,
all'improvviso come se n'è andata.
La signora Sternwood urla e Jane trasale.
Il rapinatore è crollato sul pavimento. Immobile, riverso su un
fianco, ha la pistola tra le dita, ora bluastre. Le palpebre sono
rimaste spalancate, le labbra violacee sono socchiuse, il petto
è immobile. Qualcosa ricopre i suoi vestiti e la sua pelle:
minuscole scaglie di ghiaccio.