Run Idiot
2.
Run, idiot!
Stranamente, Tom non andava mai a cercarsi troppi guai. Erano i guai a
trovare lui e si divertivano anche un mondo a vederlo dannarsi.
Anya frugò nelle tasche dei jeans alla ricerca dei gettoni
per la lavatrice, sperando che andassero comunque bene quelli che aveva
avanzato la scorsa volta in un'altro negozio. Oggi doveva fare un
carico di vestiti neri, i più numerosi.
Tom entrò nella lavanderia, tenendole aperta la porta e la
ragazza si fiondò ad occupare la prima lavatrice libera;
aprì lo sportello dopo aver inserito il gettone e salutato
con un cenno del capo il proprietario del negozio, un hippy fumato e
con i capelli lunghi fino al culo.
Iniziò a tirare fuori gli indumenti sporchi ed infilarli
nella macchina, mentre Tom, con le braccia dietro la schiena,
fischiettava e la guardava chinarsi e rialzarsi, chinarsi e rialzarsi.
-Ma quanta roba c’è in quella borsa?- le chiese,
stupito. Era una normalissima borsa a tracolla, bianca, ma sembrava
contenere l’intero guardaroba di Bill.
-Tutta quella che sporcate!- sbuffò Anya, infilando nello
sportello l’ultima pila di magliette e boxer –Ne
producete una quantità industriale-
Tom sorrise alla figura della ragazza che, attivata la lavatrice, si
sedette sul piano d’appoggio e incrociò le gambe,
poggiando le mani dietro di sé e alzando lo sguardo al
soffitto.
Quanto odiava quel lavoro, Dei del cielo, quanto lo odiava!
-Scheisse- borbottò fra sé.
Tre anni della sua vita sprecati al servizio di quelle scimmie dal culo
d’oro. Aveva studiato lingue e ora tutto quello studio andava
buttato nel cesso; spagnolo, italiano, inglese, francese erano buoni
solo a mandare a quel paese la gente.
Comodo, avere dei genitori che se ne fregavano di lei, comodissimo. Se
solo avesse avuto una madre con un po’ di senno, non si
sarebbe “venduta” come serva a quella band di
idioti. Se solo l’avesse avuta una madre. Il caso voleva che
quella santa donna fosse un’alcolista.
Non che ad Anya fregasse più di tanto, in fondo, non se ne
faceva un cruccio, l’abitudine rende dura la pelle; di certo,
non era un buon motivo per fare la vittima.
Terminati gli studi aveva deciso che il paesino in cui viveva era tropo
piccolo per tutte le sue ambizioni. Voleva viaggiare, vedere posti
nuovi, conoscere altre persone a differenza delle solite quattro facce
che dall’infanzia la perseguitavano.
La soluzione giusta era arrivata con Natasha, sua cugina di secondo
grado. Parente di suo padre, aveva qualche anno più di lei e
faceva la truccatrice.
Sin da quando era piccola, Anya aveva guardato alla cugina come unico
punto di riferimento, una sorta di ancòra che la tenesse aggrappata ad
una vita un po’ più normale. Aveva vissuto con lei
e gli zii per un certo periodo, poi si erano dovuti trasferire per
lavoro. Lì ad Amburgo, Natasha aveva trovato
l’occupazione perfetta: la truccatrice di star.
-Calmina, tesoro, non sono di certo star- aveva sorriso ad Anya, quando
le aveva comunicato la notizia.
-Come no?- aveva mormorato, delusa, la ragazza.
-Sono una band di ragazzini, hanno tre anni in meno di te, niente di
speciale-
-Portami con te, Nati, ti prego! Non ce la faccio più a
vivere così, in questo posto di merda- l’aveva
supplicata.
-Dipendesse da me ti porterei in capo al mondo, ma sono appena stata
assunta e non ho alcuna voce in capitolo- si era scusata Natasha.
Sapeva, però, che la cugina non si sarebbe arresa tanto
facilmente.
Infatti, Anya si era fatta dare l’indirizzo e il nome della
persona che aveva contattato Natasha ed era giunta
all’Universal come una furia, pretendendo di parlare con il
menager della nuova band.
Attirato dal trambusto che quella ragazza stava creando nella hall,
David Jost in persona, che si trovava lì per caso, era sceso
e si era informato sul problema di quella tigre ribelle; Anya non aveva
di certo perso tempo.
-E’ lei il signor Jost?- gli aveva chiesto.
-Sì, sono io- aveva annuito l’uomo.
-Bene, io sono la sua nuova dipendente-
E da lì era partito tutto.
I compiti di Anya erano vari: rispondeva alle telefonate private dei
ragazzi ogni volta che erano occupati e in questo modo era diventata
fin troppo in confidenza con Simone e la signora Schafer, riordinava le
camere, lavava i vestiti dei quattro ragazzi, servizio che tutti gli
hotel di gran lusso in cui alloggiavano offrivano agli ospiti, ma,
visto che c’era lei, il menagement ne approfittava per
risparmiare un po’ di soldi e, in pratica, era al loro
servizio ventiquattro ore su ventiquattro.
Veniva pagata, naturalmente.
-Non abbastanza- precisava ogni volta che ne aveva
l’occasione e allora David le scompigliava i capelli,
divertito, e gli ricordava quello che gli aveva detto la prima volta
che si erano visti alla Universal.
-Signore, non importa se dovrò lavare i calzini
delle sue stelline, non importa se dovrò cambiare loro il
pannolino e preparargli il latte, l’unica cosa che mi importa
è andare via da questo posto di merda-
*
Tom si frugò in tasca in cerca del pacchetto delle
sigarette, mentre Anya tirava fuori gli abiti dalla lavatrice per
metterli nell’asciugatrice subito lì accanto. Una
volta usciti da lì, c’era il servizio di stiratura
in fondo al negozio per farli sistemare.
-Io vado fuori a fumarmi una sigaretta- disse Tom, alla ragazza.
-Ok, ma non sparire- gli raccomandò Anya.
Il rasta annuì ed uscì. Tirò fuori la
sigaretta dal pacchetto e l’accese, aspirando subito
dall’estremità e rilasciando poi il fumo dalle
labbra. Chiuse un attimo gli occhi, assaporando il sapore amaro della
nicotina e lasciando cadere un po’ di cenere per terra.
Aveva voglia di assaggiare il caffè americano accompagnato
dalla sigaretta, come vedeva fare in un sacco di film. Si era tolto il
berretto, allacciandolo ai passanti per la cintura dei jeans e si stava
sistemando la fascia, reggendo la sigaretta quasi finita tra due dita.
-Fuck, you bitch!- sentì urlare dal fondo della strada. Si
voltò per vedere da dove provenisse tutto quel trambusto e
fu urtato da una ragazza che scappava via. Lei gli andò a
sbattere contro in pieno, rischiando quasi di perdere
l’equilibrio e facendo cadere a terra una quantità
di CD. Tom la trattenne per il polso, evitandole la caduta rovinosa e
si chinò per aiutarla a raccogliere i dischi caduti, ma lei
lo prese per la giacca e lo incitò a correre, voltandosi a
vedere indietro l’uomo che la inseguiva, imprecando.
-Run, idiot!- urlò a Tom.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, preso dal panico, e si
fece largo tra la folla che si era fermata lungo il marciapiede,
pestando accidentalmente la sigaretta che gli era caduta per terra.
Cazzo, pensò, una scopata in
meno!
(Commento dell'autrice: Tiè, ti sta bene! XD)
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