Nota
dell’Autrice:
storia inventata dalla sottoscritta, puramente di fantasia, nulla a che
vedere
con la realtà (grazie al cielo). Niente scopo di lucro, né altri
intenti pretenziosi. Mi sono
dilettata per la prima volta con l’angst, vediamo cosa ne pensate voi. ;)
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Mi avevano detto che non avrei
sofferto, che non avrebbe
fatto male.
“Andrà tutto
bene, ragazzo.” Aveva detto uno degli uomini
vestiti di arancione, con un’espressione di quelle che
però sanno di non poter
mentire, che tradiscono le parole in modo così esplicito
che, anche se sei
agonizzante e torturato dal dolore che dilaga per il tuo corpo come
milioni di
violente scosse elettriche, non riesci a fare a meno di notarlo.
Non ricordavo molto. Non ricordavo
niente. Solo delle
risate, e noi, nell’auto. Io, Tom, Gustav e Georg.
E della musica nella radio.
Il CD di Gustav sulla traccia cinque,
una canzone triste,
una canzone bella, anche se non ero in grado di capirne tutto il testo.
Stavamo andando ad una festa.
Ridevamo, scherzavamo. Una
meritata serata di svago dopo gli impegni di lavoro.
Era solo una festa, dopotutto, niente di speciale, ma
eravamo ansiosi di andarci.
Il perché l’ho
dimenticato, o forse non l’ho mai saputo.
Erano strade tranquille, una notte
autunnale di pioggia e di
freddo come tante altre. Una nebbia leggera avvolgeva e soffondeva la
luce
pallida dei lampioni, creando un’atmosfera tetra che avevo
scoperto di
apprezzare. Si vedeva uno stralcio di luna, nel cielo. Soltanto quello,
l’unica
luce viva, l’unica scintilla tra il livore di quelle nuvole nere.
La guardavo, da dietro al finestrino,
senza pensare a
niente. Tenevo la fronte appoggiata al vetro gelido, io e Gustav sul
sedile
posteriore, Georg alla guida a discutere in toni accesi con Tom, al suo
fianco.
La responsabilità di Georg
con le auto è sempre stata
ineccepibile, tutti noi lo sapevamo. Non è stata colpa sua.
Quel camion non
doveva trovarsi lì, su quella corsia. Non doveva andare
così veloce.
Era successo così in
fretta…
Sono stato l’ultimo ad
accorgersi di tutto. L’ultimo a
sentire il proprio cuore fermarsi, l’ultimo a gridare.
L’ultimo ad accusare il
colpo.
Il primo ad essere tirato fuori da
quella gabbia di metallo contorto
lambito da fiamme e pioggia ghiacciata.
Senza conoscenza.
Ma so che la radio suonava ancora.
Quando era tornato il silenzio, la
mia testa era un buco
nero pulsante. Non vedevo, non sentivo. Non capivo perché
respirare mi faceva
così male.
L’impatto era stato
violento, un urto improvviso. Due enormi
occhi gialli che ci avevano guardato troppo da vicino, un mostro non
convenzionale
fuori contesto, allo sbando in una strada di quartiere che non aveva
mai visto
incidenti.
Prima di allora.
È strano da pensare, come
tutto quanto attorno a noi si
fosse spento all’improvviso, buio e silenzioso, un nido di
lamiere distrutte ed
occhi chiusi dal sangue, mentre la radio… La radio andava
ancora.
O forse me lo stavo immaginando. La musica, la stupenda voce della cantante… Forse mi aggrappavo a quello per non scivolare in un pericoloso oblio che mi tendeva le braccia.
Sempre la stessa canzone, una nenia
quasi crudele a fare da
sottofondo alla paura che dentro di me andava aumentando.
Non so quanto tempo passò,
cosa accadde in quel mentre. Sentivo
delle sirene che si avvicinavano, un’eco lontana che non
sapevo se fosse reale
o solo frutto della mia confusione, del mio terrore.
Qualcuno cominciò a
gridare qualcosa, qualcun altro rispose.
E io non sapevo nulla, nemmeno chi io
fossi e cosa fosse
accaduto veramente. Sentivo quelle voci, lontane anni luce da me, e le
urla, i
suoni delle sirene.
E mi chiedevo:
“Cos’è successo?”, con il
sapore di ferro in
bocca, mentre cercavo di chiamare – “Tom! Georg!
Gustav!” – senza trovare in me
la forza per riuscirci. La gola arida, le labbra incapaci di muoversi,
così
come tutto il resto di me.
Non vedevo nulla al di fuori di una
luce accecante, un lampo
bianco davanti a me, mentre le mie palpebre cedevano alla stanchezza.
“Bill, resta
sveglio.”
Un sussurro strozzato, flebile. La
voce di Tom mi parlava,
anche se non potevo vederlo.
Una mano mi stringeva il polso, o
forse la mano. Non
riuscivo più a capire cosa sentisse il mio corpo.
“Resisti, Bill.”
Gustav. Accanto a me.
Riuscii a vedere i suoi occhi solo
per un istante. Sorrideva
debolmente da dietro una maschera di rivoli scarlatti, il dolore
riflesso nel
suo sguardo che si stava spegnendo.
“Forza, Bill, tieni aperti
quegli occhi.”
Non riuscivo a capire da dove
provenisse la voce roca di
Georg, né come io potessi sentirla.
La mia mente mi diceva di muovermi e
fare qualcosa –
qualunque cosa – ma i miei muscoli non riuscivano a
rispondere.
Ma diedi retta a tutti loro. Era
l’unica cosa che sapevo di
poter fare, solo perché me lo chiedevano loro.
E poi era arrivato
quell’uomo. Portava una tuta arancione. Mi
aveva guardato negli occhi ed aveva sorriso.
Nonostante la mia vista fosse
annebbiata e confusa, lui lo
potevo vedere.
Mi tirò fuori, mi
liberò da quella morsa che mi stringeva lo
stomaco, facendomi risalire il sangue alla bocca.
Tossii. Lui non si curò
del mio sangue che gli colava sui
vestiti. Mi portò via, su una barella, attraverso
l’acqua e le fiamme,
attraverso la folla di sconosciuti che mi fissavano e mormoravano senza
che io
li riuscissi a sentire.
Il mio salvatore mi stringeva la mano.
So che cercai di chiedergli di mio
fratello e dei miei
amici, ma la mia volontà e le mie azioni erano concetti
separati, e l’uno non
riusciva più a raggiungere l’altro.
Fui portato in uno spazio bianco e
ristretto, ero circondato
da volti che non vedevo, non riconoscevo. L’uomo che mi aveva
salvato era
ancora con me.
“Andrà tutto
bene, ragazzo.” Diceva. Non faceva che
ripeterlo.
Io sapevo di non potergli credere.
L’ululato delle sirene
accompagnò il nostro viaggio. La mia
memoria sapeva dove stavamo andando, ma non riuscivo a trovare un nome
per quel
luogo, né a rendermi conto del motivo per cui ci dovessi
andare. Non sentivo
più il tempo.
Non ricordavo niente, se non la
paura. E le parole di Tom,
di Georg, di Gustav.
“Lotta, ragazzo, lotta con
tutte le tue forze.” Mi disse
l’uomo in arancione.
Vedevo pareti candide scorrere
rapidamente ai miei lati.
L’uomo mi stringeva ancora la mano.
“Coraggio,
ragazzo,” diceva. “Ce l’hai fatta fin
qui, tieni
duro ancora un po’.”
Ma io mi sentivo stanco, sfinito, e
cercavo disperatamente
di fare come diceva lui, come mi avevano detto mio fratello e i miei
amici,
cercavo di tenere gli occhi ancora aperti, ma non ce l’ho fatta.
Nuovi volti che non conoscevo erano
apparsi sopra di me
quando ho avvertito una specie di scintilla bruciante scoppiarmi nel
petto.
Poi tutto è diventato buio.
Ora che riapro gli occhi, non so cosa
sia successo, né dove
sono, né quanto tempo sia passato tra il presente e questo
mio ultimo ricordo.
Non sento niente.
Sono steso in un letto. Vedo un
soffitto bianco sopra la mia
testa, una luce troppo forte entrare da una grande finestra che ho
accanto. Gli
occhi mi fanno male.
“Ben svegliato,”
Dice qualcuno. Conosco questa voce. “Ci hai
fatto prendere proprio un bello spavento.”
Gustav.
Guardo avanti a me, e loro sono
lì, tutti e tre, Georg, Tom
e Gustav, seduti in fondo al letto. Sorridono. Non
c’è traccia di ferite sui
loro volti, e nemmeno di sangue. Non sono come li ho visti
l’ultima volta, come
li ricordavo. Sembrano tranquilli, sereni.
Stanno bene.
Sono salvi.
“Siamo rimasti qui tutto il
tempo, ad aspettare che tu ti
svegliassi.” Dice Tom. Il suo piercing scintilla
nell’intensa luce accecante.
Forse è il sole.
Ricambio i sorrisi, o perlomeno ci
provo. È bello sapere che
sono sempre stati qui, al mio fianco, qualunque cosa sia accaduto.
Tom mi appoggia una mano sulla
caviglia, al di sopra delle
coperte, ma io non avverto il suo tocco.
“Ci hai fatto prendere un
colpo, fratellino.”
Ed è evidente che fossero
preoccupati fino ad un attimo fa.
C’è sollievo nelle loro espressioni, e mi sento
rassicurato a mia volta
nell’averli qui.
“Cos’è
successo?” chiedo, e mi rendo conto che quasi non riesco a parlare.
Ho dei tubicini nel naso, un ago in
un polso, degli
elettrodi sul petto collegati ad un monitor che emette dei bip
intermittenti.
“Abbiamo avuto un
incidente, quasi un mese fa,” mi risponde
Georg con gentilezza. “Sei rimasto in coma per
settimane.”
Flash di eventi sconnessi mi balenano
davanti agli occhi,
istantanee di un film che mi sembra di aver già visto, ma di
cui non ricordo il
finale.
Ricordo bene, invece, la gelida paura.
“Ora dobbiamo
andare,” annuncia Tom, e all’improvviso mi
sembrano tutti e tre più tristi. “È
meglio che tu riposi.”
Si alzano, si dirigono verso la porta
aperta. Ciascuno di
loro mi saluta a modo proprio, prima di uscire. Gustav sventola la
mano, Georg
la solleva a mezz’aria. Tom indugia un istante sulla soglia.
Si ferma, si volta
indietro, mi guarda negli occhi.
“Sarà dura,
all’inizio,” mi sussurra, deglutendo. “Ma tu
sii
forte, so che puoi farcela,” Mi sorride, ma la malinconia che
vedo in lui mi
spaventa. “Vedrai, andrà tutto bene.”
Vorrei supplicarlo di restare, e
così anche gli altri.
Vorrei pregarli di non andare, ma la mia voce è scomparsa, e
Tom è già sparito.
Sono rimasto solo.
Ripenso all’incidente, a
come ho creduto che la mia vita
sarebbe finita lì, in quello schianto terribile, in quella
lenta agonia che ero
convinto mi avrebbe ucciso.
Ma loro mi hanno chiesto di
resistere, e io ho resistito. Ce
l’ho fatta.
Per loro.
Ad un tratto lo sguardo mi cade su un
giornale che c’è
appoggiato sul comodino accanto al letto. C’è una
grossa foto sulla prima
pagina, un’auto nera ridotta un cumulo di macerie metalliche
incendiate.
Leggo il titolo, e il mio cuore
sembra fermarsi.
No…
Non può essere.
So
che non è
possibile.
Eppure…
Improvvisamente mi rendo conto di quello che intendeva Tom con quella sua ultima frase.
Sono rimasto solo. Lo sono davvero.
Sento freddo. Un nodo di dolore mi
chiude la gola. Qualcosa
si è appena spezzato, dentro di me.
Non può essere, eppure
è così. Anche se non riesco a
crederci. Anche se non voglio
crederci.
È finita.
‘Incidente
mortale
coinvolge i Tokio Hotel: chitarrista, bassista e batterista muoiono sul
colpo,
frontman in coma, prognosi riservata.’
Non so se è un brutto
sogno o una realtà in cui vorrei non
trovarmi.
Non so perché proprio io.
Non so cosa sento, né se
sento qualcosa.
Non voglio più sentire nulla.
Non voglio vedere.
Mi volto dall'altra parte. Il dolore si è risvegliato in me tutt’un tratto, si accanisce così impietosamente da farmi piangere.
Chiudo gli occhi. Vorrei averlo fatto quando non li avrei più potuti riaprire.
Ricordo quella canzone,
l’unico particolare nitido di quella
notte. Ricordo la sua melodia, le sue parole.
Ora so che mi stava raccontando la
fine.
Mi avevano detto che non avrei
sofferto, che non avrebbe
fatto male.
“Andrà
tutto bene.”
Mentivano.
***
An
angelface smiles to me
Under a headline of tragedy
That smile used to give me warmth
Farewell - no words to say
beside the cross on your grave
and those forever burning candles
Needed elsewhere
to remind us of the shortness of our time
Tears laid for them
Tears of love, tears of fear
Bury my dreams, dig up my sorrows
Oh, Lord why
the angels fall first?
[Nightwish,
Angels Fall First]
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Note:
ebbene sì, anche la sottoscritta non ha saputo resistere al
fascino della
tragedia. Ho letto moltissime storie in cui Bill muore (anche se solo
un paio
le ho apprezzate veramente), ma stranamente la mia ispirazione mi ha
dettato
questa oneshot così inusuale e un po’ mistica. Ringraziate (o incolpate, a seconda) Lady Vibeke per questa oneshot, visto che è stata lei a farmi ascoltare questa canzone mentre nella mia testa già frullava l'idea di questa trama. XD
Vi prego, non prendetemi per una
sadica psicopatica, ma la
dovevo proprio scrivere, è stato più forte di me.
A voi il giudizio, ora. ^^
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