Cap. 1 Same city, different worlds
Eccomi qui, come promesso :)
In questo capitolo iniziamo a conoscere un po' le vite di Evan e Amanda
e delle persone che stanno loro attorno. Ho cercato di fare ricerche il
più approfondite possibile su New York (ovviamente nei limiti
consentiti da internet XD), ma se dovessi scrivere castronerie ditemelo
pure :)
Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei ringraziare chi ha deciso di
preferire/seguire e ricordare: a quanto pare il prologo era più
intrigante di quello che pensassi! Grazie mille!
Bene, ora vi lascio, buona lettura! :)
Cap. 1 Same city, different worlds
-Greg, ti odio. Sul serio.- quasi ringhiò al telefono.
La voce dall’altra parte rise. –Andiamo, Mandy. Volevo salutarti, dato che non ci siamo visti.
Amanda sospirò, scuotendo la testa e cercando al contempo di infilarsi le collant.
-E come mai non c’eri?- gli chiese. Sapeva benissimo la risposta, ma voleva sentirglielo dire.
Per la milionesima volta.
-Lo sai perché…- l’uomo si azzittì per
aumentare la suspense. -… perché è nato il mio
secondogenito!!- rischiò di trapanarle il timpano destro con
quell’urlo.
Ridendo divertita, recuperò le scarpe e si sedette sul letto per
indossarle. –A quanto mi par di capire sei molto orgoglioso della
cosa.- lo punzecchiò.
-Certo.- si stimò lui.
La giovane si concesse un sorriso, ripensando alla foto che le aveva
mandato Gregory. Era diventata zia di uno stupendo scricciolo di tre
chili e mezzo, con le guance più tonde che avesse mai visto e la
boccuccia sempre aperta in una smorfia.
Era fantastico e suo fratello aveva tutti i motivi del mondo per essere al settimo cielo.
-Sarai un papà stupendo. Ma già lo sai, no? Reese
è una bambina adorabile.- raggiunse la cucina e versò la
sua dose di caffeina nel latte. Bere caffè nero di prima mattina
l’avrebbe resa nervosa come solo un ascensore poteva farla
diventare.
Quindi era meglio evitare: ne andava dell’incolumità fisica e psicologica delle sue clienti.
E di sua sorella.
A quel proposito alzò gli occhi al soffitto, tentando di captare
alcuni rumori, ma non percepì nulla. Brutto segnale.
-Greg, ora dovrei andare. Devo svegliare Fran ed evitare di arrivare in
ritardo al lavoro.- lo interruppe bruscamente mentre elencava le doti
della sua primogenita.
-Non si è ancora svegliata?- chiese, stupito.
-Sai com’è. Tirarla fuori dal letto, alla mattina, era
sempre una lotta. Quando mamma ha capito che il mio metodo era
più efficace del suo, mi ha passato la palla.- disse, ingollando
la sua colazione in quattro e quattr’otto.
Sperò vivamente non le tornasse su durante il tragitto.
Solitamente mangiava sempre con calma, ma quel giorno Gregory aveva stravolto la sua routine mattutina.
Lo sentì ridacchiare. –Usi ancora quel metodo?
-Quale, quello della secchiata d’acqua? No, troppo dispendioso.
Mi sono modernizzata.- rispose. Appoggiò la tazza nel lavello ed
addentò l’ultimo biscotto, prima di andare in bagno per
finire di sistemarsi i capelli. –Greg, devo veramente andare,
ora. Mi dispiace.- si scusò, mentre terminava di intrecciare i
lunghi capelli neri.
-Ho capito, tranquilla. Buona giornata, sorellina. E vedi di vendere tanti abiti, d’accordo?- la salutò.
-Sarà fatto. Ciao Greg!
Una volta conclusa la conversazione, schizzò fuori dal bagno per
indossare la leggera giacca chiara comprata apposta per il lavoro.
Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e, appurata la
presenza del sole, inforcò gli occhiali.
Gettò il cellulare nella borsa capiente assieme al portafogli ed
alle chiavi e uscì. Una volta chiusa la porta con due mandate,
mandò un messaggio a sua sorella.
Sapeva che quello avrebbe innescato la fastidiosa sveglia che le
aveva impostato e che, quasi sicuramente, l’avrebbe buttata
giù dal letto.
Non attese di sentire le urla di protesta di Frances e s’incamminò lungo le scale.
Fortunatamente riuscì a prendere la metropolitana che
partiva da Broadway e serviva tutta la zona delle università,
compreso il campus della Columbia, dove lei stessa si era laureata.
Come tutte le mattine cercò di trovare un angolino libero in cui
potesse respirare, ma fu difficile. I teenagers avevano ripreso le
lezioni proprio in quei giorni e non avevano ancora orari prestabiliti,
motivo per cui ce n’erano in abbondanza anche sulla corsa delle
nove e tre quarti.
Tentò di farsi largo tra due persone, chiedendo permesso con fare non molto deciso.
“Odio la metro!”, pensò una volta riuscita a
passare. Si riassestò la giacca ed afferrò il palo di
sostegno, concentrandosi su quello che vedeva oltre i finestrini.
Non che le gallerie di cemento che correvano sotto New York fossero
interessanti, ma l’aiutavano a distrarsi. Ritrovarsi in spazi
piccoli ed affollati non era un granché per una persona che
soffriva di claustrofobia sin da piccola.
Per la fretta aveva dimenticato l’ipod in camera e si era
data della cretina per tutto il tragitto da casa alla fermata.
Sbuffando lanciò un’occhiata alle persone attorno a lei e
poi al tabellone. Mancavano ancora dieci fermate alla sua meta.
“Un fantastico rientro dalle vacanze, non c’è che
dire.”, si disse, appoggiando la fronte contro il freddo acciaio
del suo sostegno.
Sperò con tutto il cuore che il lavoro non le volesse riservare altre piacevoli sorprese.
Per poco non sbriciolò il cellulare che reggeva tra le mani.
David gli aveva appena scritto di quello che era successo dopo che lui
se n’era andato per raggiugere il suo nuovo posto di lavoro.
Suo padre aveva fatto la sua comparsa davanti ai media senza degnarsi
di coprirsi e la cosa aveva alquanto sconvolto i giornalisti.
Nonostante la società soprannaturale fosse ormai cosa
nota agli umani, questi non erano abituati ai loro comportamenti. E per
quanto potessero apprezzare un corpo nudo, per loro risultava comunque
strano vederlo esibito con tanta naturalezza.
Per i licantropi era una cosa assolutamente normale, ma sarebbe stato
difficile spiegare il perché senza passare per maniaci.
Come se non bastasse, Dearan aveva fatto il gradasso come suo
solito, vantandosi della forza del suo branco. Quello sfoggio di potere
sulla pubblica piazza autorizzava gli altri clan a sfidarlo, in modo da
stabilire la verità di quanto affermato.
Sarebbe stata una buona notizia, almeno per lui, se solo New York non
avesse avuto un sistema di potere totalmente diverso da quello che
c’era in Scozia.
Lì i clan non avevano più di cent’anni e si erano
costruiti regole di comportamento diverse da quelle dei loro
predecessori europei.
Non vigevano quasi mai le successioni patriarcali, ma gli Alfa erano
nominati a furor di popolo. Inoltre, i branchi potevano essere formati
dagli individui più disparati, senza nessuna esclusione.
L’unica cosa certa era che non c’erano vampiri.
L’odio tra le due razze era insito nel sangue di entrambe e non sarebbero mai riusciti a combatterlo. Nemmeno volendo.
-Di' ad Alastair di tenere a bada mio padre. Cerchiamo di sopravvivere
almeno una settimana nella nostra nuova casa.- scrisse in risposta al
messaggio dell’amico.
-Ci proverò, ma non assicuro niente.- fu tutto ciò che riuscì a promettergli Dave.
Sospirò, tentando di calmarsi.
Sperò vivamente che la giornata non finisse peggio di com’era iniziata.
Quella che aveva davanti avrebbe dovuto essere una delle
migliori squadre della sezione speciale dell’ESU di New York,
ossia l’Emergency Service Unit.
Era stata creata quando un poliziotto, Richard Rogers, aveva
neutralizzato da solo una squadra di spacciatori asserragliati nel loro
bunker. Nessuno era riuscito spiegarsi la dinamica dei fatti, fino a
quando egli stesso aveva rivelato la propria natura di licantropo,
tenuta nascosta per non compromettere la fiducia che aveva instaurato
con gli altri membri della squadra.
Da allora Rogers era a capo dell’Emergency Service Unit For Dangerous Matters,
ribattezzata ESUDM. Grazie alla sua disponibilità erano state
create cinque squadre, composte da una decina di elementi ciascuna.
E dieci di quei cinquanta elementi ora si trovavano proprio davanti ad Evan.
-Signori, questo è il capitano Evan MacGregor. Da oggi in poi
sarà al comando della squadra.- venne presentato dallo stesso
Rogers, che si occupava personalmente di introdurre i nuovi membri.
Ci fu qualche mormorio e qualche saluto, a cui il licantropo rispose
con un rigido cenno del capo. Sapeva che non era colpa loro se suo
padre era un perfetto idiota, ma sorridere sarebbe stato proprio da
ipocriti, in quel momento.
-MacGregor, ti lascio a far conoscenza con i tuoi nuovi lupacchiotti.-
il comandante gli diede una pacca sulla spalla prima di allontanarsi.
Lo seguì con gli occhi per qualche istante, mandando a memoria
il suo odore animale. Era sempre bene riconoscere un lupo col naso,
prima di trovarselo davanti. Se si arrivava al contatto visivo e quello
che ti trovavi di fronte era un nemico, allora eri spacciato.
-Allora…- lentamente si voltò verso i suoi sottoposti.
–Siete quattro licantropi e sei umani. Nessun vampiro, vero?
Una donna dai folti ricci neri si schiarì la gola.
-C’è solo un vampiro che lavora nel distretto. E non
è un membro attivo, funge più da informatore.- lo
informò. Annuì lentamente.
“Niente succhiasangue. Almeno questa mi è stata
risparmiata.”, pensò sollevato. –Grazie, tenente.-
disse. –Di che branco fate parte?
-Di uno abbastanza vecchio da non voler grane.- fu la risposta. I due
si scrutarono per qualche istante, saggiando le rispettive auree.
–Capitano.- lei fu la prima ad abbassare gli occhi, facendo un lieve cenno del capo.
Riconosceva la sua autorità in quanto lupo.
Fece per risvolgersi al marcantonio al suo fianco quando l’aria
attorno crepitò. Con la coda dell’occhio colse il
cambiamento negli occhi di uno dei poliziotti, prima che questo
snudasse le zanne e gli si avventasse contro.
-Io non riconosco la tua autorità!- ringhiò.
Riuscì ad attutire il colpo trasformando in parte le proprie
mani, ma non ad evitare la scrivania alle loro spalle. I due ci
finirono esattamente sopra, distruggendola.
Rotolò sulla schiena, allontanando il licantropo con un calcio
piazzato poco sotto la cavità toracica. Quello ruzzolò
per qualche metro, ma poi si rialzò, facendo perno su mani e
piedi.
A giudicare dalla sua forza non faceva parte della triade a capo del branco, ma non era nemmeno un semplice lupo.
Un Pretendente, quasi sicuramente al ruolo di Gamma.
-Osi sfidarmi?- chiese con voce metallica. L’adrenalina gli
scorreva in corpo, ampliando al massimo i suoi sensi e distorcendo il
suo timbro vocale.
-Sì.
Scattarono entrambi in avanti e si scontrarono a mezz’aria.
L’urto fu talmente violento che fece vibrare tutti i vetri
presenti nella centrale.
Quando toccarono terra, Evan aveva una mano artigliata premuta sul petto del suo avversario ed i canini leggermente allungati.
-Riconosci la mia autorità, ora?- gli chiese, soffiandogli sul viso.
Quello restò immobile, supino. Se fosse stato in versione
animale gli avrebbe mostrato il ventre come segno di sottomissione.
-Bene.- lo lasciò andare, raddrizzandosi e dandosi una sistemata. –Altre domande?- chiese, guardandosi intorno.
Quasi tutti i poliziotti presenti si erano fermati ad osservare lo scontro, ad esclusione di Rogers e qualche veterano.
-Lo scusi per il suo comportamento: Eric tende ad essere un po’
stupido, a volte.- la lupa di poco prima si fece avanti, dando uno
scappellotto sulla nuca al giovane licantropo che l’aveva appena
sfidato.
Quella confidenza gli suonò sospetta. –Fate parte dello stesso branco?
-No, ma lavoriamo insieme da due anni, ormai. Lo conosco.- rispose lei, impedendo all’altro di ribattere.
-D’accordo, tenente… Simmons. Lei avrà il compito
speciale di sorvegliarlo, almeno fino a quando non gli entrerà
un po’ di sale in zucca.- disse. Nel vedere l’espressione
di Eric non poté impedirsi di sogghignare, soddisfatto del
proprio operato.
-Come vuole, capitano.- fu la risposta dopo un attimo di confusione.
-Non ho bisogno di una balia!- si schermì il giovane poliziotto.
Evan lo freddò con un’occhiata dei suoi strani ed
inquietanti occhi. Andavano dal grigio al blu, fino a virare verso il
color ametista. –Ma solo di un po’ di disciplina.
Impara a valutare meglio il tuo avversario, prima di attaccarlo.
L’acceso rossore sulle guance del suo interlocutore gli fece
capire di aver esagerato. Fece per ritrattare le proprie parole, ma si
limitò ad addolcire leggermente il tono ed aggiungere:-E’
una regola fondamentale nel nostro mondo. Ti salverà la vita, in
futuro.
-S-sì, capitano.- il mormorio fu così flebile che pensò di esserselo immaginato.
-Rimettiamo a posto questo macello. Poi potremo finire di far
conoscenza.- si chinò in avanti ed afferrò alcuni pezzi
di legno.
Dopo un attimo d’esitazione, il giovane Pretendente si fece avanti ed iniziò ad aiutarlo con solerzia.
Evan dovette trattenere un sorrisetto, orgoglioso della propria azione intimidatoria.
Per essere il primo giorno lavorativo dopo le sue due settimane di riposo, stava andando peggio del previsto.
Lavorava da Kleinfeld da due anni e ormai aveva l’esperienza
necessaria per destreggiarsi tra la moltitudine di abiti che custodiva
il negozio.
Questo, però, non autorizzava le sue superiori a passarle tutte le clienti più schizzate.
Dovendo trattare con donne in procinto di sposarsi, era importante
saper mantenere i nervi saldi ed il sorriso sempre stampato sulla
faccia. Non che Amanda fosse una persona impaziente, ma cavoli, a tutto
c’era un limite!
All’inizio della mattinata aveva dovuto seguire una sposa che
aveva appena scoperto di essere incinta e quindi cercava un abito che
non la facesse sembrare una balenottera spiaggiata il giorno delle
nozze. Poi c’era stata la regina dell’indecisione e, dopo
pranzo, quella con solo due settimane di tempo per comprare il proprio
vestito.
Ed ora c’era lei: la sposa con l’amico omosessuale.
A peggiorare le cose il fatto che fosse uno stilista abbastanza
affermato e che quindi se ne intendesse di moda.
Per quanto fosse pacifista fin nel midollo, avrebbe volentieri preso
ago e filo per cucirgli la bocca. Non aveva smesso di parlare da quando
aveva visto la prima proposta e le aveva fatto venire un mal di testa
coi fiocchi.
Esistevano due cose in grado di farla diventare intrattabile: gli
attacchi di panico dovuti alla claustrofobia ed i mal di testa.
“Rimani concentrata, è solo un cliente. Se ne andrà
e non lo vedrai più.”, si disse, cercando di trattenersi.
Detestava imbottirsi di medicine e non aveva nessun rimedio omeopatico
a portata di mano, quindi avrebbe dovuto sopportare.
-Che ne pensi?- la voce della sposa, Jade, la strappò ai suoi pensieri.
Rialzò gli occhi per capire se la ragazza si stesse rivolgendo a lei o a Brody, il suo accompagnatore.
Quando capì che la domanda era rivolta a lei, raddrizzò
le spalle e fissò il riflesso della sua cliente allo specchio.
–Be’… questo colore non si sposa benissimo con la
tua carnagione. Preferisco il secondo che hai provato.- riuscì a
sfoggiare un sorriso cortese.
-Mhmm… tu credi? Brody?- la sua interlocutrice si voltò di tre quarti, rimirandosi sulla superficie riflettente.
-Ti allarga i fianchi.- fu diretto in modo disarmante.
La bocca di Jade cadde verso il basso in un’espressione di totale
shock. Subito rimpiazzato da sdegno. Raccolse le gonne, impettita e si
riavviò in camerino.
Amanda roteò gli occhi senza farsi notare e la seguì,
chiudendosi la porta alle spalle. –Tu cosa ne pensi?- chiese.
-Che è uno stronzo!- sbottò quella.
“Permalosa, la ragazza.”, pensò, trattenendosi dal
commentare ad alta voce. –Non mi sembrate molto in sintonia.-
dovette osservare.
Al che la sua sposa le lanciò un’occhiata spaventata, a
cui lei non seppe dare spiegazione, e poi si lisciò le pieghe
del corpetto. Preferì non indagare, lasciandole un po’ di
spazio.
Si stava occupando di risistemare alcuni vestiti dentro le proprie
custodie quando sentì un singhiozzo. Si voltò, perplessa
e domandò:-Jade, tutto ok?
La giovane scosse la testa, tentando di frenare il flusso di lacrime.
Mandy allungò una mano dietro di sé e le porse la scatola
di fazzolettini presente in ogni camerino. Le lacrime erano
all’ordine del giorno, in quel posto.
-Io… io non so se posso sposarmi…- farfugliò.
La donna si accigliò. –Come? Perché non riesci a trovare l’abito? Ma vedrai che…
-No, non è per l’abito!- la interruppe. –E’ per Brody!
-Per Brody?- ripetè, ancora più confusa. Era andata in crisi solo per la bocciatura dell’abito?
Le si avvicinò, tentando di stabilire un contatto visivo, ma la
ragazza rifuggiva il suo sguardo. Le parve di vederle le guance rosse,
ma pensò fosse dovuto allo sfogo. –Non posso aiutarti se
non mi dici che sta succedendo…- mormorò, tentando di
rassicurarla.
Le aveva fatto scoppiare il mal di testa, ma non voleva vederla in
quello stato. Non quando stava cercando l’abito per il suo giorno
più bello.
Inaspettatamente Jade le gettò le braccia al collo e
l’abbracciò stretta, rischiando quasi di soffocarla.
Amanda ricambiò in ritardo, vistosamente a disagio.
Le ci voleva molto tempo per raggiungere un grado di confidenza
tale per farsi abbracciare in modo così sentito da qualcuno. Era
estremamente riservata con chi non conosceva e questo la portava ad
essere un po’ schiva.
-Sono andata a letto con Brody.- finalmente ecco svelata la verità.
-Be’, ma lui è omosessuale, quindi non vedo dove sia il
problema. Cioè, c’è un problema, ma si può
risolvere, no?- le disse. “Un tradimento. Questo mi mancava,
oggi.”, pensò.
Scuotendo nuovamente la chioma bruna la sposa sciolse
l’abbraccio, la guardò negli occhi e sussurrò:-Lui
non è gay.
“Ops.”, fu l’unica cosa che riuscì a pensare.
–Forse è il caso che vi lasci qualche minuto per parlare,
d’accordo?- le propose.
L’altra annuì, asciugando gli ultimi residui di pianto dalle guance.
Amanda aprì la porta ed invitò Brody ad entrare al posto
suo. Gli fece un sorriso d’incoraggiamento e poi si
allontanò.
Raggiunse il salone, approfittando di quella inaspettata pausa per cercare di riprendersi dall’emicrania.
-Ehi, Amanda, che fai qui fuori? Hai già venduto?
Smise di massaggiarsi le tempie ed alzò lo sguardo, incontrando
il viso sorridente di Vivian. –Oh, Vi, ciao.- le sorrise
brevemente. –No, sono in pausa.
-Crisi da cartellino?- tirò ad indovinare.
Scosse la testa: il prezzo dell’abito non c’entrava. –Peggio.
-Oddio, cioè?- le si avvicinò, curiosa oltre ogni dire.
Con fare cospiratorio si sporse verso di lei e sussurrò:-Non posso dirtelo.
Al che Vivian mise il broncio ed incrociò le braccia al petto,
mostrandole il proprio disappunto. Sapeva quanto fosse pettegola e non
le andava di rivelare a tutto lo staff che sua sposa aveva un problema
di fedeltà.
-Rispetto la sua privacy. Dovresti farlo anche tu.- la riprese.
-Ah, sempre la stessa storia! Sei troppo bacchettona!- brontolò,
allontanandosi. Vivian era una ragazza molto simpatica, ma era
veramente troppo curiosa. Non avrebbe mai rischiato di ubriacarsi con
lei nei paraggi, chissà cosa avrebbe potuto scoprire.
Attese qualche altro minuto, sperando che la situazione si fosse
risolta, poi si avviò verso il proprio camerino. Stava per
abbassare la maniglia quando avvertì dei rumori sospetti
provenire dal suo interno.
Si bloccò con la mano a mezz’aria, per poi arrossire subito dopo ed allontanarsi con uno scatto.
“Oddio!”, pensò distogliendo lo sguardo.
-Mandy… che succede?- si sentì chiedere all’improvviso. Sobbalzò, per poi voltarsi.
-Gabrielle, mi hai spaventata!- esclamò.
-Ho visto.- ridacchiò la nuova arrivata. Poi si focalizzò sulla porta. –Problemi?
Al che Amanda non poté fare a meno di arrossire. –Ehm…
Gabrielle si avvicinò con piglio deciso e, dopo un breve
ascolto, spalancò di colpo la porta, cogliendo i due sul fatto.
–Signori, vorrei ricordarvi che questo è un negozio
d’abiti da sposa, non un hotel. Vi prego di uscire, risolvere i
vostri problemi e, una volta fatto, fissare un nuovo appuntamento.
Riuscì a dire il tutto rimanendo seria e mostrando il suo
miglior sorriso professionale. Chiunque si sarebbe accorto della velata
minaccia nascosta nelle sue parole e, a quanto pare, sembrò
capirlo anche la coppia, che si rivestì in fretta e si
affrettò ad andarsene.
-Da non credere.- sbuffò, passandosi una mano tra i capelli castano chiaro, dal taglio scalato.
-Grazie.
La donna si voltò verso l’amica. –Figurati. Ma
dovresti avere un po’ più polso…- le fece notare.
-E piombare in camerino per interrompere due che stanno copulando?!
Forse con una crisi di panico e due emicranie in atto!- replicò,
scoppiando a ridere subito dopo.
-Già, non sei il tipo.- Gabrielle si aggregò.
Risero per un altro po’, poi si diedero un contegno e riassunsero
un’aria professionale. Amanda si sistemò l’orlo
della camicetta e poi disse:-Chi mi aspetta ora?
-La signorina Parker.- fu la risposta. Gabbie era una direttrice
vendite formidabile, sempre organizzata. E una delle persone che la
conoscessero meglio al mondo, dopo i suoi fratelli.
-D’accordo, vado ad accoglierla.- sorrise.
-Meglio, perché mi sembrava un po’ impaziente.- commentò.
Mandy sospirò. –Tutte a me le pazze, oggi, eh?
Stava finalmente tornando a casa dopo il primo, stressante
giorno di lavoro quando il cellulare vibrò nella tasca dei suoi
pantaloni.
Lo ignorò e raggiunse la sua moto nera come la notte. Fece
scorrere gli occhi sulla carrozzeria per accertarsi che nessun lupo
avesse lasciato la propria marcatura e poi gettò una gamba oltre
la sella, accomodandosi poco dopo.
Si sistemò in modo da aver la moto ben salda tra le cosce
e finalmente estrasse il cellulare. David l’aveva
convinto a modernizzarsi, dato che doveva rimanere al passo coi tempi
ed essere un lupo moderno.
Di qui il motivo per cui ora si ritrovava a strisciare il pollice per
sbloccare lo smarthphone e leggere quel benedettissimo messaggio.
Fece scorrere rapidamente gli occhi su quelle poche parole. Rimase a fissare lo schermo interdetto e le rilesse nuovamente.
“Che significa abbiamo due grossi problemi?”, si chiese,
accigliato. Cioè, c’era quasi sempre qualcosa da sistemare
all’interno del branco, ma nulla che portasse Dave a mandargli un
messaggio del genere, ripetuto per ben quattro volte.
Premette il tasto di chiamata ed attese che l’amico rispondesse.
-Alla buon’ora!- brontolò quello.
-David, che succede?- chiese, andando dritto al sodo.
-Brutta giornata?
-Che succede?- ripetè nuovamente, mantenendo la voce ferma. Non gli piaceva ripetersi né girare attorno alle cose.
Lo sentì sbuffare. –Non hai letto giornali o guardato i notiziari locali, vero?- gli domandò per contro.
Si accigliò ancora di più. –No. Ma se si tratta di
mio padre posso immaginare cosa ne sia venuto fuori.- disse. Non si
sarebbe scomposto, dato che non era la prima bravata del suo caro
genitore.
-Anche.- rispose dopo un’esitazione Dave.
-La smetti di girarci attorno?!- finì per sbottare. Se era vero
che l’apatia era l’unico sentimento che mostrava al padre
(e la maggior parte delle volte anche nella vita matrimoniale), era
altrettanto vero che David era l’unico in grado di tirargli fuori
una qualche emozione. E tra quelle c’era l’impazienza.
E dire che non era mai stato una persona impaziente… ok, forse
non lo era per certe cose, ma per altre decisamente sì.
-Va bene, va bene! Che caratteraccio che ti ritrovi.- sbuffò,
infastidito. –Abbiamo già cinque lettere di sfida da parte
dei branchi della Grande Mela.- rivelò.
Evan prese la notizia con filosofia. –Avevo giusto bisogno di sgranchirmi un po’.
-Se non ti conoscessi direi che questa era una frase da spaccone. Il
problema è che è la pura verità.- replicò
il suo interlocutore.
-Hai altro da dirmi?
-Sì.- disse solo.
-Devo tirarti fuori le parole di bocca?- lo minacciò.
Lo sentì sospirare. –Sono sicuro che la notizia non ti
piacerà per niente.- ammise, titubante. Non capiva perché
doveva esser sempre lui il latore di brutte notizie. Ah, sì,
giusto: era l’unico che Evan non avrebbe sbranato.
-David Rockbell, per favore. Ho veramente bisogno di una doccia calda
per non tornare da uno dei miei sottoposti e prenderlo a pugni.- lo
pregò, massaggiandosi le tempie. A fine giornata il vero
piantagrane del suo nuovo gruppo di lavoro non si era rivelato Eric, ma
lo spocchioso Marcus, un licantropo grande quanto un armadio e con un
marcato accento canadese.
-D’accordo. Dopo mi racconterai, eh!- disse, tentando di
blandirlo. All’ennesimo incitamento decise di sganciare la bomba.
–Crystal ha fatto un annuncio ufficiale.
-Riguarda una delle sue sfilate?- domandò, non capendo dove
fosse il problema. Conosceva bene le manie di protagonismo della
moglie, nulla di nuovo.
-No. Riguarda il rinnovo delle promesse matrimoniali… con un
grande secondo matrimonio, fatto per i media.- la sua voce andò
scemando man mano che gli rivelava i particolari. Alla fine si
ritrovò muto, in attento ascolto.
Poteva sentire il respiro di Evan, bloccato da qualche parte all’altezza del petto.
-Capisco.
E dopo quello la conversazione venne interrotta.
David si mise le mani nei capelli, temendo che l’amico sarebbe
arrivato a casa come un tornado e avrebbe fatto saltare alcune teste.
-Ben tornato, amore.
Evan le lanciò un’occhiataccia in grado di incenerire
all’istante qualsiasi cosa potesse essere considerata
suscettibile di combustione. –Cosa significa?
-Cosa?- chiese lei, facendo la finta tonta.
Approdati nell’era moderna, Crystal aveva ben presto capito che
fingere di rientrare nel cliché della “modella bionda e
stupida” le sarebbe stato utilissimo, soprattutto nel mondo del
lavoro. In verità sapeva come usare il cervello ed era anche
parecchio calcolatrice, il tutto grazie ai preziosi insegnamenti di
papà Forbes.
Essere figli di licantropi ti toglieva l’innocenza, poco ma sicuro.
-Crystal, non tirare la corda. Perché quell’annuncio?- le
chiese. Il più delle volte le lasciava fare quello che voleva,
compreso portarselo in giro ai party e mostrarlo al mondo come fosse un
trofeo. Ma se c’era una cosa che lo mandava fuori di testa era
sapere che le persone avevano agito alle sue spalle.
Per un tradimento del genere valeva la pena di rispolverare un po’ il vecchio e aggressivo Evan.
Lei allora si alzò, scavallando le lunghe gambe e si
ravviò i capelli con noncuranza. –Andiamo, cosa vuoi che
sia?- brontolò.
-A parte un’invasione della privacy?- domandò, suonando gelidamente ironico.
-Sono una modella, Evan. Vivo per avere i riflettori puntati addosso.-
gli ricordò con piglio deciso. A quanto pareva era una cosa che
voleva portare fino in fondo.
“Non ho voglia di discutere.”, pensò, chiudendo per
un attimo gli occhi. Se solo pensava alla tanto meritata doccia che lo
aspettava si sentiva male. Aveva veramente bisogno di staccare la
spina: anche gettarsi nel lago di Lochness sembrava un’opzione
più appetibile del parlare con la sua calcolatrice ed
egocentrica compagna.
-Vuoi un altro matrimonio? Fantastico. Io sarò lì a fare
la mia parte, come un perfetto manichino.- tagliò corto.
-Non chiedo di meglio: è proprio così che ti voglio.- commentò lei, incrociando le braccia al petto.
Si confrontarono per qualche istante, in silenzio, occhi negli occhi.
Alla fine lui se ne andò sbattendo la porta della camera da
letto.
Scese rapidamente le scale e raggiunse in fretta la zona in cui abitava David.
Entrò senza nemmeno bussare, cogliendo l’amico in piena
crisi da lavori manuali. La sua entrata ad effetto mandò
all’aria i progressi dell’ultima mezz’ora e si
beccò un colorito vaffanculo da parte dell’inglese.
-Prendo a prestito il tuo bagno.- disse solo.
Quello fece per protestare, ma non gliene lasciò il tempo. Prima
l’acqua calda, poi gli strepiti di Dave ed infine tutto il resto.
Se fosse rimasto del tempo avrebbe pure dormito.
Quando aprì la porta del proprio appartamento e se la
richiuse alle spalle, Amanda si sentì in pace col mondo.
Aveva passato le due settimane di ferie a casa dei genitori,
nella loro stupenda fattoria in Kansas e si era liberata di tutto lo
stress lavorativo accumulato durante l’anno.
Purtroppo quel mondo di verdi praterie e stupendi tramonti era stato
abbandonato a causa del rientro a New York. Nonostante avesse imparato
ad amare quella città, le sembrava sempre troppo artificiale per
i suoi gusti: lei amava la natura, non le gabbie di cemento.
A volte era insofferente verso la più piccola cosa e,
durante il tragitto verso casa, si era sentita proprio così. Per
cui aveva affrettato il passo e preso la prima metropolitana
disponibile, sperando di arrivare il più presto possibile e
crogiolarsi sotto il getto dell’acqua calda.
Lasciò cadere la borsa sul divano e si tolse i tacchi, dolorante.
Poi, camminando sulle punte dei piedi e canticchiando un motivetto tra
le labbra, si chiuse in bagno. Attese che lo scaldabagno facesse il suo
dovere e poi s’infilò sotto il getto, sospirando beata.
Si concesse tutto il tempo del mondo, fino a quando le sue mani
non iniziarono a chiedere vendetta, ormai completamente raggrinzite.
Solo allora uscì ed indossò una canotta ed un paio di
leggins.
Fece per dirigersi in cucina, intenzionata a prepararsi qualcosa di buono per cena, quando il campanello suonò.
Si voltò verso la porta, perplessa e poi andò ad aprire.
-Mandy, per fortuna che sei a casa!- esclamò sua sorella, gettandole le braccia al collo.
Cercò di farla staccare, ancora più confusa. –Fran, che ci fai qui?
E fu in quel momento che comparve Andrew, sul viso un’espressione
da cane bastonato. –Mi dispiace, Amanda, ho provato a
fermarla…- iniziò, dolente.
-Ho fatto saltare il forno.- concluse per lui la fidanzata. Lei
sgranò gli occhi e la fissò letteralmente sconvolta.
-Cos’hai fatto?!- strillò, non potendoselo impedire.
Sicuramente quell’urlo era stato udito in tutto il condominio.
Frances si staccò ed annuì. –Sì…
volevo cucinare qualcosa per me e Drew, ma… devo aver sbagliato
qualcosa.- ammise, entrando nell’appartamento senza essere
invitata.
Sua sorella la seguì con lo sguardo per poi far segno al ragazzo
di entrare. Prese un respiro profondo e poi chiuse la porta.
–Bene. Io non so come tu abbia potuto far esplodere il forno, ma
tant’è. Volete che vi prepari la cena?
-Sarebbe magnifico!- Fran battè le mani, entusiasta. Nonostante
fosse la figlia di mezzo, era lei quella più viziata, in
famiglia. Non che fosse una cattiva persona, per carità, ma non
riusciva a fare quasi nulla da sola.
A parte studiare.
Lo studio era un’attività condivisa da tutta la famiglia
che, nonostante la grande fattoria da gestire, vantava ben cinque
lauree in cinque campi diversi.
Emergendo dai propri pensieri, Amanda si affrettò a raggiungere
la cucina. Recuperò tre tovagliette americane e le passò
alla sorella, chiedendole di apparecchiare il tavolino sotto la
finestra.
Quando aveva visto per la prima volta l’appartamento, aveva
deciso che avrebbe consumato i propri pasti sotto l’infisso, dato
che da lì si godeva di una buona vista su uno dei piccoli parchi
del quartiere. Hamilton Heights era una delle più interessanti
ed affollate zone di New York; non era la migliore ma nemmeno la
peggiore: le piaceva e adorava l’atmosfera intima che si
respirava nelle vie laterali alla grande arteria di Broadway Avenue.
Bastava poco per isolarsi dai rumori della città…
be’, in alcuni casi ci voleva un po’ più di
fantasia, ma lei non ne era a corto.
-Vuoi una mano?- le chiese Andrew, offrendosi volontario.
-Come?- si riscosse. –Oh… magari, grazie. Potresti recuperare tre bistecche dal freezer?
Lui annuì ed aprì lo sportello, tirandone fuori poco dopo
una confezione di carne. La mise sotto l’acqua per scongelarla ed
attese altre istruzioni. –Che intendi cucinare?-
s’informò.
-Braciole alla birra ed erbe aromatiche. Nulla di complicato.-
spiegò. –A questo proposito… vado a recuperare le
erbe.
Attraversò l’ampio open space adibito a zona giorno e poi
scavalcò il davanzale della finestra, atterrando sul piccolo
ballatoio della scala antincendio. Come ogni edificio sopra i tre piani
della Grande Mela, il suo palazzo era dotato dell’immancabile e
molto americana serpentina di ferro che collegava esternamente tutti i
piani.
E che consentiva ai ladri di intrufolarsi nelle case altrui col minor sforzo possibile.
Si sporse in avanti e staccò qualche fogliolina dal piccolo
giardino aromatico che coltivava lì fuori. Una volta fatto
tornò in casa e schizzò verso la cucina.
-Come mai così arzilla?- le chiese sua sorella, sbirciandola dal
divano. –E’ successo qualcosa di bello al lavoro?
Lei le lanciò un’occhiata. –Lo sai che cucinare mi mette allegria. Mi rilassa.- le ricordò.
-Oh, giusto. Mi chiedo perché tu non sia già sposata e
con due figli.- bofonchiò, tornando a sprofondare tra i morbidi
cuscini.
Lei arrossì violentemente. –Fran… lo sai che…- balbettò.
-Sì, che stai aspettando l’uomo della tua vita dopo quel coglione di Wayne.- si rispose da sola.
-No, non è per quello! Ho solo ventidue anni!- sbottò.
Frances comparve da dietro lo schienale del divano. -E allora?
-Amanda, non darle retta e prenditi i tuoi tempi.- le disse Andrew. A
volte si chiedeva come quello stinco di santo potesse sopportare la sua
sorellona. Ma poi si ricordava delle sbornie moleste del ragazzo e
tutto tornava: si prendevano cura l’uno dell’altra. E lo
facevano da quattro anni, ormai.
Gli dedicò un sorriso e poi prese fuori una bottiglia di birra.
–Bene, iniziamo la preparazione.- disse, accendendo il gas.
-Van, che ne dici di uscire a mangiare qualcosa? Mi stai rompendo
l’anima con quella tua aria da lupo nero.- fece David, esasperato.
Aveva lasciato all’amico il tempo necessario per sbollire sotto
la doccia, approfittandone per terminare il modellino di cui si stava
occupando prima del suo arrivo.
Essere un architetto ed avere delle consegne era dura, anche per un
licantropo. Ma non era il lavoro ad ammazzarti, erano i clienti. E le
loro stupide richieste fuori da ogni logica umana.
Evan spostò lentamente lo sguardo su di lui, tentando di
contenere la propria aura. –Va bene, andiamo.- acconsentì
finalmente.
-Vuoi mangiare come un umano o come un lupo?- s’informò l’amico, indossando la giacca.
L’altro sembrò pensarci su per un po’, ma alla fine disse:-Lupo.
-D’accordo.
Uscirono in fretta, senza dare nell’occhio. Poi, una volta fuori,
mutarono nella loro forma animale e corsero verso il Great Swamp
National Wildlife Refuge. Nonostante fosse area protetta ed interdetta
ai cacciatori, nulla impediva loro di farvi una bella battuta di caccia.
D’altronde erano licantropi e molte leggi umane non si applicavano nel loro caso.
Schizzarono oltre la recinzione, atterrando silenziosi sul terreno
umido. Gli animali della riserva fuggirono dinanzi ai due predatori,
nascondendosi come meglio poterono.
Gli odori arrivavano alle loro narici quasi con rabbia,
sovraccaricando i loro sensi sviluppati. Evan, il pelo dai
riflessi bruno rossastri, arricciò leggermente il labbro,
esaltato. David, una freccia d’argento bluastro al suo fianco,
scosse l’enorme testa.
“Proprio non capisco perché non ti sfoghi e spacchi il muso a tuo padre.”, disse.
“Perché farei il suo gioco. E poi non ho voglia di aver a
che fare con lui.”, rispose l’amico, saltando un tronco
morto.
“Tu sei tutto matto.”, commentò, infrangendo la superficie piatta di una pozzanghera.
“Proprio come te.”, fu la risposta.
I due si scambiarono un’occhiata e poi si separarono, seguendo ognuno una pista diversa.
Lasciarono che le loro prede tentassero la fuga, tenendo il loro passo
senza problemi. Avere una velocità due volte superiore a quella
di un normale lupo consentiva ai licantropi di catturare praticamente
qualsiasi cosa si muovesse su quattro zampe.
E anche su due, se necessario.
Quello non voleva dire che uccidevano le persone a sangue freddo, non
erano come gli uomini lupo dei vecchi telefilm in bianco e nero. Anche
se qualche volta, nel bel mezzo della luna piena, c’era stato
qualche incidente.
Ma era più probabile che facessero fuori un vampiro o un
licantropo avversario, invece che un umano. Si dice non svegliare il
can che dorme, giusto? Ecco, la loro politica era sostanzialmente
quella.
Evan scartò bruscamente a destra, tagliando la strada al
cervo a cui stava dando la caccia. Il povero animale emise un bramito
di terrore e saltò all’indietro, abbassando al contempo la
testa.
Ringhiò, piantandosi sulle quattro zampe. La sua preda aveva
voglia di opporre resistenza e lui aveva bisogno di sfogarsi.
“Che le danze abbiano inizio.”, pensò.
Un ululato in lontananza interruppe bruscamente l’allegro chiacchiericcio.
Amanda sollevò la testa dalla sua fetta di cheesecake, la
forchetta a mezz’aria. Lanciò un’occhiata perplessa
ai suoi due ospiti e poi si avvicinò lentamente alla finestra.
In cielo brillava la luna, ad appena un quarto del suo ciclo.
-Be’… non so voi, ma a me risulta ancora strano pensare
che là fuori esistano i personaggi di Twilight.- commentò
Frances, rabbrividendo leggermente.
-Non sono pericolosi.- tentò di tranquillizzarla il suo fidanzato.
-Sarà… ma è dura abbandonare secoli di pregiudizi.- ammise Amanda, tornando a sedersi sul divano.
Il mondo degli umani era entrato a contatto con quello soprannaturale
da appena cinque anni e risultava ancora strano, per molti, sapere di
camminare a stretto contatto con licantropi e vampiri.
-Personalmente preferirei incontrare un licantropo.- disse Andrew. –I vampiri mi sembrano creature più subdole.
-Tu credi? Perché sono freddi, pallidi e tutte quelle cose
lì?- ragionò Frances, appoggiando la forchetta sulla
lingua e tenendola in equilibrio.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. –Possibile.
-Ho saputo che è arrivato un nuovo branco, in città.-
buttò dopo un po’. Due paia di occhi si puntarono su di
lei, stupiti. –Non lo sapevate?
-Quando mai ho tempo di guardare la tv, a lavoro?- le fece notare la sorella, divertita.
-E io sono sempre in acqua, ricordi?
Andrew lavorava come istruttore di nuoto presso una delle numerose
piscine di Manhattan, mentre la sua anima gemella si guadagnava da
vivere come fotografa freelance. Da quando Amanda aveva iniziato il suo
lavoro da Kleinfeld, però, si occupava principalmente di
matrimoni.
Chissà perché.
-In ogni caso, giusto qualche giorno fa è arrivato questo grande
branco. Dalla Scozia. Avete presente quel grande cantiere a Staten
Island?- li guardò.
-Sì… stavano costruendo una villa enorme, se non sbaglio.- ricordò il giovane.
Lei annuì. –Loro vivono lì. E pare che la cosa
abbia agitato un po’ le acque, qui a New York.- concluse, fiera
delle proprie informazioni.
-Vuoi dire che agli altri branchi non piace l’idea di avere nuovi vicini?- domandò la sua sorellina.
-Esattamente. Non so come funzioni, ma sono territoriali come i lupi.
Quelli veri, intendo.- si mise in bocca l’ultimo pezzo di dolce,
gustandoselo appieno. –Cristo, Mandy, questa torta è
favolosa! Dovresti darmi la ricetta!
Drew le lanciò un’occhiata decisamente scettica. –La
ricetta. Ad una come te? Meglio di no.- rifiutò subito. Alla
linguaccia della fidanzata scoppiò a ridere, scompigliandole i
capelli. –Che ne dici di andare e permettere ad Amanda di
riposarsi un po’?
Frances lanciò un’occhiata all’orologio che aveva al
polso. –Mhm… sì, meglio. Abbiamo già
disturbato abbastanza.- considerò, alzandosi.
-Lo sapete che mi fa piacere passare del tempo con voi.- disse loro la
diretta interessata. Non voleva che si sentissero in dovere di
andarsene perché, se non dormiva per almeno otto ore, rischiava
di dare di matto.
Non era una cosa così grave.
-Non voglio ritrovarmi con una sorella ringhiante.- replicò Fran, la mano già sulla maniglia della porta.
La mora arrossì leggermente, sorridendo di riflesso. Se
ripensava a tutti i guai che le aveva fatto passare alle superiori si
sentiva oltremodo imbarazzata. –Buonanotte, ragazzi. Grazie della
serata.- li salutò.
-Grazie a te per aver salvato il mio stomaco da morte certa.- Andrew le
fece l’occhiolino, spingendo la fidanzata oltre la soglia.
Amanda li sentì battibeccare lungo le scale, dopo che l’ebbero salutata.
Rise e buttò i piatti di plastica nel pattume. Riordinò rapidamente e poi si avviò in camera, insonnolita.
L’ultimo pensiero che formulò, prima di addormentarsi, fu che non aveva mai incontrato un licantropo di persona.
N.B.: L'ESU è un'unità
speciale delle forze armate di New York mentre, come si può ben
intuire, l'ESUDM è una mia invenzione, in modo da poter mettere
in luce la nuova collaborazione tra soprannaturali ed umani.
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