Una volta nella propria vita, chiunque avrà, se non provato, perlomeno
sentito nominare il tanto decantato “amore a prima vista”: è
sufficiente uno sguardo, un battito di ciglia nel senso letterale del
termine e si ci ritrova pervasi da un calore bizzarro, un folle
desiderio che annulla la mente e un trasporto totale verso una persona
di cui si conosce a malapena il nome.
Io nell'amore a prima vista non ci credo. Credo però nell'odio.
Nutro un profondo rispetto verso il sentimento dell'odio, stizzendomi
facilmente quando esso viene nominato in maniera del tutto anarchica:
l'odio non è il fastidio creato da una mosca, né il tedio per un
motivetto troppo spesso ripetuto in radio, né la noia data dall'obbligo
di compiere un'azione che non ci piace; l'odio è un sentimento che
colpisce nello stomaco e si diffonde sotto la pelle, portando al
desiderio di addolorare, ferire, distruggere, devastando il cervello.
In quei momenti, esso è scurito, finanche annerito: prevale solo un
istinto meno che animale.
Come ho detto, personalmente credo nell'odio a prima vista, avendolo
sperimentato: avevo sedici anni, stavo per affrontare il terzo anno di
liceo e conobbi lei, che odiai fin dal primo istante in cui la vidi.
Si trattava della mia docente di filosofia: non volli pronunciare il
suo nome ad alta voce per lungo tempo, non perché lo temessi, ma perché
mi disgustava come parlare di stupri o pedofilia; per me, era
semplicemente Quella.
Quella era piccola e scheletrica; in testa vi era una lunga, forte e,
mi duole dirlo, lucidissima e perfettamente curata cascata di capelli
naturalmente lisci, che la accarezzavano laddove avrebbero dovuto
esserci le natiche, in lei pressochè assenti; gli occhi erano due
stagnetti di un azzurro slavato, sporco e opaco, piccoli come le labbra
da cui usciva una voce acuta, penetrante, che mal si accompagnava alla
sua parlantina trascinata e difficoltosa.
Da quella bocca non uscì mai un sorriso, e vivo ancora con la certezza
che lei non fosse capace di sorridere: nelle fotografie dove faceva un
tentativo, lo snudare dei suoi denti somigliava più ad un ghigno
perverso, maligno.
Dal nostro primo incontro ci fu chimica: io ero l'acido nitrico, lei la
glicerina e l'acido solforico.
Anche da parte sua arrivò, sin da principio, un ritorno negativo, meno
violento del mio, ma comunque intenso: i nostri occhi in classe, quando
si incrociavano, erano carichi di discorsi taciuti, emozioni e
sentimenti, a tal punto che sovente le mie compagne di classe (si
trattava di una classe in prevalenza femminile) finivano per scambiarsi
sguardi di timore in questo tipo di occasioni.
Nonostante Quella esercitasse un naturale senso di schifo in me, non
evitavo mai di osservarla direttamente, cercando piuttosto di attirare
la sua attenzione con le mie occhiate; “Non ti temo,” era il messaggio
che esigevo le arrivasse: volevo sfidarla a chiamarmi durante le
interrogazioni, a rispondere alle mie domande scomode, a giustificarsi
quando sbagliava.
In lei non vidi mai alcuna capacità degli insegnanti: non manteneva
viva l'attenzione della classe e, quando tentava di ristabilire la
giusta gerarchia, utilizzava i metodi più errati; non insegnava la sua
materia e dimostrava una profonda frustrazione nel dover esercitare il
proprio nobile mestiere; non correggeva in tempo i compiti in classe;
men che meno era capace di educare.
Il mio odio per lei nacque così: perché le erano stati donati tutti gli
strumenti per essere una donna nobile, ed era solamente una volgare
casalinga in crisi, incapace di dare l'onore che meritavano il suo nome
e la sua professione.
Quella si chiamava come la più nota delle muse stilnovistiche,
Beatrice, nome che ormai non fatico più a pronunciare: non ci condusse
mai, però, in un paradiso di presocratici o un Empireo di illuministi;
in me, piuttosto, scavò la piramide rovesciata dell'Inferno nelle
viscere.
Il disprezzo di Beatrice verso di me (perché di odio non si può parlare
nel suo caso), ne ho la certezza, nacque dalla mia esteriorità: da
sempre ho una fisicità robusta, morbida, che non ho mai tentato di
contrastare con diete, esercizio fisico o abiti eccessivamente ampi,
strafogandomi senza problemi e muovendomi con assoluta sicurezza, senza
mai avere problemi di peso, di bullismo o sentimentali. Beatrice aveva
lungamente sofferto di bulimia e, successivamente, di anoressia, fatti
che non mancava mai di rimarcare durante le ore di lezione, sventolando
una vecchia Moleskine malandata e utilizzata, a suo dire, come diario
alimentare, come se fosse un vessillo e non il custode di un dolore.
Un'altra cosa che mi portò a odiarla fu proprio quella sua pornografia
dei sentimenti.
Visto il suo corpicino fragile, era palese che portasse ancora dietro
gli strascichi delle malattie: ancora più palesi erano i suoi sguardi
di astio e, ne ho la certezza, invidia posati su di me durante
l'intervallo, mentre addentavo goduriosamente una fetta di unta,
succosa focaccia genovese.
Tentò in ogni modo di ostacolarmi, consigliando ai miei di spedirmi dai
più efferati professionisti (nutrizionisti, personal trainer, finanche
psicologi) e sostenendo che “sì, si vedono i risultati dello studio, ma
è anche palese che della mia materia non ci capisca nulla.”
Menzogne.
Il mio corpo è sempre stato sano, la mia mente lavoratrice solerte, il
mio successo con l'altro sesso immutato negli anni e la mia passione
per la filosofia mi portò addirittura a studiarla all'università,
macinando esami e ottimi voti con facilità inaudita.
Nei tre anni finali di liceo non mi ribellai mai a Beatrice, mantenendo
sorrisi di circostanza, educazione e un bel parlare, comunicandole i
miei veri sentimenti solamente attraverso i miei sguardi dardeggianti e
ingoiando molteplici rospi fino all'esame di maturità, dove un
commissario esterno lodò la mia preparazione e la mia tesina, dando lo
smacco finale a Beatrice.
O meglio, quello che credevo lo fosse.
I rospi ingoiati nel triennio liceale non morirono.
Forse ero proprio io a non volerli assassinare, preferendo curarli con
dovizia, seguitando a guardare con spregio Beatrice ogni volta in cui
la incrociavo lungo la mia strada: non mancai mai di salutarla con un
formale, educato «Buongiorno professoressa.», riservando il disprezzo
sopito al tono di voce e agli occhi; dal canto suo, lei non mancava di
guardarmi come se fossi il volto del fallimento, donando fuggevoli
sguardi alla mia pancia prominente e alle mie cosce abbondanti e
provando sincero ribrezzo. Io ne godevo.
Non ho problemi ad ammettere che ho spesso fantasticato sulla morte di
Beatrice, anche se più che sul momento in cui lei spirava, mi
concentravo su ciò che sarebbe accaduto dopo a me: pensavo all'euforia
che avrebbe pervaso il mio corpo, al desiderio di urlare, danzare,
annunciare a tutti che un orripilante tumore era finalmente sparito dal
mondo. Ai tempi non potevo immaginare ancora nulla.
Il mio rancore verso Beatrice non intaccò mai la mia vita, spronandomi
però all'università, mantenendo vivo il desiderio dentro di me di
arrivare un giorno nel mio vecchio liceo e sbatterle davanti la laurea,
il cui voto sarebbe stato, ovviamente, centodieci con lode.
Così accadde: una mattina di marzo mi svegliai, mi vestii elegante e,
con sottobraccio uno spesso libro rilegato, arrivai all'università dove
dissi qualcosa con tono serioso, sentendomi lodare e ricevendo strette
di mano e baci simbolici. Foto di rito, corona di alloro e grande
orgoglio dei miei familiari, una sala affittata dai miei compagni di
corso, alcol e festa fino al mattino dopo.
Non do la colpa agli alcolici nel mio corpo, perché di sicuro ormai
avevo già reso tutto alla rete fogniaria locale. Forse hanno dato una
mano, ma non ne ho la certezza: ho piuttosto la convinzione che quanto
sarebbe accaduto fosse puro e semplice destino.
Dopo aver festeggiato tutta la notte, con la mente lucida e il corpo
ancora galvanizzato dall'atmosfera festosa, indossai nuovamente i
vestiti eleganti, presi il pezzo di carta e annunciai agli amici «Vado
al liceo.»
«Ma sei fuori?» borbottò uno con la voce impastata «Hai fatto after,
'cazzo ci vai a fare al liceo ora?»
Sorrisi, quasi ghignando.
«Vado a trovare una persona.»
«Ma ciao!» tubò la mia docente d'inglese, con cui avevo sempre avuto un
ottimo rapporto, baciandomi le guance festosa e ignorando la classe che
aveva iniziato a fare rumore. «Come stai? Ti trovo in gran forma!»
Sorrisi con modestia «Sarà l'eleganza, in realtà ne vengo da una notte
insonne per...» feci una pausa ad effetto, lanciando un'occhiata
sorniona alla mia fu docente «festeggiare il mio centodieci e lode!»
La prof si lasciò sfuggire uno strillo «Ma wow! Complimenti, in cosa?»
Ghignai palesemente.
«Filosofia.»
Rise «Immagino che ti dispiaccia che la Valica» rabbrividii leggermente
sentendo il cognome di Beatrice «non ci sia oggi.»
«Dov'è?» indagai.
«A casa malata. Un'influenza, nulla di particolare, ma l'ha messa KO e
non se la sente di stare a scuola...»
Avevo smesso di ascoltarla.
Quelle aule, il puzzino di scuola, quel cognome che non avevo mai
voluto pronunciare e la sua condizione di temporanea vulnerabilità...
Osservai il mio cellulare.
«Per la miseria, mi hanno appena chiamato i miei! Scusi prof, devo
salutarla... alla prossima!» fuggii, dandole giusto il tempo di un
buffetto e un augurio per il mio futuro che neanche udii: la mia mente
si era fatta nera, viscosa, insondabile, e quasi non vedevo dove stavo
andando, mentre un istinto preponderante e feroce si faceva strada nei
miei arti, muovendoli con passo sicuro e rapido verso una destinazione
ben precisa.
Ad un certo punto mi fermai, interrompendo la mia furia cieca:
riconobbi immediatamente il portone davanti al quale si era spesso
soffermato il mio sguardo, meditando bizzarre vendette, e il mio dito
andò a colpo sicuro sul citofono, in attesa di sentire quella voce
tanto odiata che, in quel momento, avrebbe solo avuto la funzione di
carburante per il mio istinto.
«Sì?»
«Posta.» borbottai, sperando che aprisse il portone.
«Ha per caso un pacco per Grimani Michele?» chiese lei, la parlantina
ancora più strascicata del solito, alludendo al marito.
«Sì.» mentii io.
«Secondo piano.» rispose lei secca, mentre il ronzio del citofono mi
annunciò l'apertura del portone: corsi su per le scale, arrivai davanti
alla porta di casa e mi fregai le mani.
“L'attesa del piacere non è forse essa stessa il piacere?“ recitava una
pubblicità.
“No.” risposi con ferma convinzione nella mia mente spappolata, facendo
trillare il campanello: un trillo che sembrava più uno stridio,
perfetto per Beatrice.
Attesi, il corpo elettrizzato dall'aspettativa, l'istinto bestiale che
mi portava addirittura a salivare, la mente ancora sfasciata: un
leggero clangore, uno spiraglio di luce e mi si parò davanti la donna
che odiavo da sempre.
Magra, slavata, con quei capelli perfetti senza senso su di lei,
fasciata in una vestaglia rosa con uno stupido coniglietto disegnato
sopra. A quella visione, avvertii la mia mente iniziare a cambiare.
«Vale?» mi salutò, con una forte nota di stupore: avevo sempre odiato
il suo tentativo di risultare amichevole appioppandomi con un nomignolo.
«Ciao Beatrice.» risposi, il tono pacato, serioso e freddo, quasi
metallico. «Mi lasci entrare?»
«Cosa ci fai a casa mia, scusa?» indagò sospettosa, indietreggiando e
facendomi comunque entrare in casa «E come ti permetti di darmi del tu,
scusa?»
“Scusa”. Altra parola abusata troppo spesso, soprattutto da lei, che lo
usava regolarmente come intercalare con tono supponente e secco.
«Si dà il caso che ormai siamo alla pari, cara.» risposi con gelo
«Indovina un po'? Laurea in filosofia, centodieci e lode, bacio
accademico. Ho le foto che lo testimoniano se non mi credi.»
Beatrice mi squadrò, tentando di risultare altezzosa, ma mantenendo
un'aria di sospetto negli occhi: si soffermò, come sempre, sulle mie
cosce grandi e i fianchi generosi, ma io neppure la notai.
«E quindi? Che ci fai qui?»
Snudai i denti.
«Ti do lo schiaffo finale, baby.»
La sostanza nera e vischiosa che costituiva la mia mente si incendiò e
un violento calore si impadronì del mio corpo, galvanizzandomi: vedevo
solamente Beatrice, senza distinguere il mobilio di casa, lo sguardo e
il cervello fissi sulla mia preda. Non ero un essere umano e non ero un
animale: ero una bestia.
Le sferrai un pugno alla bocca dello stomaco con precisione
millimetrica, come se avessi ricevuto un addestramento militare,
facendola piegare e boccheggiare: approfittando della posizione
sfavorevole sganciai un calcio sotto il mento, sperando che si mordesse
la lingua, e un secondo sulla schiena, sbattendola a terra prona. In
tempo zero balzai sulla sua schiena con violenza, approfittando della
mia mole abbondante contro il corpicino di Beatrice e auspicando di
averle, se non sbriciolato, almeno incrinato qualche costola, e
arraffai i suoi lunghi capelli come fossero briglie, tirandoli con
veemenza e bloccando il collo fragile di Beatrice con un piede: non
arrivò un urlo di dolore o orrore da parte sua, forse era ancora senza
fiato.
Nell'inferno della mia mente avevo una sola certezza: la volevo senza
fiato per l'Eternità.
Scesi con voluta malagrazia dalla sua schiena, esaminando la mia ex
docente con sincero interesse: lei si girò su un fianco faticosamente,
dolorante e distrutta, mentre nei suoi occhi albergavano il consueto
terrore e puro, totale stupore.
La voce che uscì dalla sua bocca fu flebile ma ben udibile.
«...cazzo fai?»
Mi sorpresi: Beatrice conosceva le parolacce?
La mia sorpresa però durò il tempo di un battito di ciglia, mentre la
bestia mi suggeriva la risposta, detta con arroganza e seccatura, come
si fa con un bimbo tonto.
«Te l'ho detto.»
Mi sedetti a gambe divaricate su di lei, tempestandola di pugni laddove
riuscissi a farlo: successivamente progredii iniziando a graffiare il
suo viso, a piantare le unghie sul collo, sui polsi, con la viva
speranza di dissanguarla; lei si dibatteva, ma non abbastanza da
contrastare la mia furia omicida e il mio fisico possente che tanto
aveva denigrato in passato.
Ad un certo punto mi bloccai: nella mia mente devastata un piccolo,
insistente campanello mi suggerì di voltarmi verso destra dove, su un
mobile imponente, troneggiava una grossa testa di cavallo in ceramica.
La afferrai, soppesandola e assumendo un'espressione curiosa e lieve.
«Perché hai una testa di cavallo in casa?» chiesi con nonchalance,
guardando negli occhi la donna che odiavo, dove balenò per l'ennesima
volta la sorpresa.
«Ma...»
Approfittai del momento per fracassarle la testa di cavallo sul volto:
nonostante nella mia testa albergasse il caos totale, sentii con
chiarezza il rumore delle ossa rotte, come se fosse un fragore
assordante. Per sicurezza ripetei il gesto con violenza crescente fino
allo sfinimento, per poi alzarmi e contemplare Beatrice.
Il suo volto era spappolato e irriconoscibile: l'occhio sinistro era
diventato una massa informe e del liquame usciva dalla sommità di
quella che un tempo era la scatola cranica; qualche piccolo, timido
rivolo di sangue usciva da dove avevo tentato di strapparle la carne.
La spogliai, lasciandola solamente in intimo, tastando le costole e
enumerando i lividi sul suo corpo maciullato.
Girai intorno al corpo più volte, constatando con gioia che avevo
collezionato poche macchie del suo lurido sangue sulla mia tenuta da
laurea: mi sciacquai alla meglio e le nascosi, mentre l'incendio della
mia mente si acquietava, lasciando tizzoni bitorzoluti e cenere
nerissima; dopo aver osservato un'ultima volta la mia opera, presi la
porta di casa e me ne andai.
Avevo sputato i miei rospi.
Fuori dalla casa di Beatrice assaporai a pieni polmoni l'aria fresca,
per poi dirigermi da un cartolaio ad acquistare dei cappellini di
carta, come avevo sempre sperato di fare alla morte della donna: poi,
quasi al passo di una festosa danza, andai dalla polizia e confessai
tutto con tono preciso e tecnico.
Ho la certezza che la gente là fuori si chieda come sia possibile che
quella ragazza in abiti eleganti e un sorriso dolce e luminoso stampato
in viso abbia massacrato una donna.
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