Remember me when
you're the one you always dreamed.
[Placebo, Special
Needs]
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Mi rigiro le mie bacchette tra le
mani, seduto alla batteria
sul palco vuoto. Mi sembra di trovarmi in un set in fase di
ristrutturazione,
immerso in una realtà solo parziale, in cui
l’effetto speciale della
concretezza è stato spazzato via con il defluire della folla
soltanto un’ora
fa. L’arena sembra un gigante sventrato, vuota, silenziosa e
quasi spettrale, e
io la guardo con occhi un po’ smarriti, come se questo non
fosse il mio
ambiente, come se non fossero ormai anni che salgo e scendo da palchi
come
questo con la stessa disinvoltura con cui salgo e scendo dal letto ogni
santo
giorno.
Lo stage è il nostro
piedistallo dorato, il luogo in cui
siamo tenuti a dare sempre e solo il meglio di noi, qualunque cosa
accada, e
non ci sono scuse che tengano, anche se le braccia ti fanno
così male da
riuscire a stento a muoverle, o la testa ti sembra sul punto di
scoppiare, o se
c’è una voce dentro di te che ti dice
‘Ma chi te lo fa fare’?.
Anche se la voce ha ragione, e tu
forse lo sai, ma non lo
ammetti.
Quando metti piede sul palco, tu non
sei più tu, individuo a
sé stante con sentimenti e pensieri autonomi, ma parte
integrante di un gruppo
che forma un’unica entità, e quando i tuoi tre
compagni ti guardano atterriti
ed ansiosi, anche tu ti accorgi di essere atterrito ed ansioso, e
respiri
esattamente come respirano loro, ti senti soverchiato
dall’adrenalina
esattamente come loro, e non ha nessuna importanza se solo un istante
prima il
mondo sembrava sul punto di sbriciolarsi sotto ai tuoi piedi: sei sul
palco,
hai pubblico al tuo cospetto, in ogni possibile senso, e tutto deve
andare alla
perfezione, perché il mondo ora sei tu, e devi saper creare
la vita.
Mi sembra quasi di sentire ancora
qualche residuo di eco
risuonare tra le vertiginose pareti della struttura, come se il
pubblico avesse
lasciato qui qualcosa di sé dopo la fine dello show, ma
forse sono solo le mie
orecchie che ancora avvertono il frastuono, il caos, la carica
elettrica che
non molti minuti fa faceva vibrare la terra sotto i miei piedi.
Rabbrividisco, ma è un
brivido di soddisfazione, di orgoglio.
Non si può spiegare una
sensazione come questa se non ci si
è mai trovati in una situazione simile, è
qualcosa che non si può comunicare. Mi
sembra di essere ancora accaldato e sudato dopo la grande performance
di
stasera, anche se sono ormai fermo da più di
un’ora. Georg, Bill e Tom saranno sicuramente
alle prese con qualche sfida a pingpong nei camerini, e solitamente lo
sarei
anch’io, ma ora come ora non mi va di rincorrere una pallina
a destra e a manca,
non dopo questa sera così piena di spettacolo ed emozione.
Vengo spesso accusato di essere
quello chiuso e schivo,
quello introverso che appena può si dilegua dalla compagnia,
qualsiasi essa
sia, e si rifugia nel suo mondo isolato.
Be’, è vero.
Il fatto è che amo cercare
la solitudine, dopo ore o anche
giorni che trascorro completamente braccato da decine – se
non centinaia o
migliaia – di persone, e trovo giustificabile il mio bisogno
di tempo solo per
me stesso.
Trovo il silenzio una pratica giusta,
un segno di rispetto
verso se stessi piuttosto che di autoesclusione dalla realtà
circostante. Che
poi una fuga dalla realtà sia meritata, è
un’altra faccenda.
Quando tutto si spegne e il
pellegrinaggio pagano finisce,
mi estranio con piacere da tutto e da tutti, e, sì, forse
sono un solitario, ma
se non pensi un po’ a te stesso, in certe condizioni, finisce
che ti dimentichi
chi sei e quello che sei stato prima di arrivare quassù, in
cima, al di sopra
di tutti, dove tutto il resto sembra piccolo e insignificante, ma non
lo è, e
tu te ne devi ricordare, o rischi di sentirti più grande di
quel che sei, e
peccare di vanità e presunzione.
Per quanto mi riguarda, cammino a
testa bassa e senza
pretese, dico ‘grazie’ e
‘prego’ e ‘per favore’,
perché sarò anche una rockstar
nota in tutto il mondo, ma nulla di ciò che ho mi
è dovuto, e se voglio continuare
a sentirmi ricco – ricco non come un multimilionario, ma come
uno che ha tutto
ciò che potrebbe desiderare, e anche di più
– allora devo avere l’umiltà di
dimostrare la giusta riconoscenza a chi mi ha dato le ali per volare
fin qui, e
tenere a mente che non sono nato per essere superiore a nessuno, ma
è una
condizione a cui mi hanno eletto, e che mi può essere tolta
in qualunque
momento.
Piedi per terra, dunque, e una buona
dose di realismo: che
muoia di fame o che si crogioli nell’opulenza, un uomo
è sempre un uomo, e noi
non siamo da meno.
Be’, forse Bill e Tom hanno
bisogno di sentirselo ricordare,
di tanto in tanto, per sicurezza.
Sarà che, dei quattro, io
sono quello che trova forse più
semplice non montarsi la testa. Non sono il più
appariscente, né il più
spavaldo, e nemmeno il più sicuro di sé. Amato,
acclamato, idolatrato e
venerato, proprio come gli altri, ma loro sorridono e ringraziano, io
arrossisco, sorrido e penso che nessuno mi avrebbe mai notato per
strada se non
fossi diventato famoso.
Ma va bene così, infondo,
niente amici o falsi amici è più o
meno la stessa cosa, e la fortuna vuole che di veri amici ne ho, e non
passano
mai. Come si suol dire: pochi ma buoni.
“Gustav, alza il culo da
lì e vieni a festeggiare!”
Buoni, dicevo.
Obbedisco al delicato e cordiale
ordine di Tom, un mezzo
sorriso stampato sulle labbra, e mi trascino via dal palco
innaturalmente
silenzioso, le gambe intorpidite e dolenti dallo sforzo. Scendo
lentamente e a
fatica i pochi grandini che portano la backstage, i tendini tesi come
non mai.
Lavoro duro, quello del batterista. Sono quello che fatica di
più e quello che
si vede di meno. Se fossi uno come Bill, probabilmente rosicherei di
rabbia
dalla mattina alla sera, ma a me piace il mio angolo personale, e
comunque mi
prendo anch’io le mie soddisfazioni.
“Aspetta, ti
aiuto.”
Georg è spuntato dal
nulla. Mi fa appoggiare a lui e mi
sorregge, zoppicando assieme a me verso gli altri, riuniti attorno ad
una
bottiglia di champagne e una torta già mezza divorata.
Bill se ne sta appollaiato su una
specie di alto sgabello e
si pavoneggia come solo lui sa fare, ma non appena mi scorge, salta
subito in
piedi e mi fa sedere, tutto premuroso. È proprio adorabile,
quando ci si mette.
“Cosa diamine ci sei
rimasto a fare lassù fino ad ora?” mi
chiede Tom, passandomi un bicchiere. “Hai avuto
un’apparizione mistica?”
Vuoto il mio champagne in un sorso e
lo ignoro. Non mi
aspetto che capisca il mio bisogno di consumarmi nelle mie riflessioni
–
stupide, magari – anche perché tra tutti, qui
dentro, penso di essere il solo
con uno spirito abbastanza romantico da commuoversi di fronte ad
un’arena
deserta. Non so che poesia ci sia un uno spazio vuoto disseminato di
rifiuti –
probabilmente qualche macabra sfumatura decadente – ma
è stato più forte di me,
ne sono rimasto incantato. Forse per la metaforica morale che una vista
simile
può comunicare: tutto si spegne, niente ha senso senza
qualcuno che ti
sostiene.
“Partita a
pingpong!” annuncia Bill, battendo le mani con il
suo tipico entusiasmo da bambino. “Di corsa nei
camerini!”
Sto già per puntualizzare
che io di corsa non sono in grado
di andare da nessuna parte, quando Georg
e Tom mi si avvicinano e mi afferrano un braccio a testa, facendomi
appoggiare
alle loro spalle e tirandomi su.
“Che cazzo state
facendo?” chiedo, vagamente allarmato,
mentre sopraggiunge anche Bill, che mi prende per i piedi come se fossi
una
carriola umana. Con la forza che ha nelle braccia – leggasi:
nessuna – mi
sorprende che riesca a sostenermi.
“Bill, dicevamo?”
fa Georg, con un sorriso che mi preoccupa.
Bill si volta con lo stesso identico sorriso, esibito anche da Tom.
“Di corsa nei
camerini!” ripete a squarciagola, e
all’improvviso tutti e tre si mettono a correre come folli
verso il corridoio,
con me in spalla che urlo, non so bene se di divertimento o di terrore,
o tutte
e due le cose.
Dicevo: niente ha senso senza
qualcuno che ti sostiene. Se
poi chi ti sostiene, in modo variabilmente letterale, sono i tuoi tre
pazzi
migliori amici, allora non ti resta che chiudere gli occhi, ridere, e
sentirti
la persona più fortunata del mondo.
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Note:
non
ha molto senso questa oneshot, lo so.
Fregatevene, se potete, altrimenti sentitevi liberi di linciarmi o
quello che
preferite. Il fatto è che fa caldo e ho qui Gustav che mi fa
i massaggi alle
spalle con oli profumati, a torso nudo (lui, non io… io
magari più tardi XD)…
E, insomma, la sua meravigliosità mi ha ricordato che non
è solo un tocco di
carne che mi sbranerei d’amore in qualunque momento, ma anche
un adorabile
cuore tanto sensibile, e questo è quanto la mia mente ha
partorito (e, se il
massaggio continua così, non sarà solo la mia
mente a partorire, fidatevi).
Cavolate a parte, il titolo si riferisce ovviamente alla metaforica
chiusura di
sipario che avviene a concerto finito, dietro alla quale abbiamo dato
una
sbirciatina curiosa, mentre la citazione a inizio capitolo è
un po’ un
promemoria che riferito ad un ‘me’ che racchiude
tutte le cose che si possono
dimenticare quando si acquisisce la fama che hanno conquistato i Tokio
Hotel, e
che questo Gustav (ma anche quello reale, a mio modestissimo parere),
evidentemente non ha dimenticato. Mi auguro abbiate gradito e abbiate
voglia di
sfidare il caldo, l’afa e checchessia per lasciare una
recensioncina tutta per
me (e per Gustav che mi massaggia tanto amorevolmente). Detto
ciò, vado a darmi
da fare con The Truth Beneath The Rose, o rischio
l’esecuzione se non posto in
fretta (voi pregate).
Tschüss, bella gente!
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