L.C. - Cap. 31
31
Houpette sedeva
accanto al bow window spalancato sul giardino, le gambe accavallate che
emergevano dalle pieghe dell’abito di lamé bordeaux.
Fuori, minuscole lampade cinesi coloravano il giardino del
“Bull(es) de mousse”. Lo show era stato un successo, un
tripudio di applausi con tanto di standing ovation, nonostante su
“Along a rainy road” la voce avesse tremato in un paio di
passaggi. Aveva deciso di riproporla comunque, nell’assurda
speranza che Del la sentisse e si facesse vivo. Era sciocco, inutile,
persino stucchevole, se ne rendeva conto.
«Come va, mia cara?» miagolò una voce decisamente troppo rauca per appartenere ad una delle habitué.
Dietro al
trucco dai pesanti accenti rosa, Jeff le stava offrendo una bottiglia
di birra con una ridicola coccarda di tulle e piume legata
all’imboccatura. Era uno dei tratti distintivi di Feather, la sua
parodia di Penny Valentine: riempire ogni cosa di pacchiani fronzoli
color confetto.
«Notizie dal fratellone?» domandò avvicinando una sedia.
Houpette scosse il capo, facendo ondeggiare i boccoli ramati della parrucca.
«No»
sospirò, evitando il tono da soubrette. «Da quando
è uscito dalla “Legendary” non l’ha più
visto o sentito nessuno. Choncho è andato a casa sua, ma non
c’era. Una vicina ha detto che è sparito da un paio di
giorni».
«E da tuo padre?» ma l’amica negò.
«Figuriamoci.
Dovrebbe spiegargli perché è stato cacciato e sarebbe un
colpo troppo duro per lui. Ha impiagato anni per accettare me,
ma… no, non potrebbe mai. Finché quel che fai non rovina
te o gli altri puoi essere bislacco quanto ti pare, per lui resti una
brava persona, ma la droga... Suppongo che Del sia dal suo amico Nate.
Ultimamente è l’unico con cui gli vada di passare del
tempo» sospirò, osservando distrattamente il
riflesso delle luci sulla bottiglia.
«Amico?» ghignò allusivo Jeff.
I minuscoli
fiocchi che costellavano l’abito rosa fenicottero la facevano
somigliare ai cespugli di ortensie che si scorgevano sotto le finestre.
«Solo
amico» confermò laconico. «Non l’ho mai visto
ma sai com’è fatto Delmar: una volta fuori dalla sua vita,
non hai diritto di sapere nulla che lo riguardi. Ne accennava di tanto
in tanto a pranzo, così, en passant. Mi pare faccia
l’autista».
«Se lo
starà scarrozzando da una rosticceria all’altra,
saccheggiando le pasticcerie e i fornai che trovano nel mezzo»
ridacchiò l’altro sperando di tirarlo su.
La battuta non
sortì l’effetto sperato e la cantante si limitò a
rigirarsi la bottiglia fra le dita, pensierosa. Feather non desistette.
Che avesse di fronte uno dei pezzi da novanta del
“Bull(es)” o della “Legendary”, poco importava:
erano pur sempre amiche - o amici - e non poteva stare a guardare.
Schiarì la voce e riprese:
«Su,
tesoro. Sono solo dieci giorni che è successo e tuo fratello
è il re degli ingordi e dei pigri di Port Serafine. Dagli tempo
e si farà vivo rotolando sulle trippe, sputando briciole e
dandoti del finocchio invertito come al solito. Io comunque sono in
giro nei prossimi giorni, butto uno sguardo per vedere se riesco a
rimorchiarlo col gancio traino».
Feather vide
Houpette muovere le labbra scarlatte mimando una specie di augurio un
attimo prima di bere. Era chiaro che fosse meglio far cadere il
discorso e passare oltre.
«Piuttosto,
che ci faceva qui il vostro bell’ingegnere?» chiese
lasciando un vistoso segno rosa sul dorso della mano con cui si era
asciugato le labbra.
«Scorch? È stato qui?» domandò l’altra sorpresa.
L’amica annuì con tanta foga da ritrovarsi la frangia della parrucca sulla punta del naso.
«È
venuto due sere fa, mentre si esibiva Georgette» sbuffò
sistemandosi. «Era con quel suo amico viscido… sai, quello
che non si lava molto i capelli».
«PigTail».
Chissà
perché non era sorpresa. Dopo tutto, in officina non c’era
persona che non nutrisse dubbi circa la rapida guarigione di Scorch
dalla sua dipendenza: sapevano che Pigtail gli girava ancora intono e
supponevano gli avesse passato qualche farmaco illegale o chissà
che. Solo Clay sembrava non dar peso alla cosa, mantenendo la
più cieca fiducia nel cugino.
«Bingo.
Lui. Sono arrivati verso le dieci e sono andati dritti da Brigit. Non
hanno ascoltato nemmeno il ritornello di “Bring me home,
cowboy”, quei cafoni!» sbuffò.
Era uno dei
peggiori brani di Georgette, colmo di esplicite richieste sessuali che
la scheletrica soubrette accompagnava mimando in maniera altrettanto
sconcia.
«Da Brigit?» domandò, aprendo il ventaglio di piume e cominciando a farsi aria.
«Non li
ho visti andarsene, ma quando l’ho incrociata più tardi,
la padrona era piuttosto tetra. Tipo quando la vedi di giorno,
struccata e con la sua palandrana mentre sbraita in tribunale contro un
imputato».
Nella vita di
tutti i giorni, Brigit era un magistrato della corte cittadina, un
principe del foro che era meglio avere dalla propria parte se non si
voleva finire in guai grossi. Se aveva quella faccia anche al
“Bull(es)” non era un buon segno.
Houpette non riusciva a immaginare cosa potesse volere Scorch da lei. O da lui.
***
«Smettila! Mi fai male!» esclamò Charlotte cercando di trattenere con una mano il lemure.
Quella mattina
LucyBelle era piuttosto nervosa e non aveva fatto altro che
mordicchiarle le mani e tirarle i vestiti. Anche in quel momento,
mentre si trovava in bilico sulla scala a pioli, non smetteva di salire
e scendere dai gradini per farle dispetti, squittendo un’ottava
sopra il solito.
«Ma che ti prende?» si lamentò all’ennesimo schiocco di mascelle a poca distanza dalle sue nocche.
L’animale
si agitò, appollaiandosi sulla cornice della botola e restando
in ascolto, come se qualcosa nel sottotetto avesse attirato la sua
attenzione. Probabilmente il ticchettio dell’orologio nel
congegno di ricarica.
«Vide uno
splendido angelo andargli incontro, scendendo lieve da una scala. E
allora capì che il Paradiso esisteva anche per lui»
declamò solenne una voce maschile.
Charlotte
sussultò, stringendo convulsamente i montanti della scala. Era
l’ultima persona che desiderava incontrare lì a
quell’ora.
Niklas la fissava sognante, appoggiato allo stipite. Era scalzo e la camicia stropicciata ricadeva floscia oltre la cinta.
«Buongiorno, Charlotte» salutò, mascherando a fatica uno sbadiglio.
«Buongiorno»
replicò lei scendendo svelta, il cervello che correva a mille
plausibili spiegazioni per la sua presenza.
«Non
avrai dormito qui anche tu per caso? Perché io sono crollato
leggendo i manuali della stramaledetta Glorith α che devono
portarci. E io che mi lamentavo delle Dumil… Quell’airship
è un vero casino!» ammise stiracchiandosi e mugolando per
ogni giuntura scricchiolante.
«È
stata l’insonnia a buttarmi giù dal letto, non ne potevo
più. E l’impressione di non aver chiuso una pratica. Stavo
andando a cercare i registri per verificare» svicolò
indicando la botola, augurandosi che l’ingegnere credesse alla
menzogna.
Per sua fortuna
era troppo assonnato e indolenzito per accorgersi dei piccoli dettagli
che l’avrebbero tradita, come la sua giacca accanto a LucyBelle.
Si limitava ad osservarla con quel sorriso gentile e innocente che
sfoggiava da quando aveva smesso di bere. Un bel sorriso.
«Il nero
è un colore meraviglioso per un’airship, esalta le linee
di tensione, le cromature, le giunture delle lamine, ma su di
te… no. Proprio non va» commentò indicando
l’abito che indossava.
Senza pensarci,
Charlotte chinò la testa per controllare che sull’abito
non fossero rimaste tracce di polvere, dando il tempo a Niklas di
raggiungerla.
«Però
senza trucco e con i capelli sciolti sei…» mormorò,
interrompendosi appena in tempo dal dire qualcosa di cui avrebbe potuto
pentirsi.
Bloccata fra la scaletta e il progettista, la donna si strinse tremando nelle braccia, muta.
«Stai bene, insonnia a parte? Sei pallida» osservò il progettista sfiorandole la guancia con le dita.
Charlotte non
riuscì a sottrarsi a quel tocco: era troppo stanca per riuscire
a richiamare i vecchi rancori che l’avevano aiutata a tenere
Almgren a debita distanza, anche se quell’uomo non aveva
più molto a che vedere con l’ubriacone che aveva occupato
l’ufficio accanto al suo per quasi due anni.
Come faccio a fidarmi? Loro non cambiano, non cambiano mai, gemette dentro di sé.
Ripensò al voltafaccia di Odrin, così assurdo e ingiustificato, al suo rifiuto.
Mi sto comportando come lui, pensò rattristata. Non
ha voluto nemmeno fare lo sforzo di ascoltarmi, darmi una chance. E io
sto facendo altrettanto con Niklas per paura di rivivere tutto
un’altra volta, perché era un alcolizzato fino a poco
tempo fa, proprio come…
Lui la vide
roteare gli occhi, sfuggendo i suoi, e l’espressione sul suo viso
tradì un malessere diverso da quello fisico. Era ciò che
stava aspettando: il momento di ricominciare a farsi cautamente avanti.
«Charlotte, hai l’aria di chi sta soffrendo per un motivo. È il tuo fidanzato?»
«Sai che non c’è nessuno» ammise, senza rendersi conto che la piega della sue labbra diceva ben altro.
Dentro di
sé, Niklas esultò: ora aveva la certezza di poter vestire
i panni del cavaliere dall’armatura scintillante giunto a salvare
la dama dopo mille tribolazioni.
«C’è qualcuno che ti infastidisce, a parte il sottoscritto?» scherzò sottovoce.
Charlotte sorrise per un istante. Era stato carino ad ammettere di far parte dei suoi problemi.
«La risposta è la stessa. Non…»
S’interruppe
arrossendo. Mentre cercava di tenere a bada lo spasimante ecco che, non
richiesto, si era fatto vivo il suo stomaco con voce da baritono.
Scorch, passato un primo momento di perplessità, si mise a
ridere.
«Allora è vero: non sono il sonno né il cuore! È la pancia!»
«Sai,
l’ansia e… la fretta di arrivare… »
cercò di giustificarsi, ridacchiando a sua volta.
Lo sguardo di entrambi corse al ventre dell’uomo, unitosi alle proteste.
Niklas arretrò di un passo, prendendole le mani con un gesto assolutamente innocente.
«Senti
che idea. Visto quanto siamo affamati, ora ci rendiamo presentabili,
lasciamo qui tutto - pratiche, disegni, conti, normative - e ce ne
andiamo all’“Archituono” a far colazione come si
deve. Anzi, andiamo al “Lucky PinWheel”, visto che
l’ultima volta che te l’ho proposto hai rifiutato. Ci
rimpinziamo per bene e mettiamo tutto in conto alla società,
perché è a causa del lavoro che siamo combinati
così. Ti va?»
«Va bene» disse, ricambiando appena la stretta.
La risposta era stata talmente repentina che Scorch pensò d’aver capito male o, peggio, d’averla immaginata.
«Dici davvero?»
«Sì»
confermò. «Al “Lucky Pinwheel” fanno molti
tipi di dolci per la colazione, potremmo prenderne anche per i ragazzi.
Dopo il licenziamento di Delmar hanno bisogno di qualcosa che li tiri
su».
Il trionfo di Scorch si ridusse della metà, senza svanire del tutto.
«Se
questo è lo scotto da pagare… e sia, dannazione. E io che
volevo fare il romantico, per una volta che avevo un’amica tutta
per me» mugugnò strizzando l’occhio.
In fondo,
mantenere quella breve distanza tra loro cominciava a piacergli. Gli
permetteva di apprezzarla ancora di più e di lasciarsi osservare
senza far scattare odiose barriere. Era un atteggiamento del tutto
nuovo per lui e lo trovava appropriato alla sua ritrovata sanità
mentale e fisica.
Il telettrofono
squillò all’improvviso facendoli trasalire. Guardarono
l’apparecchio dove un lungo tasto rettangolare era illuminato.
Sopra era stato scritto a pennarello “Clay casa”.
***
Sandy
lasciò che il vento le scompigliasse i capelli. Il motore della
Torran si sovrapponeva alla voce calda di James Blackbow che cantava
“Still our night” dal fonografo dell’ariship. Era
sicura che Clay avesse scelto quel brano di proposito.
Belly to belly, eyes in the eyes
I’ll forget who you were, you’ll forget who I was
No matter what we’ve said, no matter what we did
This night it’s still our night
«Non
riesco a crederci» piagnucolò, nascondendo la faccia tra
le mani e battendo i piedi sul pianale come una bimba in vena di
capricci.
«Donna,
avevamo detto che non ne avremmo parlato o sbaglio?»
ribadì lui con un sorrisetto ironico stampato in faccia.
Aspettava quel
momento da quando erano partiti: sapeva che non avrebbe resistito,
l’aveva capito nel momento esatto in cui l’aveva vista
aprire gli occhi fra le sue braccia.
«Lo so,
ma non ci riesco!» protestò, arrossendo vistosamente
quando si accorse di guardarlo e provare un fremito allo stomaco.
«Com’è potuto succedere?»
Clay
rallentò ad un incrocio, sporgendosi un po’ oltre la
plancia per controllare oltre gli spigoli dei palazzi e delle
recinzioni che nascondevano le laterali. Le strade di La Roscas erano
zeppe di punti ciechi, delle trappole per ogni conducente, ad ogni ora
del giorno e della notte.
«Facile:
i ragazzi sono dalla nonna, tu eri sola e triste, io ero solo e
incazzato nero, le solite birre…» cantilenò con
semplicità ripartendo. «L’allegria sale e le mutande
scendono. Non è compli… ehi! Sto guidando, donna! Te ne
sei accorta o stai ancora godendo?»
Sandy
ritirò la mano con cui l’aveva schiaffeggiato sulla nuca
fissandolo con sdegno. O forse vergogna perché, doveva
ammetterlo, a dispetto della sua reazione si sentiva bene. Quando la
sera prima aveva accettato di cenare con lui, aveva ripetuto alla
nausea che si sarebbero comportati da adulti civili e responsabili,
evitando di cadere nei soliti errori. Ovviamente aveva mandato al
diavolo l’ex-marito non appena aveva tentato d’allontanarla
dalla seconda birra. Ovviamente era stata lei a ridurre le distanze.
Ovviamene era stata lei a cominciare a strusciarsi, ad allungare le
mani, a baciare.
Perché sono così stupida? si domandò avvilita. Ci
casco sempre. E lui che cercava di impedirmelo… oddio, non che
si sia tirato indietro, ma ci ha provato. E io…
però… Clay, perché ti voglio ancora dopo quello
che hai fatto?
La resistenza
del capofficina alle sue avance era durata forse una ventina di minuti.
Aveva pagato il conto e se n’erano andati, sperando che
l’aria fresca calmasse i bollenti spiriti. Invece, il brusco
cambio di temperatura non aveva fatto altro che spingerli ad
avvinghiarsi ancor di più l’una all’altro. Arrivare
all’appartamento di Clayton ancora vestiti era stata
un’impresa, per non parlare del riuscire a non svegliare
l’intera palazzina.
«Me la cavo ancora bene?» s’informò, facendola sobbalzare e strappandola alle sue considerazioni.
«Idiota» rimbrottò, voltandosi per nascondere un risolino imbarazzato.
«Allora me la cavo molto bene» rincarò, afferrando al volo il pugno che stava per colpirlo di nuovo.
Le sorrise.
«Non eri
male neanche tu, sai?» replicò, tutt’altro che
sarcastico, sfiorandole la mano con le labbra. «Per fortuna avevo
ancora una camicia pulita o avrei dovuto chiedere i trucchi a Iron per
mascherare tutti quei succhiotti. Sembro un dalmata»
scherzò.
«Sta’ zitto e guida!» protestò lei con una punta di soddisfazione nella voce.
Non
gliel’avrebbe mai detto, ma quelle libbre di troppo che si
portava addosso avevano avuto un effetto imprevisto sulla sua libido.
Lo preferiva ora, con i muscoli ancora forti e massicci ma meno
definiti, più morbidi, velati dalla carne. Le faceva venire in
mente la Torran, con la sua carrozzeria morbida, solo a tratti
spigolosa, plasmata per racchiudere un motore potente.
«Cosa
credi che voglia quel matto, a quest’ora del mattino?»
sviò per cancellare le immagini che le riaffioravano alla mente.
Avevano
ricevuto una chiamata da Avelan meno di un’ora prima, che
cinguettava giulivo all’altro capo del ricevitore di raggiungerlo
il prima possibile, imponendo la presenza del direttivo della
“Legendary Customs” al completo.
«Spero
riempirmi le tasche di soldi con largo anticipo, ma non ci farei troppo
affidamento» ringhiò serrando la presa sulle cloche.
Sandy si sistemò meglio sul sedile, osservandolo dubbiosa.
«Sospetti una fregatura?»
«Ne ho prese troppe in vita mia per escluderle a priori» ribatté aspro.
Pur non avendo
accennato al divorzio, ebbe la netta sensazione che fosse in cima alla
sua lista. Annuì, fingendo di interessarsi al loro riflesso
nelle vetrine scure del quartiere.
«Per fortuna Charlotte era già in ufficio: a casa non ha il telettrofono
e sinceramente non so neppure dove abiti… Non so come avremmo
fatto a rintracciarla. Secondo te che ci faceva alla
“Legendary” a quest’ora?» chiese l’uomo,
allusivo.
Sandy accavallò le gambe, tamburellando con la punta della scarpa sulla parte inferiore della plancia.
«Non
penserai che sia stata con quell’imbecille di tuo cugino, vero?
Guarda che se n’è andata alle sette, è venuta in
ufficio a salutarmi. Sarà stata la sua solita insonnia, sono
mesi che non chiude occhio come si deve. Quella ragazza è troppo
fissata con il lavoro, dovrebbe trovare qualcos’altro cui
pensare, magari un hobby».
«Magari
un uomo. Un tipo complicato e con un passato difficile che ha bisogno
di essere tenuto in riga» ammiccò Clay accarezzandole la
coscia.
La donna sorrise, posando la mano sulla sua un attimo prima di graffiarla.
«Stai.
Zitto» ribadì mentre, con enorme sorpresa di Clay, lo
tratteneva premendogli il palmo poco più in basso
dell’anca. «E comunque, anche se fosse, di certo non
ripiegherà su di lui. Charlotte ha una dignità».
Arrivarono alla
“Legendary” quando mancavano una quindicina di minuti alle
sette. Scorch e Charlotte stavano uscendo in quel momento dal portone.
Avrebbero dovuto fermarsi a richiuderlo prima di attraversare lo
spiazzo e superare il cancello.
Lomann decise
che non poteva buttare via l’occasione. Doveva provarci.
Calcolò a spanne quanto tempo sarebbe occorso ai due per
raggiungerli: era sufficiente.
«Vorrei
svegliarmi ogni giorno come oggi» mormorò intrecciando le
dita con le sue. «Oppure potrei venire da voi la mattina, tanto
mi alzo presto comunque, non sarebbe un peso. Potremmo fare colazione
tutti insieme, porterei le brioches. E finito lì, vi carico
sulla Torran e porto Bonnie e Junior a scuola, poi io e te veniamo qui
o ti accompagno agli incontri come facevamo prima, e al pomeriggio
vieni con me a riprendere i ragazzi e…»
S’interruppe.
Sandy si era liberta dalla stretta e lo fissava. C’era
un’ombra di dolcezza nel suo sguardo, dove però era
semplice leggere quanto fosse offesa e amareggiata. Lo stesso sguardo
di quel giorno di sette anni prima, quando era successo tutto.
«Alexandra, io… per favore. Per favore».
Lei, sentendo i
passi degli altri ormai vicini, si sforzò di sorridere,
aggiustandogli il colletto della camicia scompigliato dal vento.
«Non è il momento, Clay» lo zittì.
***
Avelan aveva
parlato per soli cinque minuti. Un’inezia rispetto al solito
fiume di parole. Poche frasi, secche e precise, chiarissime. Nessuno se
ne capacitava.
E ancor più sconcertante era Goundoulakis, vestito di tutto punto e sorridente come suo solito, presente attraverso un dinamoschermo. I suoi occhi scuri trapassavano l’etere e la lastra di vetro, quasi fosse realmente fra loro.
Sandy scosse il capo, strabuzzando gli occhi.
«Puoi ripetere, Ostap?»
Il magnate giunse le mani e vi poggiò il mento, rivolgendole uno sguardo sognante.
«Abbiamo
bisogno di un’airship da corsa o Gunner non verrà.
È la sua sola condizione» ripeté.
Clay e Niklas
erano impietriti sulle poltrone. Il primo stringeva i braccioli, mente
e voce azzerati, impreparato a una proposta del genere. Considerati la
mole di arretrati, gli abituali imprevisti, i prossimi arrivi delle
vecchie glorie da restaurare, l’organico snervato e mancante di
un membro, non era davvero la notizia che si aspettava di udire. Il
secondo tremava e sudava freddo. Aveva l’espressione sconcertata
di chi vede i proprio sogni concretizzarsi nel momento sbagliato per
goderne: era intimamente convinto che quell’idea assurda fosse
germinata dagli schizzi che teneva stupidamente in vista sulla
scrivania e che Avelan aveva visto, un’imbeccata da inconsapevole
maestro. Lanciò uno sguardo a PigTail che, in piedi accanto al
russo, fungeva da osservatore per conto del proprio capo. Questi
rispose incurvando appena l’angolo destro della bocca, in una
smorfia che non sapeva di sorriso né di malignità.
«Signor
Avelan, signor Goundoulakis» iniziò Charlotte, spezzando
con tono professionale il silenzio che aleggiava nello studio.
«Avete un’idea delle tempistiche che un’operazione
simile richieda? Non mi riferisco unicamente alla costruzione del
mezzo, che di per sé risulta comunque impegnativa, ma anche alla
sua certificazione da parte del Dipartimento per…»
«Signorina
Vernet,» intervenne pacifico Aris dallo schermo, «non si
agiti, la prego. Abbiamo convenuto di offrirle tutta l’assistenza
giuridica possibile attraverso il signor Hammond».
La segretaria
posò lo sguardo su Thomas, sentendosi a disagio. Aveva
l’impressione che l’offerta celasse una sorta di condanna.
«Ma le
richieste hanno tempi di evasione molto lunghi e possono essere
effettuate solo a mezzo completato» obbiettò.
«Non
preoccuparti. Lascia fare al mio ragazzo, lui conosce bene il
sistema» ribatté Ostap, lisciandosi la barba sulle guance
tonde.
Nel frattempo,
i due cugini avevano continuato a scambiarsi occhiate e sillabe
sconnesse, che poco alla volta erano passate dall’incredulo al
timoroso per sfociare in una crescente esaltazione. I loro sogni, le
speranze di bambini e tecnici, l’occasione di lasciare un segno
tangibile nel mondo delle airship, la possibilità di dare una
svolta vera al destino della “Legendary Customs” e renderla
realmente una leggenda: era tutto lì, nelle loro mani, in una
decisione tanto semplice quanto ardua. Una parola. Solo una parola. Da
pronunciare di comune accordo affinché il piede del destino
abbassasse il pedale dell’acceleratore, sospingendo
l’aeromobile che ospitava le loro vite - e quelle dei ragazzi -
verso la gloria o la disfatta.
«Dunque
la vostra decisione è…» li sollecitò Avelan,
pur certo della risposta che avrebbe udito.
«Accettiamo!» esultarono all’unisono.
Sandy si allungò scomposta sulla poltrona e prese per mano l’amica, che la guardò sorpresa.
«Charlotte, siamo in un mare di guai».
Writer's Corner
Di nuovo in
ritardo, ma spero vi siate accorti che nel mezzo non c'è stato
il nulla assoluto ma una nuova storia nella sezione "Licantropi". Se
volete darle un'occhiata, è "I morsi della paura".
Grazie come sempre a tutti i lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
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