“Le tue ultime volontà?”
“Ti amo. Ora uccidimi”.
La guardò esterrefatto. Tremava
Anko, dopo le atroci torture a cui era stata sottoposta, non si
reggeva nemmeno in piedi. Eppure il suo sguardo raccontava un'altra
storia: esausto sì, ma senza una traccia di paura, sebbene
sapesse la fine che la stava aspettando. Sibilò a Kabuto di
andarsene dalla cella, ed egli ubbidì senza fiatare,
lanciando un'ultima occhiata alla prigioniera.
“Nessuno mi ha mai detto una cosa
del genere”. Le si avvicinò.
Sorrise nel vederlo smarrito, per una
volta. “Beh, c'è sempre una prima volta”.
Calò il silenzio, e per alcuni
attimi si poterono udire solo i loro respiri. Lei lo fissava
intensamente, tentando di memorizzare ogni dettaglio del suo
carnefice, dai lunghi capelli corvini alle pallide mani affusolate,
che tanto avrebbe voluto su di sé. “Allora, ti decidi o
no? Non avrai di certo tutto questo tempo da perdere con me...”
Si riprese dalla momentanea esitazione.
E sogghignò. No, non l'avrebbe accontentata subito. L'avrebbe
lasciata andare, perché quella sarebbe stata una punizione ben
peggiore della semplice morte, che tutto fa cadere nell'oblio: invece
così, non lo avrebbe mai dimenticato. Dopotutto, ci sono molti
modi per uccidere una persona.
Lentamente, estrasse dalla tunica la
chiave delle catene che le immobilizzavano i polsi, e ne aprì
il lucchetto, che cadde a terra con un lieve tonfo.
“Vattene”.
“Come?”
“Ti ho detto di andartene. Anzi,
mi assicurerò che tu sia riportata in quel porcile di Konoha”.
Quelle furono le ultime parole che Anko
sentì prima che il marchio maledetto si attivasse,
facendole perdere i sensi.
Si risvegliò qualche giorno dopo
in un'asettica stanza d'ospedale, sentendosi vuota. E l'agonia era
appena inziata.
|