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Capitolo 1: Un
viaggio nell’Oscurità
“Boromir. Boromir!” La voce
familiare, un sussurro urgente nell’oscurità, proveniva da un punto molto
vicino. Voltò la testa nella direzione del suono, e la voce sibilò nuovamente.
“Boromir!”
“Aragorn?”
L’intero volto gli doleva
così tanto che non riusciva nemmeno a muovere la mascella, tuttavia, chissà
come, riuscì a parlare. L’uomo accanto a lui doveva aver compreso il suo
mormorio, perché, con sua sorpresa, rispose.
“Non usare quel nome.
Chiamami Grampasso”.
“Cosa è accaduto? Dove
siamo?”
“Gli Orchi ci hanno
catturato”.
Boromir tentò di alzarsi, ma
scoprì che non riusciva a muoversi. Si sentiva come se fosse stato calpestato da
una mandria di cavalli impazziti, ed era pervaso da una terribile stanchezza.
“Non ti muovere”, disse
Aragorn. “Hanno estratto le frecce e fasciato le ferite, ma hai perso molto
sangue”.
“Frecce…”
Boromir si lasciò cadere
nuovamente contro le dure pietre e cercò di pensare. Di ricordare. L’ultima cosa
che ricordava, prima di svegliarsi in quella fredda e dolorosa oscurità, era che
stava combattendo disperatamente contro un’orda ripugnante di orchi, squarciando
e fendendo, e ruggendo il suo disprezzo e la sua sfida verso la loro
schiacciante superiorità numerica. Alle sue spalle gli Hobbit si stavano
ritirando lentamente tra gli alberi, riluttanti ad abbandonarlo eppure
terrorizzati di fronte ad un nemico troppo grande per le loro piccole spade.
E poi...poi la prima freccia
lo aveva colpito, e lui aveva gridato a Merry di fuggire…di fuggire finché
poteva…e di portare Pipino con lui! Merry era il più ragionevole dei due.
Avrebbe capito che era la cosa giusta da fare, e avrebbe protetto Pipino.
Un’altra freccia. Ricordava
l’impatto distruttivo di un’altra freccia, che lo aveva fatto cadere in
ginocchio, e l’orrore dipinto nei visi degli Hobbit mentre cadeva. Ma era sicuro
che alla fine erano fuggiti… se non era soltanto un inganno dettato dalla sua
disperazione. Era sicuro di averli visti voltarsi e svanire tra gli alberi. Poi
si era fatto coraggio, e si era preparato al colpo finale. Al colpo mortale.
Perché non l’avevano ucciso?
Che cosa stava dimenticando? Ricordava una voce, gutturale e sgradevole, che
gridava, “Prendete l’Uomo!” E poi? Poi un’enorme sagoma che incombeva su di lui,
la spada alzata per colpire, e un colpo violento, non sul collo ma…
Boromir rabbrividì e si
voltò verso l’uomo al suo fianco.
Non ricordava che Aragorn
fosse nella battaglia, ma sapeva di avere suonato Corno di Gondor. Forse il
suono aveva fatto accorrere il Ramingo in suo aiuto… condannando anch'egli al
suo stesso destino.
“Mi dispiace, Grampasso”,
mormorò, esitando nell’adoperare l’insolito e irrispettoso nome.
“No, Boromir. Sono io che ho
fallito. Sono arrivato troppo tardi per salvare anche uno solo di noi”.
Aragorn non parlò dello
shock e dell’orrore che aveva provato quando, arrivato nella radura di Parth
Galen, aveva visto il capo degli orchi abbattere la sua mostruosa spada di
piatto sul viso di Boromir, frantumando ossa e carne insieme e facendo schizzare
il sangue da sotto la lama, mentre il valoroso guerriero crollava al suolo,
esanime.
Aragorn aveva combattuto
quell’ultima, disperata battaglia nella certezza che Boromir fosse morto. E ora,
mentre conversavano sottovoce distesi tra le aride rocce dell’ Emyn Muil, non
poté reprimere il terribile pensiero che forse sarebbe stato meglio per Boromir
essere davvero morto sotto i colpi degli Orchi.
Boromir giaceva
assolutamente immobile, assorbendo le sue parole, poi, con un tremito nella voce
sussurrò, “I piccoletti?”
“Non li hanno presi. Non…
non so esattamente cosa è stato di loro, ma non sono qui”.
“Ti prego…fa che siano salvi
lontano da qui”.
“Hai fatto tutto quello che
potevi per loro, Boromir. Il loro destino non è più nelle nostre mani”.
Prima che l’altro uomo
potesse rispondere, una figura imponente apparve sopra di loro. “Conversazione
piacevole, ragazzi?” ringhiò.
Aragorn sollevò lo sguardo
verso l’odiosa faccia piatta e squamosa di Uglùk, il capitano delle forze di
Saruman, e gemette silenziosamente.
“Lascialo in pace, Uglùk”,
disse.
“Non posso farlo. Portare
gli Uomini vivi, questi sono i miei ordini. E se lo lascio in pace, il soldatino
morirà”. Uglùk afferrò Boromir per la tunica e lo sollevò senza sforzo dal
terreno. Boromir emise un rantolo involontario al riaccendersi del dolore nel
suo corpo e nella sua testa, e Uglùk gli spinse tra i denti il collo di una
bottiglia. “Avanti, fa’ il bravo soldato e bevi”.
Boromir non aveva scelta. Se
non voleva soffocare doveva ingoiare il liquido bollente che gli veniva versato
in gola.
Dopo che lo ebbe costretto a
deglutire, Uglùk allentò la presa e lasciò cadere il corpo martoriato ed esausto
sul terreno roccioso. Boromir urlò di dolore.
Era ancora troppo stordito e
spossato per il rude trattamento di Uglùk per accorgersi che l’orco aveva
cominciato a sollevare le bende che gli fasciavano le ferite alla spalla e al
fianco. Uglùk sembrò soddisfatto di quello che trovò, poiché con uno strattone
risistemò le bende e diede a Boromir un buffetto sulla guancia che avrebbe
abbattuto un troll di caverna.
“Splendido. Sai, se non
avessi fatto a pezzi tanti dei miei ragazzi, penso che potresti anche cominciare
a piacermi, soldatino. Peccato che sei solo un Uomo, e diretto ai sotterranei di
Isengard, per di più.” La sua orribile zampa scostò leggermente la pesante benda
che copriva il viso di Boromir. “Peccato. Lurtz non ha lasciato un granché,
comunque”.
Uglùk si voltò bruscamente
verso Aragorn per dargli un calcio col suo piede calloso. Lo prese in pieno
petto, strappandogli un gemito di dolore, e con un secondo calcio lo colpì in
viso. “Poi sei arrivato tu e gli hai tagliato la testa, che tu sia maledetto!”
Aragorn sputò una boccata di
sangue e rivolse a Uglùk uno sguardo distante, privo di emozioni. “E farò lo
stesso a te, Uglùk.”
“Bella gratitudine da parte
tua, dopo che io salvo la tua miserabile vita e ti trascino attraverso queste
dannate colline! E’ ora di darci una mossa, ragazzi!”
Rivolgendosi a uno del suo
gruppo indicò in direzione di Aragorn e ringhiò, “Lugdush, tu porterai questa
carogna per il primo tratto. Tu invece,” e afferrò Boromir per il mantello
costringendolo ad alzarsi, “puoi camminare”.
Boromir barcollò e cadde in
ginocchio, guadagnandosi un altro violento calcio da Uglùk. Poi l’orco lo
afferrò per il braccio sinistro, e quando lo sollevò in piedi, Boromir si lasciò
sfuggire un lacerante grido di dolore, causando l’ilarità di Uglùk.
“Se pensi che faccia male
adesso, aspetta di avere camminato per tutta la strada fino ad Orthanc”.
Un istante dopo, Boromir
sentì il cappio di una corda che veniva stretto attorno al suo collo, poi uno
strattone all’altra estremità che lo fece quasi cadere di nuovo. “Grampasso?”
chiamò, mentre l’orco che teneva la corda cominciava a trascinarlo via.
“Sono qui”.
La voce era vicina, ma c’era
qualcosa che disorientava Boromir. Sembrava attutita, e proveniva da un’altezza
sbagliata. Gli ci volle un momento per rendersi conto che Aragorn stava venendo
trasportato sulle spalle di un orco.
“Cosa ti hanno fatto?”
domandò Boromir. “Perché non puoi camm…” L’orco che teneva la corda diede uno
strattone e il cappio gli tolse l’aria, soffocando sue parole.
“Non è nulla. Una ferita
alla gamba”.
Boromir ritrovò
l’equilibrio, ma stavolta ebbe la prontezza di stringere il suo pugno attorno
alla corda, allentando la tensione del cappio e proteggendo la sua gola dagli
eccessi d’entusiasmo del suo guardiano. “Grampasso”, chiamò ancora, “hai un’idea
di dove siamo?”
“Vicino alla riva
occidentale dell’Emyn Muil, credo”.
“Silenzio, voi”, ringhiò un
Orco da poco lontano.
“Quanto tempo è passato?”,
domandò Boromir, ignorando l’orco.
“Dalla b… NO!” Gridò
Aragorn, col panico nella voce. “Non sul viso!”
“Ho detto silenzio!”
Poi un improvviso,
abbagliante dolore esplose nella testa di Boromir, che si accasciò al suolo. Per
un periodo interminabile di tempo non conobbe altro che indicibile sofferenza, e
una paura confusa, urlante, che quella fosse la morte, e che avrebbe dovuto
sopportarla per l’eternità.
Molto lentamente ritornò ad
avere consapevolezza delle sue mani che afferravano il suo viso, di sangue
fresco che scorreva tra le sue dita, e di qualcosa o qualcuno che gemeva lì
accanto. Sembrava un animale ferito, una creatura colpita così mortalmente da
non poter emettere un suono vero e proprio, eppure troppo disperata nel suo
dolore per restare in silenzio.
Avrebbe voluto aiutare
quella creatura, o almeno tagliarle la gola e mettere fine alla sua agonia, ma
non riusciva a muoversi per cercarla. Il suo corpo era rigido e tremante, i suoi
muscoli come bloccati, la sua mente paralizzata.
E poi capì. Capì che lo
spaventoso suono proveniva dalla sua stessa gola, risalendo dai suoi polmoni che
non riuscivano a respirare, oltre la sua mascella serrata per bloccare il panico
crescente.
Mani dagli artigli di ferro
lo afferrarono per le spalle, voltandolo sulla schiena e inchiodandolo contro le
rocce. Poi altre zampe strinsero i suoi polsi, togliendogli con la forza le mani
dal viso.
Una voce nota ringhiò da
qualche parte sopra di lui. “Idiota! Devono essere consegnati vivi!”
Ancora una volta gli
portarono la bottiglia alla bocca, e Boromir fu costretto a inghiottire un
secondo sorso del disgustoso liquore orchesco.
“Se l’hai ucciso ti scuoierò
con le mie mani, Snaga, e ti darò in pasto ai ragazzi per cena!”
“Avevi detto che non
dovevano parlare”, piagnucolò Snaga.
“Se parla fagli il solletico
con la tua frusta! Insegnagli un po’ di buone maniere, ma non ucciderlo, razza
di stupida scimmia! Ora lo porti tu fino alla scalinata”.
“Bah. Questi pelle-bianca
sono pesanti. Troppo pesanti per portarli a spalla fino a Isengard”.
“Questo ti insegnerà a stare
più attento. Fallo alzare, e muoviti, oppure molto presto sarai tu ad
assaggiare la mia frusta!”
Boromir sentì braccia
robuste che lo sollevavano, poi fu gettato sopra una spalla ampia, squamosa e
brutalmente dura, con entrambe le braccia che oscillavano a peso morto. Ogni
movimento riaccendeva una nuova fiammata di dolore nelle ferite al suo fianco
sinistro.
Ma nonostante tutto era
grato di non dover stare in piedi e camminare da solo, grato per la solida forza
dell’orco che lo sosteneva, e grato di essere ancora vivo. Lasciò che la testa
poggiasse sulla schiena dell’orco e cercò di ignorare il sangue che scorreva
lungo il suo viso, gocciolando sulle rocce sotto di lui.
La truppa di orchi si rimise
in marcia di corsa sobbalzando. Boromir soffocò un lamento e si disse che poteva
sopportarlo. Poteva sopportare ogni cosa, se significava che la Compagnia, i
suoi amici, erano potuti sfuggire alle grinfie degli orchi.
Quando la truppa raggiunse
il dirupo occidentale dell’ Emyn Muil, Uglùk chiamò l’alt. Avevano viaggiato per
tutta la notte e parte della mattinata, con grande disagio di alcuni degli orchi
più piccoli, e ora si trovavano ad affrontare la minaccia delle aperte pianure
di Rohan. Uglùk avrebbe voluto proseguire rapidamente per Isengard, ma con il
peso aggiuntivo di due prigionieri e i Rohirrim che pattugliavano le pianure
dubitava che i suoi compagni ce l’avrebbero fatta. Mentre gli orchi si
riposavano e discutevano sulla strada da prendere, aspettando che il sole
tramontasse, i loro prigionieri giacevano uno accanto all’altro sulle dure rocce
e cercavano di raccogliere le forze per la successiva tappa del viaggio.
Ma a Boromir la sosta non
dava alcun sollievo. L'andatura sobbalzante degli orchi non tormentava per il
momento il suo corpo ferito, e Boromir era grato di quel piccolo miglioramento,
ma i suoi soli compagni erano ancora oscurità, sofferenza, e dolore. Nemmeno i
suoi pensieri gli offrivano conforto, riportandolo sempre alla radura di Amon
Hen, al suo fallimento e al suo tradimento.
Aveva distrutto così tanto,
in quel solo, unico istante, così tanto che non avrebbe mai potuto porvi
rimedio. Un odio amaro verso se stesso lo invase, mentre rivedeva il disgusto e
l’orrore negli occhi di Frodo, sentiva la paura nella sua voce, e vedeva il
piccolo hobbit affannarsi disperatamente per sfuggire alle sue mani che lo
afferravano.
Quel ricordo da solo era
sufficiente per farlo avvampare di vergogna. Non aveva bisogno di ricordare alla
sua coscienza che aveva infranto il suo giuramento, insudiciato il suo onore e
il suo buon nome, che era caduto preda delle menzogne sussurrate dal Nemico, e
che aveva condotto il suo re alla prigionia, forse anche alla morte per mano di
Saruman. Tutte queste cose erano come sale nella più crudele delle ferite.
Accanto a lui Aragorn si
mosse, strisciando contro la ghiaia e le rocce smosse. Un tenue lamento gli
sfuggì dalle labbra, e Boromir si chiese ancora una volta quali altre ferite
avesse subito Aragorn delle quali non parlava.
Sembrava impossibile che una
squadra di orchi fosse riuscita a prendere il Ramingo vivo, e ancora più
impossibile che riuscissero a tenerlo prigioniero, eppure Aragorn non aveva
nemmeno fatto un tentativo per fuggire. O le sue ferite erano troppo gravi per
permetterglielo, oppure aveva altre ragioni per restare. Quale fosse la verità,
Boromir non voleva saperlo. Quel pensiero non faceva che gravare ancora di più
il fardello della sua colpa.
Aragorn si spostò finché la
sua spalla andò a toccare il braccio di Boromir e la sua testa fu così vicina
che Boromir poté sentire il calore del suo respiro. “Come stai?” mormorò il
ramingo.
“Abbastanza bene”, rispose
Boromir, a voce così bassa da essere a stento udibile. “E tu?”
“Abbastanza male”. Esitò,
poi aggiunse, “La prossima tappa sarà molto dura. Dovresti riposare”.
“Non ci riesco”.
“Nemmeno io”.
Rimasero in silenzio,
ascoltando il rumori del campo e indugiando nei loro pensieri. Poco dopo,
Boromir si mosse, e cominciò a parlare di quello che gli opprimeva l’animo.
“Sono andati nella Terra
Oscura senza di noi. Nel cuore dell’Ombra”.
“E’ sempre stato quello il
sentiero che volevano percorrere, con noi o senza di noi”.
“La strada è troppo buia per
i piccoletti. Il dolore li coglierà. Si perderanno nell’Ombra. E io… io che
avrei dovuto proteggerli da ogni pericolo…” Si interruppe, incapace di dare voce
al suo fallimento.
“Hai combattuto per loro,
anche di fronte alla morte,” mormorò Aragorn. “Nessun uomo avrebbe potuto fare
di più”.
Alle parole di Aragorn,
Boromir sentì l’amarezza assalirlo di nuovo. Nella sua voce c’erano
comprensione, il desiderio di guarire e di perdonare, e con tutto il cuore
avrebbe voluto meritare una tale generosità. Ma sapeva di non esserne degno, e
l’offerta lo irritava. Cercò invano le parole per dire ad Aragorn del suo
tradimento. Nessuna sembrava abbastanza orribile per descrivere la verità. Si
stava ancora dibattendo nel suo silenzio, quando Aragorn parlò nuovamente.
“So quale nemico hai
affrontato, ma ho lasciato che tu lo combattessi da solo. E quando mi hai
chiesto aiuto, sono arrivato troppo tardi. Mi dispiace, Boromir. Mi dispiace di
averti deluso”.
“Non lo hai fatto. Anche tu
avevi orchi da combattere”.
“Non sto parlando degli
orchi”. Tacque un istante, dando a Boromir il tempo per capire il significato
delle sue parole. “Mi dispiace, amico mio”, ripeté con dolcezza.
“No”. Boromir voltò il capo
in segno di diniego, turbato. Sentì la voce venirgli meno. “Non chiamarmi amico.
Non sai quello che ho fatto”.
“Invece lo so. Ho parlato
con Frodo”.
Boromir deglutì per
allentare la tensione nella sua gola, lottando per nascondere la profondità del
suo turbamento. “Gli avrei fatto del male, Grampasso. Avrei fatto qualunque
cosa, per avere l’Anello anche solo per un istante”.
“Lo so”.
Il dolore e la comprensione
nella voce del Ramingo non fecero altro che peggiorare l’angoscia di Boromir.
“Ho tradito la Compagnia. Ho
attaccato il portatore dell’Anello. Ho disonorato me stesso e la mia gente.
Tutto questo”, e indicò con un gesto vago della mano, “è solo quello che mi
merito”.
“Non parlare così! Non c’è
disonore nell’essere Umani”, mormorò Aragorn, con voce greve per le lacrime.
“Io, tra tutti gli uomini,
dovrei saperlo bene. E qualunque colpa possa mai essere ricaduta su di te è
stata sollevata dal tuo essere pronto a combattere e a morire per i tuoi
compagni. Se c’è qualcuno da incolpare qui, quello sono io. Ero il capo della
Compagnia, responsabile della salvezza di tutti i suoi componenti, compresa la
tua. Sono stato io che, chiamato alla battaglia, sono arrivato troppo tardi.
Sono io quello che gli orchi cercavano, quello per cui tu hai dovuto pagare
questo prezzo”.
“E io sono quello che ti ha
attirato nella loro trappola”. Voltandosi di nuovo verso il Ramingo, Boromir
continuò. “Perché Saruman vuole te, Aragorn?”
“Perché io sono
Aragorn, l’ Erede di Isildur. Forse crede che io abbia l’ Anello, o forse
spera di sapere da me dove trovarlo”.
“Allora lui sa chi sei”.
“Sì”.
“Conosce anche il tuo viso,
o soltanto il tuo nome? Sa chi noi due è quello che cerca?”
“Lo saprà”.
“Ma gli orchi non lo sanno.”
Non era una domanda. Il buon senso di Boromir gli diceva che Saruman non aveva
rivelato ai suoi servi più di quanto fosse strettamente necessario, e il fatto
che li avessero presi entrambi vivi provava che non sapevano quale dei due
uomini fosse l’obiettivo dello stregone.
“Grampasso, tu non devi
andare a Isengard”.
Aragorn rise mestamente.
“Sembra che non abbia molta scelta”.
“Non devi. Saruman non ti
terrà a lungo. Ti consegnerà a Sauron, e finirai la tua vita tra i tormenti, nei
neri abissi di Barad-dûr”.
“So quale
destino mi aspetta, Boromir”.
“Tu devi
fuggire prima che raggiungiamo Isengard. Forse posso convincere gli orchi che
sono io quello che Saruman cerca, e loro ti sorveglieranno meno attentamente…”
“No. Non fuggirò, se questo
significa abbandonare te nelle mani di Saruman”.
“Ma tu devi. Io
troverò un modo!”
Aragorn non rispose per
alcuni istanti, e Boromir ebbe l’impressione che il Ramingo fosse stato colto
impreparato dalla sua veemenza. Infine, in un silenzio carico di tensione,
Aragorn mormorò, “Trovane uno che ci faccia sopravvivere entrambi”.
Boromir non disse nulla. Non
avrebbe discusso con Aragorn, ma aveva poca speranza di fuggire, e ancora meno
desiderio di farlo. La sua vita come l’aveva conosciuta fino ad allora era
finita - disonorata e degradata dal suo attacco al Portatore dell’ Anello,
frantumata dalla lama di una spada orchesca - perciò cosa importava se esalava
il suo ultimo respiro nei sotterranei di Orthanc? Se solo avesse potuto
garantire ad Aragorn vita e libertà, per condurre le armate dell’Ovest contro
Sauron, Boromir avrebbe considerato la sua vita ben spesa.
Giaceva immobile e
silenzioso, fingendo di dormire, mentre valutava nella sua mente piani per la
fuga di Aragorn, usando quel compito per impedire ai pensieri e ai ricordi di
riaffiorare. Era qualcosa di solido sul quale appoggiarsi, una ritrovata
sicurezza e uno scopo, un terreno familiare sotto i piedi. Tattiche e strategie,
scelte di vita o di morte, le dure necessità della guerra, quello era il pane
quotidiano che sosteneva un comandante sul campo di battaglia, e ora sosteneva
Boromir.
Al tramonto Uglùk fece
alzare le truppe e risvegliò a calci i prigionieri. Fu dato loro un pasto
frettoloso che non riuscirono a consumare. Poi Aragorn fu issato sulla spalla di
un grosso orco, mentre Boromir, ora abbastanza in forze da reggersi sulle
proprie gambe, fu legato con una fune al suo guardiano e ammonito perché non
tentasse di fuggire. A un grido dì Uglùk e allo schioccare di una frusta, il
gruppo si mise in marcia per un ripido sentiero roccioso in mezzo alle colline,
diretto verso le dolci pianure di Rohan.
Continua…
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